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Gli spettacoli di Siracusa, che quest’anno si presentano per la prima volta nella cornice di una vera e propria ‘stagione’ teatrale, come annuncia il nuovo sovrintendente Antonio Calbi, costituiscono una festa per la città, una specie di rito collettivo per i licei classici non solo siciliani, una non secondaria attrazione turistica tra le testimonianze archeologiche. Unico e essenziale in una tale ‘stagione’ diventa perciò il coinvolgimento emotivo di tutto il pubblico, sia dei novizi che si trovano a Siracusa per caso, magari dagli Stati Uniti o dal Giappone, sia degli affezionati siracusani che seguono da generazioni gli spettacoli con lo stato d’animo della ‘prima’ a cui bisogna esser presenti, e ogni anno trascina pure i cultori della letteratura greca e gli specialisti di teatro antico, che arrivano lì con curiosità ma anche voglia di imparare e confrontarsi con una contemporanea ‘visione del tragico’.  

Cercheremo in altra occasione di raccontare dello speciale pubblico siracusano, delle sue varie aspettative, degli umori e delle opinioni mutevoli, dello straniamento, della calca e dei piccoli malori sulle gradinate che pur con i cuscini non possono essere rese comode come poltrone.  Ma qui vorremmo porre una domanda, banale, forse,  ma ugualmente essenziale: a cosa serve assistere a queste rappresentazioni? Bisogna contare solo sul piacere insito nel prendere parte ad una tradizione, all’occasione di avvicinarsi ad un mondo, quello della prassi teatrale, purtroppo lontano dai libri e dalle biblioteche? Oppure queste messe in scena offrono anche la possibilità di riflettere sui testi tragici greci e di chiedersi nuovamente cosa vogliano dire?

Si deve pur in breve premettere che gli spettacoli di Siracusa contano su una tradizione di 106 anni unica in Italia, da sempre supportata dai migliori studiosi di teatro greco, per la quale la traduzione dei testi, dunque dei copioni, viene affidata per lo più a specialisti della letteratura greca, non solo a poeti o drammaturghi. Tale tradizione garantisce il rispetto filologico degli originali. Gli spettacoli di Siracusa nascono inoltre su un altro presupposto: ai registi viene chiesto di portare in scena un testo che non hanno scelto loro, dunque di lavorare su commissione, per di più su copioni che sono stati tradotti da chi non è necessariamente esperto anche di teorie e pratiche del teatro contemporaneo, ma conosce bene una lingua antica e i contesti storici nei quali era performata. Si aggiunga che i traduttori, in quanto filologi e studiosi di letteratura, interpretano i testi, ma non sempre possiedono consapevolezza dei problemi concreti e delle possibilità dello spazio scenico; tale consapevolezza viene demandata al regista, che normalmente però opera in teatri o spazi contemporanei e non in spazi archeologici. Il che implicherebbe che ogni regista dovrebbe forse preliminarmente informarsi sulla storia del teatro di Siracusa, chiedersi cos’è che è rimasto e si vede, e forse anche interrogarsi sul rapporto tra le rovine del teatro di Siracusa e la scena originaria di Atene nel V sec. a.C.  Ma forse è esigere troppo: in una sezione a parte del nostro sito web, a cura di Raffaella Viccei,  tratteremo comunque di questi ed altri temi connessi.

Torniamo allora alla domanda da cui siamo partiti (serve assistere agli spettacoli di Siracusa?) e anticipiamo la nostra risposta: si, perché serve anche per riflettere sul testo antico. Del resto, quel che ogni studioso di tragedia antica fa o dovrebbe fare, leggendo e commentando i testi, è immaginarsi come fossero messi in scena, e in un certo senso il lavoro dei registi facilita e realizza quest’immaginazione, ponendosi questioni pratiche di rappresentazione, anche se questi sono lontanissimi dalla prassi teatrale del V sec.a.C.. Come nello studio di ogni forma di ricezione, insomma, chiedersi il perché delle scelte registiche ed attoriali, aiuta a tornare poi al testo antico e al suo contesto. Gli spettacoli di quest’anno, l’Elena con la regia di Davide Livermore e le Troiane con quella di Murielle Mayette-Holtz, non mancano anche quest’obiettivo.

La stagione siracusana 2019 presenta due spettacoli assai lontani tra loro. Anzi: direi che l’unico comune denominatore sta nella chiarezza, nella lucidità, nel rigore studiato delle due traduzioni, l’ Elena  a cura di Walter Lapini, le Troiane a cura di Alessandro Grilli.   Spettacolare è risultata la messa in scena di Davide Livermore: una diroccata nave da guerra, un pantano nel quale gli attori sono costretti a recitare, uso abbondante di mezzi audiovisivi e di oggetti di scena mobili, moderne mechanai, cura preziosa degli oggetti di scena, tra cui specchi ed abiti da sera, ibridazione dei costumi in cui compaiono settecenteschi broccati e parrucche, intreccio sapiente della musica con il recitato e la danza, impiego di musica praticata in scena, con il canto e con l’arpa, interventi anacronistici come la sigaretta condivisa tra uno scanzonato Menelao (Sax Nicosia) ed un’ironica vecchia serva (Maria Grazia Solano). Livermore mette in scena tutta la sua esperienza come regista d’opera, con stringenti analogie con la sua prima della Scala 2018/2019, l’ Attila di Verdi.

Scabra, nuda, ai limiti della monotonia, invece,  la regia della Mayette, che per le Troiane ha potuto disporre di uno scenografo d’eccezione, Stefano Boeri, il quale ha portato a Siracusa i tronchi divelti dalla catastrofe naturale in Friuli, e li ha fatti erigere, monumento alla distruzione, nel teatro siciliano: un’azione simbolica,  più che una scenografia, di cui la stampa ha dato abbondantemente conto; e poiché la foresta distrutta sarà ripiantata a Siracusa col nome di ‘bosco delle Troiane’, si tratta di un gesto colmo di speranza nel futuro e di una specie di mano tesa dal Sud al Nord italiano.

Ma mentre la scenografia di Livermore, in tutti i suoi mobili e duttili aspetti, si compenetra con il testo di Euripide,  quella adottata da Mayette rimane del tutto estranea a quel che viene recitato in scena, e del resto potrebbe servire a qualsiasi dramma catastrofale, per dir così, della nostra epoca.

Il registro scelto da Mayette è quello dell’uniformità: alla scenografia delle Troiane 2019, infatti, corrispondono una scena bianca e dei costumi tutti uguali, in cui le figure, coro compreso, annegano in un indistinto grigio e bianco, e gli abiti assomigliano pericolosamente a quelli di imbianchini al lavoro. Nello studiato volume che accompagna lo spettacolo, la costumista Marcella Salvo ci avvisa: «Tutto è inesorabilmente grigio […] È l’immensa nuvola di polvere alzatasi per giorni dopo il crollo delle Torri Gemelle del 2001, i reportage fotografici di quelle ore così drammatiche sono state per me fonte di grande ispirazione, una nuvola di polvere che copre tutti, corpi, mani, capelli, volti: toglie l’espressione, neutralizza le differenze». Ci riesce difficile dire cosa il pubblico che non possa leggere le note di Marcella Salvo recepisca della sua «fonte di ispirazione»: però ci sia permesso notare che il paragone implicito con l’ 11 settembre svia dalla comprensione della tragedia di Euripide, perché forse sviante è trattare come un atto di guerra quell’episodio terroristico plateale, una ferita non sanata nel mondo occidentale, fonte ormai anche di tanta vacua retorica; ma soprattutto l’ 11 settembre non può servire da emblema della sorte dei vinti, che sta invece al centro delle Troiane. Il punto di vista appare dunque rovesciato rispetto a quello che Euripide proponeva al suo pubblico: Euripide scrisse una tragedia sulla crudeltà dei vincitori che erano greci come il suo pubblico ateniese. Che vi sia o meno (e noi crediamo che vi sia) un’allusione esplicita alla distruzione di Melo, all’eccidio dei suoi abitanti maschi, alla deportazione delle donne dell’isola che non aveva voluto allearsi con Atene, una delle pagine più oscure della storia ateniese, un episodio accaduto per giunta in un periodo di tregua (la pace cosiddetta di Nicia), Euripide voleva mettere in discussione la potenza di Atene, la sua ideologia imperialistica,  la sua autorappresentazione, e perciò smascherava i pericoli della retorica assembleare e l’ingiustizia e l’irresponsabilità delle sue decisioni: da qui il prologo delle due divinità, in cui Atena promette addirittura sangue e lacrime ai suoi tradizionali protetti, i Greci, che hanno sbagliato.  Ci chiediamo, inoltre: se i personaggi e il coro delle Troiane siracusane evocano i superstiti sotto choc dell’attentato alle torri gemelle, da quale parte si situa o si intende far situare il pubblico? Chi sarebbero gli efferati Greci che uccidono un bambino perché erede inconsapevole della gloria del padre, Ettore, e quindi di tutta una civiltà? Assistiamo dunque, per mezzo di un testo che voleva dire il contrario, alla messa in scena della crudeltà e della barbarie di Al Qaeda? Le Troiane di Euripide sono le ultime dignitose eredi di una città, di un impero, completamente distrutto, e questo certo si applica con difficoltà sia all’Isis sia al mondo occidentale o all’impero americano che dopo l’ 11 settembre dette l’avvio a guerre le cui conseguenze sono più che mai attuali.  Ripetiamolo:  Euripide mette in discussione, attraverso il mito, gli strumenti e la liceità delle decisioni dell’assemblea e quindi della democrazia stessa. Cosa vogliono dire, invece, le Troiane  di Mayette? Che noi, vittime dell’ 11 settembre e del Bataclan, siamo i ‘buoni’ ingiustamente sterminati e feriti, mentre gli ‘altri’ sono i cattivi e gli indifferenti, come il Taltibio messaggero dei Greci impersonato da Paolo Rossi che mette bene in scena se stesso, ma non il suo ruolo?  La prospettiva delle Troiane di Siracusa 2019 ci sembra falsante nel presente, ed anche piuttosto scontata: «Tutte le guerre – scrive la Mayette nelle sue note di regia – sono in un certo senso identiche, annientano tutto, vincitori e vinti […]Per proporre al pubblico un teatro utile, la parola del sommo drammaturgo, è affidata alla forza degli attori, attori immensi, capaci di aprirci il cuore. C’è anche Stefano Boeri, che ritrae la distruzione della natura». Si dà il caso che non tutte le guerre siano identiche, ed è quello che Euripide voleva dire: che alcune azioni di guerra non sono giustificabili, né possono essere sullo stesso piano delle catastrofi naturali (viene in mente la pittoresca definizione di Desert storm per la prima guerra del Gorlfo). Non crediamo che l’ ‘utilità’  del teatro possa consistere, né oggi né nel V sec. a.C., in una tale generalizzazione (ossia nel fatto che ‘tutte le guerre sono terribili’), nella rinuncia, cioè,  alla politica agita sulla scena, o almeno così il teatro risulta «utile», perdendo la sua specificità,  come le tante serie televisive, per lo più americane,  che prospettano la distruzione del mondo dagli alieni e l’eroica resistenza dei sopravvissuti.

In quanto al ‘cuore’ aperto dagli attori e dal poeta, il poeta «che piano piano apre di nuovo quel cuore che si è chiuso e permette alle lacrime di uscire» (ancora parole di Mayette), rinunciamo qui a capire cosa si intenda per ‘cuore’, ma di sicuro Euripide non si rivolgeva ad un pubblico incline a facili commozioni, né le emozioni del teatro, ieri come oggi,  possono essere scisse dal loro senso politico e militante. Si ha l’impressione che le riflessioni alla base di questa messa in scena siano piuttosto convenzionali, rispondano ad una concezione universalistica del ‘classico’ che consideriamo antiquata. Come convenzionali ci sono sembrate le prove delle protagoniste, in testa l’ottima Maddalena Crippa a cui è dato il difficilissimo ruolo di Ecuba.   Eppure la stessa Mayette sottolinea, nella conversazione con Manuel Gilberti e Loredana Faraci, che «il teatro non può mai essere un museo», che è «assolutamente necessario riuscire a provocare nello spettatore un’emozione e indurlo a riflettere sul senso della propria vita». Non ci riesce facile dire a quale riflessione possano indurre le Troiane di Siracusa 2019: che le vittime della guerra, ma anche dei terremoti e delle inondazioni, sono degli sventurati? Sicuramente, ma ci induce poco a riflettere sui motivi di tali sventure, ossia sulle responsabilità umane e politiche che sono alla base delle guerre e di altri eventi distruttivi. Il bianco/grigio indistinto della scena ci appare allora simbolico, quasi un invito a lavarsi le mani e a concedersi una compassione tutta esteriore, eludendo il messaggio tremendo di Euripide ai suoi concittadini (e di Tucidide nel corrispettivo Dialogo dei Melii e degli Ateniesi).

Mayette insiste sulla condizione delle donne, il che è naturale poiché la tragedia è incentrata sul destino crudele delle donne dopo una guerra rovinosa, anche se a parer mio la «lezione di Euripide» non sembra essere che «dopo un dramma, dopo una distruzione abbiamo bisogno di una donna per ricordarlo», né pensiamo che qui Euripide «abbia dato la parola alle donne», nel senso che voglia prospettare una qualche speranza post-bellica a loro affidata. Le troiane di Euripide, che scriveva in un’epoca in cui la schiavitù era un istituto sociale, non sono delle eroine, e assomigliano assai poco alle mitiche donne delle macerie che hanno ricostruito il centro di Berlino dopo il 1945: a meno che non si ammette finalmente che anche queste furono costrette ad un lavoro pesantissimo e immane, svolto non per una loro disperata vitalità e capacità di resistenza, ma perché Berlino fu dai sovietici appositamente privata delle ruspe, e con il lavoro coatto si punirono le vedove e le madri conniventi dei soldati del cosiddetto Reich. La presenza del coro di ben 50 donne costituisce comunque un pregio indiscutibile di questa messa in scena: ma il loro canto accompagnato da chitarra su musiche di Cyril Giroux ricorda più i raduni di protesta della beat generation che il compianto funebre mediterraneo, si richiama più a Woodstock o al maggio francese che ai gridi di dolore dei ‘canti della morte’. A noi sembra insomma che la guerra vista da Muriel Mayette sia come un affare d’altri, contemplata col distacco dello spettatore che trova un piacere inammissibile nell’assistere al sicuro ad un naufragio, il che non toglie ovviamente nulla all’importante messaggio pacifista, ma si allontana molto dai toni e dall’attualità della tragedia euripidea, ed anche di molta tradizione su essa, opportunamente evocata da Margherita Rubino nella sua nota I testi sulla guerra.

   Di segno diverso l’immaginifica regia di Davide Livermore, che con profluvio di mezzi, con l’appoggio concorde del costumista Gianluca Falaschi e delle musiche coerenti a cura di Andrea Chenna, con il sostegno di attori tutti parimenti calati nel ruolo e di un coro maschile dalla gestualità superba, ha dato vita ad un’opera maestosa nella messa in scena eppure ironica, spettacolare e a tratti divertente, ma che induce nondimeno a riflettere. L’ Elena si presta certo meglio ad una rappresentazione operistica, che valorizzi «la componente edonistica, il gioco metateatrale, la beffa comica», tutti elementi centrali di questa tragedia, come compendiò Massimo Fusillo nella sua introduzione alla tragedia per la BUR nel 1997. Ma Livermore non si limita a mettere in luce l’elemento comico-grottesco, penetra nel testo di Euripide, lo rende un manifesto assai poco consolatorio di una crisi epocale, di un mondo e di ogni mondo in cui ogni certezza si sgretola e non vi è redenzione se non nell’ ambiguità della fantasia. L’ Elena che ha causato la guerra più grande nell’immaginario, la guerra di Troia, sarebbe stata un fantasma, un’ombra, una creatura di sabbia, e Greci e Troiani hanno dunque combattuto per nulla: ma il fantasma di Elena, suggerisce Livermore, è solo un’invenzione escogitata proprio dalla stessa  Elena, rimasta in Egitto, cioè indifferente alla guerra, che reinventa se stessa e giura e spergiura di non aver colpe.  Elena è dunque l’artefice della più difficile delle menzogne, quella per cui non è stata lei ma qualcun altro a causare la guerra; non vale come simbolo di bellezza ed eterna seduzione, poiché anche lei, come tutti, invecchia e perde il fascino: Elena è invece il male che si rende banale per scusarsi dell’inscusabile, la memoria lucida di Eichmann a Gerusalemme, che pure affermò di non aver colpa alcuna.  Ma la realtà vince sull’invenzione e sulla fantasia, la realtà dei nostri giorni, del 1945 e quella del 412 a.C., nella fase più rovinosa della guerra del Peloponneso,  quando l’ Elena fu rappresentata. E questa realtà racconta di poteri sovvertiti, di tradimenti e inganni, di sperpero di vite umane, di conflitti imperscrutabili al punto da poterli definire ‘divini’, di regimi spazzati via e anche qui dell’unica possibilità di sopravvivenza individuale per i responsabili: quella di chi, schiacciato da una colpa irredimibile, come Elena, ricostruisce a suo modo la storia, cambia la memoria e i ricordi, per giocare con essi, per «immaginare un’altra possibilità – scrive Livermore -, sognarla» e così dare «un altro finale» alla storia. La giocosità dell’ Elena di Euripide (e di Livermore) risulta perciò soltanto apparente; l’autoillusione dell’innocenza da parte dei colpevoli non attenua, ma anzi esaspera, la loro colpa. Günter Zuntz ha definito la tragedia euripidea «una danza eterea sopra l’abisso», e Livermore ha saputo ricostruire proprio questa «danza eterea» spalancando la visione dell’abisso, grazie anche a potenti mezzi visivi, lo schermo su cui tra l’altro compare il volto sfatto di un’Elena ormai vecchia e consapevole delle proprie menzogne. Il riso che allora può e deve prendere lo spettatore che assiste all’ Elena è quello di chi ha scoperto il nulla del mondo, eppure non si ritira da esso, continua ad agire, operare, partecipare, come in un gioco. «Lo stato d’animo di chi vive questa esperienza del mondo, capito finalmente come nulla, e con pazienza illuminata riaccettato nella pratica – è l’irrisione.[…] L’irrisione non può che riguardare tutta l’intera realtà.[…] Cade però, nell’irrisione, ogni idea precostituita di futuro; anzi, se c’è una cosa che fa sorridere con un maggior piacere interno è proprio il futuro. L’idea della speranza nel futuro diviene irresistibilmente comica». Questi stralci dall’ Appunto 84 di Petrolio di Pier Paolo Pasolini, nel loro ineludibile pessimismo, possono forse servire a commentare quel che allo spettatore lascia la visione dell’ Elena di Euripide rivista da Davide Livermore.