default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Le Fenicie, Siracusa 2017

Quando mi fu richiesto di tradurre Le Fenicie di Euripide per la messa in scena in programma al teatro antico di Siracusa nel maggio 2017 (per il 53° Ciclo di Rappresentazioni Classiche dell’I.N.D.A.), il primo, inevitabile passaggio è stato il confronto con la mia precedente esperienza di traduttore della stessa tragedia[1].

All’epoca, trattandosi di un volume destinato al grande pubblico e non di una versione destinata alla rappresentazione, il mio proposito era stato quello di affrontare l’originale in modo filologicamente rigoroso, guidando il lettore nel complicato labirinto dei problemi testuali e delle questioni di autenticità[2] e rendendo il testo accessibile in una forma scorrevole, ma che non sminuisse più del necessario la ricercatezza e l’eleganza della dizione euripidea. La nuova versione da approntare poneva invece il problema di giungere a un testo efficace nella dimensione teatrale e destinato a spettatori che non possono fruire dell’ausilio delle tradizionali note a pié di pagina per colmare il divario di conoscenza dovuto alla distanza temporale che ci separa dagli spettatori dell’Atene del V secolo a.C. Per poter sperare di far giungere al pubblico del XXI secolo la forza di un testo rappresentato quasi 2500 anni fa era necessario un approccio più libero, pronto a sacrificare le esigenze dell’esattezza filologica ogni volta che questo servisse a rafforzare le componenti del dramma che possono ancora coinvolgere lo spettatore. In altre parole, si profilava la necessità di una corposa rielaborazione della traduzione precedente, sia sul piano della lingua che su quello della struttura drammatica.

Elemento decisivo per poter portare a compimento questo compito difficile è stato il confronto con lo straordinario talento teatrale del regista Valerio Binasco, con il quale ho avuto un prolungato e quanto mai proficuo scambio di opinioni. Dopo un primo incontro, nel quale abbiamo discusso a lungo delle nostre reciproche visioni su quest’opera tanto complessa quanto affascinante, il lavoro si è sviluppato nella forma di versioni successive, che tenevano via via conto delle proposte di modifica apportate da Valerio, in un dialogo serrato che nell’arco di tre mesi ha portato a un testo di massima sostanzialmente condiviso. Ne è risultata una versione sensibilmente più breve dell’originale, rispetto al quale sono state omesse, oltre ad alcune parti di dubbia paternità euripidea (in particolare il catalogo dei guerrieri argivi dei vv. 1104-1140, la sezione lirica conclusiva dei vv. 1736-1766, che manca in un papiro del III secolo a.C. contenente la parte finale della tragedia, e numerose interpolazioni sparse nel corso del dramma), le sezioni che contengono richiami a dettagli molto specifici della storia mitica tebana, familiari agli Ateniesi antichi ma ormai privi per noi della forza evocativa che possedettero un tempo, e dunque non più fruibili per gli spettatori in teatro. Si è proceduto inoltre a snellire in più punti il testo, abbreviando i discorsi più lunghi e rendendo più scorrevoli, nei limiti del possibile, le sezioni sticomitiche, la cui marcata formalizzazione, con battute di un solo verso per ciascun interlocutore, è lontana dalle consuetudini del dialogo teatrale moderno. In pochissimi casi mi sono risolto ad accogliere il cambio di attribuzione di alcune battute che Valerio riteneva funzionale alla sua concezione di alcune scene, e l’inserimento di brevi frasi utili a rendere il testo coerente con le scelte registiche.

Un punto particolarmente delicato su cui trovare un accordo era la resa delle sezioni corali, che rappresentano notoriamente uno dei nodi più difficili da sciogliere nelle riprese moderne della tragedia greca. La soluzione ideata dal regista (un coro di profughe dell’Est, che si esprime attraverso la voce della Corifea, dal marcato accento orientale) ha richiesto il ridimensionamento di alcuni canti (in particolare la parodo e il breve quarto stasimo, omesso del tutto), operato comunque cercando di non intaccare la funzione essenziale del coro all’interno del dramma, che è quella di fornire agli spettatori i dati mitici relativi alla storia tebana, necessari a far affiorare il significato più profondo e inquietante della vicenda, e cioè il peso di una atavica ostilità divina nei confronti dei discendenti degli Sparti e della casata di Laio.

Terminata questa fase di stesura della traduzione, è cominciata una seconda, ancor più coinvolgente parte del lavoro. Grazie alla generosa disponibilità di Valerio, ho potuto presenziare ai primi tre giorni di prove a tavolino della compagnia, che si sono svolte con un procedimento per me inatteso. Sotto la guida del regista, gli attori hanno letto in sequenza e integralmente sia la mia traduzione sia una versione della stessa liberamente rimaneggiata da Valerio, discutendo man mano collettivamente ogni battuta fino ad arrivare a scegliere per ciascuna la forma più efficace. Si è trattato per me di una esperienza fondamentale: ho potuto infatti apprezzare in presa diretta quanto i toni, i movimenti, gli atteggiamenti suggeriti dal poliedrico talento di Valerio e dalla creatività personale dei singoli attori portassero in modo naturale alle scelte più coerenti con la situazione drammatica. Per parte mia, ho potuto chiarire in più punti la specificità della dizione di Euripide e soprattutto far emergere la prospettiva antica quando alcune soluzioni se ne discostavano in modo rischioso. Così siamo giunti a un testo condiviso, rispetto al quale – i patti da questo punto di vista erano chiari, e così è giusto che sia – Valerio si riservava comunque mano libera nel seguito delle prove.

Quando infine sono tornato a Siracusa per la prima dello spettacolo, ero ansioso di vedere come il testo avrebbe funzionato in teatro, e devo dire di essere stato profondamente colpito dalla realizzazione scenica, di cui conoscevo solo le linee generali (altra cosa è spiegare a parole, altra vedere con i propri occhi la scenografia, i costumi, i movimenti, le luci splendide del passaggio dal tramonto alla notte). A parte l’ovvia emozione di ascoltare la propria traduzione recitata, che resta un momento molto bello, mi ha colpito soprattutto la forza emotiva che Valerio è riuscito a conferire a un’opera a mio parere ingiustamente trascurata dai registi moderni. Il miglior test dell’efficacia dell’insieme è stata la reazione di mia figlia, di nove anni, che senza nulla sapere di Euripide (le avevo solo raccontato in sintesi estrema la storia di Eteocle e Polinice), non ha staccato gli occhi un momento dalla scena, è si è commossa di fronte alla disperazione di Antigone nella scena finale, assieme a non pochi altri spettatori. La sua commozione mi ha mostrato in atto quanto Aristotele aveva compreso molto tempo fa, osservando che il meccanismo del teatro funziona quando è in grado di produrre, allora come ora, ἔλεος e φόβος.

 

[1] Cf. Euripide, Le Fenicie, con introduzione, traduzione e commento, RCS Libri, Milano 2006.

[2] Le Fenicie furono un dramma di notevole successo dell’antichità, e proprio per questo furono soggette ad alterazioni e aggiunte operate probabilmente dai registi e dagli attori del IV secolo a.C. La parte finale della tragedia, in particolare, sembra essere stata oggetto di interpolazioni influenzate dal trattamento dei personaggi di Antigone e Edipo nell’Antigone e nell’Edipo a Colono di Sofocle. Gli studiosi moderni hanno individuato nel tempo diverse sezioni del testo che possono essere considerate spurie, ma i giudizi in proposito sono molto variabili. L’edizione di James Diggle (Oxford 1994) espunge ben 444 versi su 1766 (circa un quarto dell’opera); quella di D. Kovacs (Cambridge MA – London 2002) 423; C. Amiech (Paris – Budapest – Torino 2004) elimina invece dal testo solo 4 versi, mente E. Craik (Warminster 1988) ne segna come spurî 12 e dubita dell’autenticità di altri 25; intermedia la posizione di D.J. Mastronarde (Cambridge 1994), che espunge 63 versi. Nel mio lavoro del 2006 ho considerato non autentici 121 versi.

Materiale fotografico in: http://www.indafondazione.org/it/stagione-2017/fenicie/