L’imponente scenografia del Prometeo incatenato per la stagione INDA 2023 proietta lo spettatore in un universo post-industriale e apocalittico.
«Un binario, attraverso una cancellata, arriva in prossimità di una cisterna, accanto a una ciminiera crollata. Questi pochi elementi simbolici, consumati dallo scorrere delle stagioni e degli anni, raccontano agli spettatori un’epoca tecnica esaurita e fallita» - scrive Federica Parolini. Rovine di una civiltà, dunque, impressionanti anche e soprattutto perché installate nella cornice di altre rovine, quelle del teatro di Siracusa: un contrasto voluto tra l’orrendo dei residui di una fabbrica e il ‘bello’ che il classicismo ha trovato e trova nelle rovine e nei frammenti dell’antichità.
La scenografia di questo Prometeo dà un pugno allo stomaco a chi entra in teatro e implicitamente impartisce un monito sulla transitorietà di ogni fase della storia umana, compresa quella dell’industrializzazione. Dalla rappresentazione della tragedia di Eschilo su Prometeo, il benefattore dell’umanità, il dio che agli uomini ha donato le tecniche, ci si aspetta dunque una messa in discussione del concetto di progresso.
La scenografa e il regista Leo Muscato hanno scelto delle rovine industriali per il «finis terrae in un tempo sospeso e lontanissimo», abitato da Prometeo. Per noi spettatori, seduti sulle gradinate del teatro di Siracusa, o almeno per molti di noi, è però quasi inevitabile legare lo scenario di ferro e ruggine davanti ai nostri occhi con il famigerato polo petrolchimico di Priolo, non molto distante da Siracusa. A me, che sono nata nei dintorni di Taranto, sovviene un paesaggio tristemente familiare, il ‘mostro’ ILVA con il cielo di polveri rosse che si gettano sul Galeso e nei polmoni dei tarantini.
Il paesaggio pensato da Muscato e Parolini come scenografia per il Prometeo non è dunque così ai margini o sospeso nel tempo, ma appare purtroppo vicinissimo e attualissimo, ‘tragico’ nel senso più lato del termine.
Allo spettatore che ha qualche dimestichezza con la storia della cultura e del teatro, questa scenografia ha suggerito, ancor prima dell’inizio dello spettacolo, una interpretazione collocabile in una linea precisa delle letture del mito Prometeo e del Prometeo di Eschilo in particolare: ossia quella che ha attualizzato il mito, interpretando il racconto come una critica feroce al capitalismo, una figurazione della necessaria rivolta verso gli ‘dei’ del consumo e della produttività, una denuncia dell’alienazione dell’essere umano dovuta alla forzata industrializzazione. Prometeo, colui che difende il genere umano contro i progetti di un’oscura divinità che vorrebbe distruggerlo, diventa, per questa linea interpretativa, una figura allegorica. La sua ribellione a Zeus allegorizza la rivolta di chi non vuole sottomettersi al potere dell’economia, di chi non accetta di essere usato come una macchina per la produzione. Prometeo, in questa lettura, è colui che si oppone ad ogni forma di sfruttamento a fini produttivi, dell’uomo come della natura. Perciò Prometeo è stato interpretato anche come l’intellettuale preveggente, colui che conosce la storia e sa bene quanto ogni sistema di potere sia destinato a crollare sotto le spinte dei suoi stessi errori e della sua stessa arroganza.
Cerco di spiegarmi meglio e penso che sia utile indicare le tappe fondamentali, nella cultura europea, di questa interpretazione di Prometeo. Essa comincia con l’indimenticabile protagonista nell’ ode Prometeo (1772/1774) di Johann Wolfgang Goethe, agli albori della rivoluzione industriale. Prometeo è in Goethe l’eroe borghese che si ribella allo sfruttamento del genere umano da parte dei possessori del capitale e urla la sua autonomia intellettuale e artistica contro i padroni economici del mondo. Goethe aveva intuito genialmente i danni, allora ancora potenziali, della rivoluzione industriale. Esclama il Prometeo di Goethe contro Zeus: «Qui me ne sto, plasmo uomini/ a mia immagine,/una stirpe che mi somigli/ nel soffrire,nel piangere/ che goda e si rallegri/ e non si curi di te,/come me!» (traduzione di M. Specchio).
Secoli dopo, nella prosa asciutta e metaforica di Franz Kafka troviamo un Prometeo che è stato ormai vinto da Zeus (l’apologo kafkiano data 1917/1918). Kafka elenca quattro possibili ‘correzioni’ del mito tradito, ma tutte finiscono con l’annichilimento del Titano. Prometeo, ormai stanco del suo stesso dolore, ha perso la capacità di ribellarsi e ha perso soprattutto quell’empito creatore che anima il Prometeo di Goethe: al contrario di quel che l’ode goethiana auspicava agli albori del capitalismo, nelle variazioni sul mito di Kafka l’arte, la fantasia non riescono più ad opporsi al bruto lavoro manuale in serie, alla catena di montaggio. E così il Prometeo di Kafka diviene tutt’uno con la roccia a cui è incatenato, diviene egli stesso pietra, insensibile. Fuor di metafora: la rivoluzione industriale ha sortito i suoi effetti sull’uomo. L’operaio è diventato, dal punto di vista emotivo, uguale al materiale che lavora, ossia privo di fantasia e desideri, ridotto a pura macchina. Il visionario Kafka vedeva in Prometeo la sconfitta dell’essere umano attraverso la produzione seriale, l’indistinzione tra merce e consumatore, la creazione di una massa di uomini tutti uguali, tutti ‘materia’ non solo dello sfruttamento capitalistico ma anche carne da macello per l’industria bellica (il racconto è scritto durante la prima guerra mondiale) e per progetti politici totalitari, che lo scrittore praghese presagì con lucidità visionaria.
Ribellione contro il dio del capitalismo, dunque, e Versteinerung, ‘impietrificazione’, riduzione a roccia: questi due elementi caratterizzano l’interpretazione del mito dalla fine del Settecento ad oggi. E sono questi due elementi che vengono enfatizzati ed elaborati da un drammaturgo come Heiner Müller che, nel 1967-1968, rielabora per la scena il Prometeo di Eschilo e poi su questa figura mitologica continua a riflettere, sino alla pièce La liberazione di Prometeo, con la musica di Heiner Goebbels, uno degli autori più significativi della post-avanguardia musicale tedesca. La ‘prima’ andò in scena proprio in Sicilia, in occasione del conferimento a Müller del Premio Europa per il Teatro (dicembre 1994; Müller, già malato di cancro e operato alla gola, tanto da non poter parlare, morirà un anno dopo).
Non è questo il luogo per trattare della complessa interpretazione politica del mito da parte di Müller, ma qualcosa dobbiamo accennare. Prometeo, in Müller, rappresenta la borghesia, divenuta però incapace di qualsiasi iniziativa rivoluzionaria e succube dei nuovi dei, ossia di coloro che guidano, con la forza del capitale, i destini del mondo e le fila della storia. Eracle, l’unico che nel mito svolge un lavoro manuale, diventa allora l’allegoria del proletariato. Nel testo La liberazione di Prometeo di Müller, proprio Eracle tenterà di liberare Prometeo, ma i tentativi di Eracle di avvicinarsi al Titano sono sempre frustrati e quando, dopo millenni, all’eroe proletario l’impresa riesce, ferisce incidentalmente con una freccia Prometeo, aggiungendo dolore a dolore; per di più uccide l’aquila, a cui Prometeo, invece, si era affezionato come sua fedele compagna.
Per Müller l’aquila è un tramite tra gli ‘dei’ e Prometeo, che da questa viene torturato, ma con cui crea un legame intimo, viscerale. L’aquila simboleggia per il drammaturgo e poeta tedesco la cultura umanistica che cerca di stimolare un vinto Prometeo all’azione e alla ribellione, una specie di rimorso di coscienza che lo sollecita nell’orgoglio ormai soffocato, incatenato, inerte. La liberazione di Prometeo attraverso Eracle, dunque, non è una vera liberazione: l’aquila muore, Prometeo la piange amaramente, e il proletario Eracle scatena una spirale di violenza inestinguibile. Così la riscrittura del mito da parte di Müller vale come una condanna delle rivoluzioni storiche del proletariato, da quella francese a quella bolscevica, secondo una disincantata e pessimistica visione della storia umana.
In Heiner Müller la figura di Prometeo rappresenta la borghesia, divenuta come pietra, che ha perso cioè ogni capacità d’azione e non sa più sognare; i nuovi dei l’hanno incatenata per sempre, e ne hanno ridotto a nulla la coscienza e la cultura. Anche l’aquila, che da Müller è intesa come un tarlo della mente, la cultura umanistica che incide nella carne e tortura, è destinata a soccombere. Dal proletariato viene avviata solo una spirale di violenza. Nel 1994, in uno stato d’animo condizionato dalla prossimità alla morte, il drammaturgo tedesco osserva il mondo sull’orlo del baratro, una catastrofe causata anche dal venir meno di quei valori che Prometeo personifica, catastrofe nella quale sono coinvolti tutti: gli dei, i possessori del capitale, la borghesia e il proletariato. Non c’è più alcuno spazio per l’utopia e per la speranza di un nuovo inizio. Dopo il 1989, la caduta del Muro aveva significato anche la caduta dei tentativi di ribellarsi all’americanizzazione del mondo.
Quest’interpretazione di Heiner Müller è per molti versi anticipata nel lavoro che il drammaturgo compie sul testo del Prometeo (servendosi di una fedele traduzione tedesca) sin dal 1967-1968, anni in cui il giovane regime della Repubblica Democratica Tedesca cominciava già a mostrare le sue crepe. E lo faceva traducendo il termine greco ἆθλον, che nel testo greco connota la punizione comminata a Prometeo, il castigo, il supplizio, l’agonia, con Arbeit, ‘lavoro’, un termine in tedesco molto concreto e ovviamente centrale in un regime di ispirazione comunista, che si definiva ‘repubblica dei lavoratori’ e aveva sulla bandiera un martello e un compasso. Prometeo era un mito fondatore di quella repubblica laica, un Prometeo inteso come la divinità tutelare di tutti coloro che lavoravano con le mani. Ma nella tragedia di Eschilo rivista da Heiner Müller durante gli anni della rivoluzione studentesca mostrava le sue contraddizioni: Prometeo era un dio, che paradossalmente soffriva e aveva paura della morte, in tensione tra una smisurata vanità e il proprio fallimento. Fuor di metafora, nella riflessione di Heiner Müller su Eschilo, Prometeo non era stato capace di liberare i lavoratori dall’alienazione della produzione industriale e, per contrappasso, era condannato a un ‘lavoro’ simile, ripetitivo, doloroso, straniante. Così nella ‘traduzione’ di Müller si inserivano anche dei versi a sottolineare il progressivo diventare pietra del Titano, «carne sulla pietra», «vestito di roccia».
Se ho insistito su Heiner Müller è perché a me sembra che il suo lavoro sul mito di Prometeo, e anche sulla tragedia di Eschilo, sia ancora materia viva di riflessione: da una parte la tragedia può essere letta come una denuncia dei danni che la tecnica al servizio del capitale e della produzione ha apportato al mondo e una punizione di chi si è reso conto, anche se tardi, di tutto questo. Da qui l’ambiguità di Prometeo, dio egli stesso, impegnato a salvare il genere umano, ma incapace di dare agli uomini quei limiti, quella coscienza, quella cultura, per evitare il disastro e il completo asservimento. Dall’altra la tragedia, nella capacità profetica di Prometeo, comunque persegue un’estetica di emancipazione: nelle rovine della società post-industriale, nel disastro ambientale, nella follia dell’Antropocene, qualcosa ancora può cambiare. Prometeo non può dirsi completamente vinto.
Vuole dire questo o anche questo la messa in scena di Leo Muscato a Siracusa? Forse si, ma rispondo affermativamente solo sulla base dell’apprezzabile scenografia, che colloca Prometeo tra rovine post-industriali a noi contemporanee. Ma forse è una mia sovrainterpretazione. L’attesissima traduzione di Roberto Vecchioni non ci aiuta, però, a dare un senso a questa messa in scena siracusana. Su come si deve tradurre Prometeo, dobbiamo qui ricordare e citare quello che scrisse Dario Del Corno per il Prometeo incatenato con la regia di Luca Ronconi (INDA 2002 e Piccolo Teatro di Milano 2002/2003):
Tradurre una tragedia greca per la scena moderna è un meraviglioso privilegio, che al tempo stesso comporta una grave responsabilità. Il modello sublime del teatro d'ogni tempo viene in contatto con un pubblico folto e indifferenziato, che non sempre ha bastevole conoscenza del contesto culturale di un'epoca lontana due millenni e mezzo; ed esso presuppone un codice di convenzioni del tutto diverse dalle attuali. […]Nella versione del Prometeo di Eschilo, capolavoro celebre quanto impervio della drammaturgia antica, l'esigenza di realizzare un tramite quanto più efficace per immediatezza e comprensibilità fra l'originale, gli interpreti e il pubblico ha costituito il mio impegno primario; e ho assunto come viatico un aureo detto di Paul Valéry: «La poesia è un'arte di continua costrizione della lingua, affinché interessi immediatamente l'orecchio (e attraverso l'orecchio tutto ciò che i suoni possono suscitare da sé soli), almeno tanto quanto interessa la spirito». La sentenza ha carattere generale; ma ha uno specifico valore per il traduttore di teatro. La percezione auditiva è la condizione archetipica della ricezione poetica, dall'età di Omero; ma attualmente sopravvive pressoché soltanto nel teatro: qui l'azione è vista, e fa parola è ascoltata in un attimo che, a differenza di ciò che accade nella lettura, non ritorna. […] la complessità di Eschilo, e nella fattispecie l'inesausta tensione passionale di Prometeo offrono una stimolante palestra per collegare l'emozione e l'intelletto a livello della parola. Soprattutto, si terrà sempre presente che una tragedia dev'essere tradotta come una tragedia: non come un musical, o un teleromanzo, o una parodia in chiave di polemica o una farsa. Le attualizzazioni improprie sono un falso, in quanto contravvengono alla dignità dell'universo tragico: al contrario l'innovazione linguistica, usata con misura e giusto ritmo, è uno strumento fondamentale per comprendere l'antico e il moderne e istituire fra i due orizzonti quella complementarità di idee e di emozioni che costituisce il senso della ripresa del dramma greco.[…]
Nella traduzione di Vecchioni, forse lo sforzo di essere colloquiale non ha giovato. Se ad esempio proprio all’inizio Kratos dice: «Che [Prometeo] impari ad amarla la signoria di Zeus e che la smetta di fare il gradasso con gli uomini», il risultato non ci sembra riuscito; e nemmeno quando Efesto dice: «non ho proprio tutta ‘sta gran voglia di incatenare un dio» oppure Kratos: «E maledicilo una buona volta ‘sto dio odioso a tutti gli dei» e così via.
Nonostante la buona prova degli attori, in particolare di Alessandro Albertin-Prometeo e Pasquale di Filippo-Ermes, nonostante la pensata drammaturgia musicale, questo Prometeo 2023 non sembra sostenuto da una consapevole interpretazione del mito e del testo, che sarebbe stata, invece, non solo auspicabile ma necessaria nell’attuale situazione storica.
La citazione delle parole di Federica Parolini sono tratte da F. Parolini, Prometeo incatenato, la scenografia, in AAVV, Eschilo. Prometeo incatenato. Regia Leo Muscato, INDA, Siracusa 2023, p. 23
Le parole di Dario del Corno sono tratte da Eschilo. Prometeo incatenato. Regia Luca Ronconi, Piccolo Teatro di Milano (2002/2003), p. 66.