Edipo Re di Sofocle. Esercizio di memoria per 4 voci femminili, come recita il programma di sala nato da un’idea di Chiara Guidi in dialogo con Vito Matera, è andato in scena al Piccolo Teatro (Teatro Studio Melato) di Milano dal 4 al 7 maggio 2023.
Si tratta di un riallestimento dello spettacolo inaugurato a Roma al Palazzo delle Esposizioni nel 2019 in occasione della mostra Il corpo della vocehttps://www.palazzoesposizioni.it/mostra/il-corpo-della-voce-carmelo-bene-cathy-berberian-demetrio-stratos, che non ha poi girato a causa della pandemia e che ora ha vissuto un nuovo debutto [1]. In quest’occasione milanese lo spettacolo forma la seconda parte di un dittico all’insegna di ‘infanzia e voce’ composto anche da Edipo. Una fiaba di magia, spettacolo per bambini (e per adulti), in cui la regista reinterpreta il mito di Edipo come magica fiaba legata ai culti ancestrali della fertilità.
Lo spettacolo rilegge il dramma sofocleo in modo del tutto originale, attraverso un’indagine sul potere drammaturgico, evocativo e significante del suono della voce ed è frutto di un lavoro artistico di ricerca trentennale condotto dalla regista, sin dalla fondazione, insieme a Claudia e Romeo Castellucci e Paolo Guidi, della storica compagnia teatrale d’avanguardia Societas Raffaello Sanzio (oggi Societas)[2].
In scena viene portata effettivamente l’azione dell’Edipo Re di Sofocle in una riduzione teatrale che punta agli snodi drammatici essenziali e alle battute emblematiche della tragedia: la durata dello spettacolo è di 60 minuti. Il testo è affidato esclusivamente alle voci delle quattro attrici, tutte in scena dall’inizio alla fine: insieme a quella protagonista di Chiara Guidi, interprete di Edipo e ‘maestra del coro’, magistrale soprattutto nei momenti di assorto smarrimento dell’eroe, quelle altrettanto fondamentali e impressionanti nel virtuosistico affastellarsi dei registri vocali più svariati di Angela Burico, Anna Laura Penna e Chiara Savoia. La scelta di impiegare voci solo femminili è simbolica e rappresenta la paura ancestrale di Edipo per la ‘madre’.
L’intera pièce è così trasformata in un’ardita partitura sonora e musicale, dove azioni e gesti dei personaggi vengono resi unicamente attraverso l’espressività delle quattro voci recitanti e dei suoni originali di Scott Gibbons, che sostengono le attrici e costituiscono parte integrante e fondamentale dello spettacolo.
La scenografia, firmata da Vito Matera, è giocata sulla triangolazione di tre tribune nere, quella della pedana retrostante del palcoscenico e le due laterali, accessibili attraverso delle scale, sulle quali e ai piedi delle quali sono disposte le postazioni dei leggii da cui le ‘attrici/cantanti’, dagli abiti lunghi e a tinte scure, recitano la propria partitura ritmico-vocale-musicale. Spiccano a illuminare la scena, insieme alle luci di sala, una lampada centrale prismatica e soprattutto le singole lettere fosforescenti proiettate sullo sfondo: la prima simbolo di Tebe, ossia della ‘città’, parola chiave della prima parte del dramma che Edipo è chiamato a salvare dalla peste rintracciando l’assassino di Laio; le seconde, simili a quelle di una tavola optometrica, riproducono vocali e consonanti dei nomi dei personaggi e delle parole chiave del testo rinviando alle scansioni metrico-sillabiche e alle modulazioni vocali delle voci recitanti.
Protagonisti dello spettacolo sono la voce umana e i suoni, che si intrecciano continuamente: un Edipo Re a tratti dodecafonico ed elettroacustico ma soprattutto polifonico e corale, che si sviluppa in una costante alternanza musicale tra parossistici agitati e adagi elegiaci, come al risuonare dei cori composti da Andrea Gabrieli per la celebre rappresentazione della tragedia con cui fu inaugurato il teatro Olimpico di Vicenza nel 1585[3].
Il prorompere della materia acustica può risultare in alcuni punti perfino respingente od irritante nei perpetui e talora dissonanti ‘rumori’ di fondo e nei momenti più compulsivi ed ossessivi della performance vocale. Ma proprio questa esecuzione ha il merito di costringere lo spettatore/ascoltatore a un’attenzione maggiore al ‘testo’, in particolare ai singoli vocaboli: in questo modo egli è condotto a penetrare il senso profondo di quanto viene pronunciato/intonato, attraverso una resa drammatica che riesce a veicolare il carattere elementare ed essenziale che era proprio della tragedia antica.
Secondo uno dei principi che guidano la ricerca della regista, la voce (come la musica) non è portatrice di un significato univoco, semplice e chiaro, ma manifesta le profondità ambivalenti del senso e la complessità magmatica delle emozioni. Si fa cioè veicolo, grazie al ‘risuonare’ delle parole pronunciate da colui che parla (l’attore) in colui che ascolta (lo spettatore), anche di ciò che non viene detto e che non appare e che non può essere spiegato.
I versi e i lemmi del densissimo e sempre ambiguamente duplice dettato sofocleo vengono così decostruiti nei loro elementi primari (sillabe, consonanti, vocali), continuamente ripetuti in modulazioni ritmiche e di accenti emozionali differenti, con il pregio anche di ricreare, per quanto in modo fortemente straniante, il ritmo dei compositi ed elaboratissimi metri in cui era composto il testo greco che costituivano un elemento fondamentale del dramma antico, in cui la musica era co-protagonista della parola, oltre che della danza.
La partitura scenica vede il susseguirsi degli episodi di quella ‘macchina infernale’ (come fu definita da Jean Cocteau) che è l’Edipo Re, attraverso un travolgente ripercuotersi di suoni, che spaziano dai legati agli staccati, dai fortissimi ai prestissimi, dai crescendo drammatici e sforzati ai pianissimi e ai silenzi improvvisi. L’enfasi sonora sottolinea in particolare le parole più pregnanti e polisemiche del testo: per esempio, nel prologo, l’insistenza su «città», l’anafora ribattuta del «tu» e dell’«io» («tuuuu salva la città»), le assonanze tenute («maleee, insanabileee, peeerchè, eeesiliare»); il nervoso ripercuotersi di consonanti e colpi di glottide («U U U») nel proclama del bando di Edipo (il verso chiave «Voglio indagare ogni parola» pronunciato da Edipo/Chiara Guidi in mezzo a un turbinio caotico di consonanti prodotto dalle altre voci); il sillabato domandare dell’eroe («Co-me si chia-ma co-lu-i che ha uc-ci-so La-io») che si frantuma nel controcanto di un’altra voce (Co-me si chi*a *o*ui **e a u**i*o *aio?). I fenomeni acustici si intensificano nelle scene centrali dei confronti violenti tra Edipo, Creonte e Tiresia e in quello denso di tensione tra l’eroe e Giocasta, fino al culmine drammatico della peripezia, l’interrogatorio angosciante e terrifico di Edipo al pastore di Laio («Di chi era? Chi te l’ha dato? Chi era sua madre?»), accentuato dal polifonico intersecarsi delle altre voci («Chi? Chi? Chi?»), dove tutto si farà chiaro.
Nella messa in scena sperimentale di Chiara Guidi i lemmi sofoclei così potenti ed equivoci dell’Edipo Re vengono ulteriormente incrementati nel loro potenziale sonoro e semantico, attraverso un’operazione rigorosa di scavo alle radici della parola, come sema fonico-vocale primario e manifestatore di sens(i). L’intera parabola tragica di Edipo, l’eroe del ‘logos’, della parola come strumento dell’ingegno umano e della conoscenza, per un’ora di spettacolo si fa sul palco pura materia sonora e musicale, e la sua stessa peripezia si affida e si compie negli abissi di quella stessa parola e nel suono della sua stessa voce.
I vortici di suoni vocalici e consonantici, a più riprese vere e proprie ondate sonore, sembrano metaforicamente sconquassare ogni certezza di Edipo sgretolandola dall’interno di se stessa (Donne ed Edipo «o / e / e / u / o / o / i / e / o a / a / e / a / e / e / e / e / e»; «Tu / non / sei / figlio / di / tuo / padre! T / N / N / S / F / G / D / T / P / D / R»); mentre le parole ‘mozzate’ (in alcuni scambi accompagnate dal suono concreto di un taglio di forbici) mandano letteralmente a pezzi il discorso razionale e indagatore dell’eroe.
La decostruzione della partitura vocale assurge così a manifestazione musicale dell’impotenza di Edipo di fronte alla forza imperiosa e indifferente del destino, paradeigma dell’infelicità e simbolo dell’eroe ‘che disvela il caos’, il non senso, o meglio l’irriducibile polisemia endiadica insita in ogni uomo[4]. Edipo si aggrappa alla logica e al principio di non contraddizione nell’ultimo momento di speranza di non aver ucciso lui Laio, cioè suo padre, se è vera la notizia che fu riportata: che furono in ‘molti’ e non ‘uno’ ad assassinare il precedente re di Tebe al fatidico trivio. Ma l’emblematico v. 845 del dramma «(Edipo) Uno / non / può / essere (Edipo + donne) molti» si dimostrerà non valido nel caso dell’eroe che reca in sé intrinsecamente la duplicità, l’en-dia-di, l’‘uno’ costituito di ‘due’. Poiché Edipo è insieme salvatore di Tebe dalla Sfinge e miasma venefico della città, figlio e marito della madre, padre e fratello dei suoi figli, principe legittimo nativo di Tebe e straniero, il più intelligente solutore di enigmi ma enigma insolubile a se stesso, simbolo perfetto e paradossale dell’inevitabilità della duplicità e dell’impossibilità di essere soltanto una cosa sola.
La nota conclusiva dello spettacolo, tuttavia, non è quella dello scacco totale e del buio assoluto, ma quella del riconoscimento del soccorso pietoso dell’altro uomo: «Amico, seppure nell’ombra, riconosco tuttavia la tua voce» sussurra il protagonista, ormai cieco e affranto, nell’ultima battuta[5]. Edipo, «il più infelice», ma anche il «il più puro» e «il più saggio» dei mortali[6], sembra pervenire nel finale dello spettacolo, in senso ricœriano[7], a una suprema coscienza di sé, del mistero enigmatico del male, accettandolo e superandolo. Scrive il filosofo Paul Ricœur che «nella storia di Edipo ciò in cui consiste veramente il tragico non è di aver ucciso il proprio padre e sposato la propria madre, senza averlo voluto; ciò ha avuto luogo un tempo, è il suo destino passato; il tragico attuale è che l’uomo che egli ha maledetto per questo delitto di un altro è lui stesso, e che bisogna riconoscerlo. La saggezza consisterebbe nel riconoscersi e nel cessare di maledirsi» (Il conflitto delle interpretazioni, Milano 1977, p. 172). La scelta di anticipare la chiusa del dramma al v. 1326 da ultimo citato, dovuta principalmente a ragioni drammaturgiche, pone in luce come Edipo alla fine si riconosca in umanità la cui cifra più forte ed essenziale, rinata dal fondo del dolore più profondo, insensato e immeritato, appare come quella del compassionevole ascoltarsi reciproco delle voci, in vista di un agire guidato dalla speranza e dal desiderio di bene.
Chiara Guidi porta in scena un Edipo Re non semplice per chi non abbia già familiarità con il testo e con la tragedia di Sofocle, forse anche ostico a tratti per il gusto di qualcuno, ma sicuramente dal forte, originale e interrogante impatto drammatico. È soprattutto il coinvolgimento prodotto dalla costante dimensione musicale che intensifica le emozioni dei personaggi a dare adito a momenti di pathos emozionante e a musicalità corali molto suggestive: un ulteriore ‘esercizio di memoria’ sulla tragedia greca per antonomasia – la più studiata riscritta riletta rimeditata da artisti e pensatori[8] – nella quale il suono della parola sofoclea induce sempre e ancora a pensare.
Nel concludere lasciamo risuonare da ultimo la ‘voce’ della regista sul significato del teatro oggi, quale necessità sia artistica che spirituale, in relazione al valore politico più alto, formativo e non informativo, problematico e non semplificatorio, inquietante e non rassicurante che rivestiva il teatro greco antico: «Se una società non pone la cultura come ricerca della conoscenza e sviluppo dello spirito critico non ha cittadini liberi. Se il pubblico non si riappropria del proprio sguardo e del proprio giudizio critico la cultura diventa un oggetto da vendere e chi guarda diventa un cliente. Il gioco non intrattiene il bambino, ma lo fa crescere mostrandogli la complessità della vita. La cultura non può essere solo oggetto di intrattenimento: il teatro delle origini, come il racconto mitico e la fiaba, metteva in gioco l’uomo e il suo destino»
[1] Lo spettacolo era stato presentato in anteprima già il 27 e il 28 novembre 2018 al Teatro Comandini di Cesena.
[2] Su cui si veda il saggio teorico pubblicato dalla stessa drammaturga La voce in una foresta di immagini invisibili, Milano 2017.
[3] Già utilizzati dalla regista Chiara Guidi per lo spettacolo Edipo tiranno di Sofocle con musiche per i cori di Andrea Gabrieli nella stagione 2017 al Teatro Comandini di Cesena, sempre in collaborazione con Vito Matera.
[4] Cfr. C. Segal, Oedipus Tyrannus. Tragic Heroism and the Limits of Knowledge, Oxford-New York 2001 e U. Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Milano 2015.
[5] Sulla pietà come chiave di lettura del dramma si vedano V. Di Benedetto, Sofocle, Firenze 1983 e G. Serra, Edipo e la peste: politica e tragedia nell’Edipo re, Venezia 1994; di recente anche P. Finglass, Sophocles’ Oedipus the King: a Tragedy of Compassion, «Omnibus» 75, 2020, 1-2.
[6] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 9; F. Nietzsche, Il primo canto corale dell’Edipo re, traduzione, introduzione e note di commento a cura di G. Ugolini, Genova 2011.
[7] P. Ricœur, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Milano 1967; P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, Milano 1977.
[8] Si veda G. Paduano, Edipo. Storia di un mito, Roma 2008.