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- La tragedia d’Oreste in un teatrino di marionette! […] Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.

- La tragedia d’Oreste?

- Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’Elettra. Ora senta un pò che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.

- Non saprei […]

- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.

- E perché?

- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl’impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe  Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.

(Dal dialogo fra il signor Anselmo Paleari e il signor Adriano Meis

XII - L’occhio e Papiano, in Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello)

 

Eppure, signor Anselmo, ricorderà certo il cielo del primo Oreste d’après Sophocle: intendo dire, il cielo dell’Attica che si apriva sull’Acropoli di Atene e sulle sue pendici meridionali, dove un architetto senza nome aveva intagliato parte della roccia per ricavare sedili e ne aveva disposti altri in legno.

Da lì il pubblico assisteva alle prime visioni del tragico.

Sopra agli spettatori e sopra a Prometeo, a Medea, sopra al coro delle Supplici, che nei giorni delle Grandi Dionisie agivano in un’orchestra in terra battuta e in una scena essenziale, gli architetti non avevano previsto alcun cielo fisso, nemmeno momentaneamente fisso, come il velarium di stoffa dei teatri romani, ma solo il mutabile cielo.

L’assenza di una copertura permetteva agli odori della città e, ad Atene come a Siracusa, anche all’odore del mare, ai rumori, alla luce naturale, al vento di entrare in scena, di interferire con la mimesi dell’uomo, della natura, dei «delfini», del «mare» che «si acquieta sotto brezze leggere» (Euripide, Elena, vv. 1455-1456), degli dèi.

Presenza incombente e ingombrante, signor Anselmo, quella degli dèi, e non tanto per le epifanie ex machina in finale di tragedia, ma per gli «strappi» nei destini degli Edipo o delle Ecube e per «i mali influssi», per lo sguardo di pietra che gli dèi rivolgevano verso il teatro dai templi dell’Acropoli.

Dal Partenone Atena e un giovane Dioniso – anche loro mimesi, ma scolpita nel marmo –   assistevano alle visioni del tragico in competizione nello spazio teatrale; o si illudevano di assistere, tanto lontano erano, in definitiva, dagli uomini, anche da quelli trasformati dalle maschere sul volto; o illudevano tutti – spettatori, attori, drammaturghi – che fosse così.

 

Non solo in Grecia, ma anche in Italia (è questa l’area di cui ci occupiamo su questo blog) molti spazi teatrali hanno una lunga vita, alcuni millenaria: i teatri della Sicilia, della Magna Grecia, ma anche quelli più tardi di Roma o di Volterra lo raccontano bene. Una vita tanto lunga che sono stati ineluttabili gli abbandoni, le demolizioni, i cambi d’uso, l’oblio, le riscoperte, tutte tracce di una storia culturale che gli archeologi cercano di documentare scrupolosamente, talvolta trovandosi costretti non a «ipotetiche e misteriose deduzioni» (Fiore - Martelliano 2018, p. 13), ma a caute e ragionate proposte interpretative dei dati di scavo.

Dell’archeologia dei teatri e della sua storia si dovrebbe tener conto quando si mette in scena una tragedia greca negli spazi teatrali antichi perché essi parlano, proprio come il testo di una tragedia, delle concezioni del e sul teatro, dalla conoscenza delle quali non si può prescindere quando si decide di rappresentare oggi una tragedia greca in un teatro antico. Non c’è amore di sterile antiquaria in queste parole, ma vi è la convinzione che lo spazio, elemento drammaturgico essenziale, è tanto più parlante in termini teatrali quanto più è compreso dai protagonisti della scena. Lo ‘scavo’ va fatto dunque non solo sui versi dell’Agamennone di Eschilo ma anche sulle pietre dei teatri, quelle che restano, quelle mutile, quelle perdute. Il dialogo auspicabile dovrebbe essere tra registi, attori, scenografi, musicisti con filologi, storici del teatro antico, antropologi, archeologi, architetti al fine di scoprire altri, nuovi e fecondi riflessi dell’antico senso del tragico nel contemporaneo.

 

Dal 2001 la tragedia greca rappresentata in Italia è sempre più presente nei teatri antichi, lo è anche nei teatri moderni e contemporanei. Non sono rari i casi in cui uno stesso spettacolo si misura con i gli uni o con gli altri edifici o con luoghi non teatrali ma così rifunzionalizzati anche solo per poche repliche. Semplici cambi di luogo? Esigenze di marketing, soprattutto turistico? Questioni di estetica? Le ragioni sono molteplici e cercheremo di illustrarle e approfondirle attraverso l’analisi di alcuni spettacoli considerati emblematici.

Certo l’Eracle di Emma Dante nel teatro di Siracusa è altro dallo stesso Eracle messo in scena a Verona, e questo nonostante entrambi gli spazi teatrali siano – ma in modo diverso – ‘antichi’ ed en plein air; e ancora più grande è la distanza di senso e di percezione sia per i protagonisti della scena sia per gli spettatori che si avverte con l’Oedipus Rex di Bob Wilson, rappresentato a Pompei, prima, e nel settecentesco Teatro Mercadante di Napoli, poi, così come rilevante è stata la distanza sentita con il Prometeo incatenato di Luca Ronconi, che è passato dalle intricate stratificazioni del teatro di Siracusa alla (apparentemente) più rassicurante architettura contemporanea del Teatro Strehler di Milano.

E quando uno spazio per natura non teatrale lo diventa, cosa accade? Questo reversibile cambio di funzione non è certo confinato alla prassi teatrale contemporanea: sono tanti gli esempi dell’antichità (dal VI sec. a.C. al V d.C.), dalle agorai greche alle domus romane che accoglievano vari generi di performances. Allora erano soprattutto ragioni rituali (rito religioso, politico, sociale) o simboliche a determinare queste effimere trasformazioni degli spazi: e oggi? E quale segno del tragico resta – se resta – in uno spazio originariamente non teatrale, come il Semiottagono dell’ex carcere delle Murate di Firenze, un luogo con una propria tragica vita ed eredità, scelto da Massimiliano Civica per la straniante Alcesti di Euripide?

 

In questa sezione attraverseremo e interrogheremo principalmente quegli spazi teatrali che, a partire dal 2001, hanno accolto in una dinamica di fertile e talvolta geniale interazione, gesti, voci, parole, luci, sonorità, altri luoghi, reali (il contiguo ambiente urbano, ad esempio) o fittizi (le scenografie), quegli spazi che hanno contribuito a creare una memoria viva e presente del tragico, che hanno dato spazio alle possibilità delle multiformi variazioni sul tragico e sulle sue imprevedibili visioni.

 

 

 

 

 

La traduzione dei versi 1455-1456 del Coro dell’Elena di Euripide è di Walter Lapini (Elena, INDA 2019).

La citazione è da Vittorio Fiore - Vito Martelliano, La città nel mito del teatro antico. Spazio teatrale e visione urbana, in V. Fiore - V. Martelliano, Le città del Teatro Greco. Letture tra scenografia e realtà urbana, Siracusa 2018, pp. 13-17