L'hashtag del Mittelfest 2019 suona leadership (https://www.mittelfest.org/2019-leadership): più che giustificata appare la scelta di una versione dell’Antigone di Sofocle, poiché in questo dramma antico si pone, com’è noto, il problema dei limiti che il potere deve imporsi, pena la completa distruzione dello Stato e di chi lo rappresenta.
La locandina del festival rappresenta una creatura ibrida, la testa mostruosa di un leone ruggente su un corpo maschile anonimo e ‘borghese’. Locandina dalla quale scaturisce un’idea un po’ inattuale del potere e della leadership come prerogativa maschile, e anche un’idea unilateralmente negativa della leadership, come di selvaggio animale in gabbia pronto a far valere la sua ferocia e rabbia, di cui non possiamo che aver paura. Comunque la scelta di Antigone da parte della direzione artistica ci è sembrata indovinata, anche nella cornice di una mini-rassegna interna al festival che ha per paese ospite la Grecia.
Per una sfortunata coincidenza, immediatamente prima l’inaugurazione del festival, il nome Antigone è circolato sulla stampa e sui social per un’ analogia puramente emotiva e a mio parere immotivata con il comportamento della capitana della Sea Watch, Carola Rackete. Che la messa in scena dell'Antigone di Sofocle, ovviamente programmata mesi e mesi prima del caso Sea Watch possa essere stata intesa come una mossa politica anti-Salvini, sembra – almeno a me - incredibile. In ogni caso, bene o male purché se ne parli, e in generale bene se si è portata l'attenzione di chi magari il nome Antigone l’ha solo sentito per caso e si è accesa la curiosità di un numero ampio di persone verso il mito e la tragedia: il paradosso semmai sta nel fatto che la bella messa in scena di Konstantinos Ntellas, destinata nel 2018 al teatro di Epidauro, e a Cividale in prima nazionale, non porta proprio nessuna traccia di un’interpretazione politica attualizzante, non intende minimamente ricondurre il conflitto tra Antigone e Creonte a questioni dell’ultima ora, e nemmeno al contrasto tra le leggi dello Stato lesive dei diritti umani e la loro trasgressione.
La messa in scena di Ntellas riconduce invece la tragedia e il conflitto in essa contenuto a quelle che credo siano le sue prime radici: alla contrapposizione cioè tra le regole non scritte di una cultura patriarcale e arcaica, in cui contano i legami familiari e il potere di pochi ma pericolosi clan, ed una comunità sottomessa che non riesce ad emanciparsi da quelle regole, ed è soprattutto succube della tirannia di un capo-clan, che considera lo Stato cosa sua, e per giunta crede di agire nel rispetto formale della religione, da sempre connivente del potere. Il Creonte di Ntellas, impersonato dallo stesso regista, più che un re è un ‘padrino’, che si trova a gestire una comunità paesana appena uscita fuori da una guerra sanguinosa interna alla famiglia per la conquista del territorio; e che deve difendere, secondo i suoi criteri, il proprio onore e la propria rispettabilità, facendosi temere e imponendo un esempio terribile, cioè ‘dando ai cani’ il corpo del nemico ucciso, suo nipote, che ha osato sfidare la propria stessa famiglia per conquistare con le armi ciò che a sua volta pensava suo. Ma Creonte è un ‘padrino’ non all’altezza del suo ruolo: perché soffre l’opposizione non solo esterna, che pure si intuisce, ma soprattutto l’opposizione all’interno di quel che resta della sua stessa famiglia; a contrastarlo, per giunta, è sua nipote, una donna non ancora sposata ma destinata a diventare sua nuora, che vuole invece dare al fratello disonorato gli onori che per appartenenza familiare gli spettano, e per questo è pronta a ribellarsi alle imposizioni del nuovo capo e a sfidarlo. Antigone vuole far valere i suoi diritti di figlia del re morto e di sorella dei suoi eredi che si sono fatti guerra tra loro. Il fatto è che la comunità, resa muta e incapace dalla paura e dall’omertà, sta dalla sua parte, ma solo per una consuetudine che va rispettata: i morti bisogna seppellirli, anche quelli dei nemici. Emone, il promesso sposo, figlio di Creonte e dunque l’erede designato del clan, tenta di far capire al padre che il suo divieto plateale si scontra con le opinioni e i timori della comunità, con le sue superstizioni, con il suo sentimento religioso e familiare. Cerca anche di fargli capire che Antigone non è pericolosa, perché non può costituire un’alternativa al suo comando. Ma Creonte lo capirà troppo tardi, quando gli verrà rivolto un vero e proprio anatema dall’autorità religiosa, incarnata da Tiresia, che gli dipingerà a tinte fosche le conseguenze del suo comportamento facendo leva sulle sue angosce. La brevissima vita di Creonte come padrino e come leader, dunque, finisce in una catastrofe totale.
Questa è la lettura scenica data da Ntellas, che ridimensiona decisamente la statura eroica e universale dei personaggi, e racconta un sanguinoso dramma di famiglia in un paese non toccato dall’industrializzazione del Sud mediterraneo, greco oppure italiano, che chi scrive conosce per esperienza. Un paese claustrofobico, in cui le ‘morti’ sono le notizie del giorno, in cui valgono ancora forti pregiudizi di genere, in cui prevale la rassegnazione dei deboli rispetto alla prepotenza dei forti, in cui il retaggio familiare impone gerarchie sociali che non si sovvertono. Un paese in cui la speranza del futuro semplicemente non esiste, né quella di un cambiamento; in cui le intelligenze giovani, migliori e più concilianti, più dedite alla prassi che alla rivolta sterile, come Ismene ed Emone, restano vittime anche dell’incomprensione generale. Un paese in cui il coro di vecchi assiste muto, seduto sulla seggiola davanti all’uscio, con gli sguardi nascosti dalla coppola scura; e ad un coro di bambini è dato invece l’innaturale ruolo di comporre corone funebri per i funerali dei grandi e le loro magnifiche processioni, funerali che si succedono ad un macabro ritmo, accompagnati dai canti e lamenti propri della ritualità funeraria mediterranea.
L’ambientazione scelta da Ntellas per la sua Antigone è un paese di macchia mediterranea, paese di bianche rocce calcaree che di giorno accecano, dove si ascolta il frinire delle cicale in una canicola paralizzante, dove non vi sono palazzi regali ma masserie, dove Antigone, la vergine che trasgredisce le convenzioni sociali, e da donna vuole ricoprire il ruolo di un uomo, ricorda una ‘tarantata’ di demartiniana memoria. E così infatti è l’Antigone di Ntellas, con gli occhi sbarrati, i gesti meccanici da marionetta mal guidata, che pone il fratello e l’amore per il fratello, come si verifica in alcune culture contadine meridionali, al di sopra della propria stessa vita da donna, ossia della possibilità di sposarsi e avere figli.
Su tutta la vicenda domina una religiosità cupa, oppressiva, che si nutre di presagi, che non ammette perciò lo scempio dell’insepoltura, nemmeno del nemico, perché è uno sfregio a tutta la comunità e le porta sfortuna. Religiosità che confina e più spesso si identifica con un tetro fatalismo: tutto è già scritto, le potenti dinastie si esautorano al loro stesso interno, chi ha sbagliato presto o tardi pagherà, la troppa confidenza in sé stesso del ‘padrino’ finirà per distruggerlo. Lo stesso paesaggio contribuisce a tale amarissimo e statico senso del ‘destino’, rispetto al quale ogni rivolta pare essere vana. E qui a Cividale il paesaggio si è compenetrato con l’uso simbolico della chiesa di San Francesco e i suoi lacerti di affreschi, più volte distrutta, riedificata, riutilizzata.
L’Antigone di Ntellas è dunque una tragedia mediterranea della morte, in una comunità chiusa che gira vorticosamente su sé stessa in un labirinto psicologico da cui non c’è via d’uscita, come ricorda il rintocco continuo delle campane funebri. La morte però resta un rito indispensabile di riconoscimento, di accoglienza nella comunità, ed a cui la comunità non può rinunciare. A me vengono in mente per associazione i manifesti funebri del mio meridionalissimo paese, che portano sempre la fotografia del morto, e attorno a cui la gente ancora si raccoglie per osservare e riconoscere chi è morto, commentare come ha vissuto, a quale famiglia ‘appartiene’, se era una persona a modo oppure o no, se partecipare ai funerali oppure no. Un paese in cui la partecipazione al rito funebre manifesta ancora la notorietà del morto, come cinquant’anni fa accadeva nel caso dei ‘padroni’, gli antichi latifondisti, anche se non se ne pensava affatto bene e anche se facevano persino ancora valere, si vocifera, lo ius primae noctis. Il funerale resta ancora quale rito identitario della comunità e luogo di partecipazione collettiva, a cui segue una festa catartica, nella quale, complice il cibo e il vino, si ricompongono i legami di sangue ma anche, più virulente che mai, contrapposizioni ed inimicizie.
L’Antigone di Ntellas risulta perciò una stupenda Antigone arcaica e mediterranea, un po’ demodé come può esserlo una ricerca etnografica, e la sua Tebe potrebbe chiamarsi San Luca o Corleone o Galatina della mia infanzia: un ‘paese d’ombre’ in cui i morti contano quanto e più dei vivi, e la cui storia, per nulla aperta al mondo, è storia di famiglie. Un paese come quello del film Anime nere (2015) di Francesco Munzi. Un senso della tragedia molto poco metafisico, e forse poco attuale in una società globalizzata, che sarebbe stato più comprensibile ad esempio nella provincia contadina di Taranto dei ‘metalmezzadri’ dei primi anni ’70 che non oggi. Ma proprio per questo un’Antigone che racconta una certa storia del Sud europeo, che non possiamo ignorare, e che per tanti aspetti è ancora viva. Un’Antigone che non ha eroi: non il protervo Creonte, che istericamente se la prende con le due giovani nipoti picchiandole; non la folle Antigone, che inutilmente Ismene richiama alla possibilità di costruire un progetto politico con cautela e razionalità; non Emone, che doveva forse conquistarsi la leadership, ma si uccide con il cuore straziato. Gli altri restano presenze insignificanti, pedine inermi di un gioco più grande: i soldati, i bambini, i vecchi e le prefiche, gli umili ancora in attesa di riscatto, o gli innocenti, come Euridice, nel ruolo insostenibile della moglie del capo e della madre che perde i figli nella faida familiare ma non può nulla. Un dramma di famiglia, dunque, e di una famiglia maledetta, toccata dal malocchio e dalla vergogna, nella quale la conquista del potere è passata attraverso l’omicidio e lo stupro. Una storia esemplare, per chi viene da quel mondo, per dire anche quel che eravamo e che dobbiamo cercare di non essere più.
Antigone
di Sofocle
adattamento Nikos A. Panagiotopoulos
regia Konstantinos Ntellas
con Efthimis Chalkidis, Eirini Konstantinou, Konstantinos Ntellas, Fani Panagiotidou, Despoina Dorina Remediaki, Dimosthenis Xylardistos
scenografia Andreas Skourtis
costumi Konstantina Mardiki
musica originale Alexandros Ktistakis
progetto luci Panagiotis Lampis
movimenti Androniki Marathaki
production design Konstantinos Sakkas
responsabile produzione Maria Vasariotou
produzione Delta Pi