Cividale del Friuli, luglio 2019: la vertigine incantatrice dal ponte del Diavolo, il silenzio sacro e arcano del Monastero di Santa Maria in Valle e del Tempietto, i segni del potere della Cividale dei Longobardi, preceduti da quelli, oggi quasi invisibili nel tessuto urbano, di Forum Iulii, la città romana fondata da Cesare.
Al Mittelfest 2019, incentrato sulla leadership[1], il divino Iulius torna a Cividale con il teatro di Romeo Castellucci e il suo Giulio Cesare. Pezzi staccati[2]; lo segue in programma una icona mitica del potere, il Creonte dell’Antigone di Sofocle con la regia di Konstantinos Ntellas, in ‘prima’ italiana dal cosiddetto ‘piccolo teatro’ di Epidauro[3] (nell'immagine qui sotto) in una Chiesa sconsacrata di Cividale[4], vicina al fiume che passa sotto il ponte del Diavolo.
All’inizio, il cerchio.
Simile all’acqua di un fiume quando scorre lento, una processione di donne e uomini di ogni età entra nella spoglia Chiesa di San Francesco. Si snoda lungo l’asse centrale della piccola navata unica, interrotto ad arte da un cerchio, mimesi di una delle forme dell’orchestra del teatro greco classico, che erano anche rettangolari, trapezoidali, a semicerchio.
La forma circolare ha lasciato la traccia più compiuta proprio ad Epidauro, nel teatro dalla leggendaria acustica, mentre quella a semicerchio – pur modificata da interventi di età romana – è visibile nel ‘piccolo teatro’ di Epidauro, dove Antigone è stata appunto rappresentata nel 2018. La scelta del cerchio come principale luogo d’azione per la messa in scena della tragedia di Sofocle (scenografia di Andreas Skourtis[5]) da un lato è suggerita dai teatri di Epidauro, dall’altro sembra voluta per i diversi significati di cui si fa portatrice.
Il cerchio esplicita e ritaglia, fin dalle origini, lo spazio per il rito teatrale, che viene agito da attori e coro al suo interno e che si compie pienamente grazie alla presenza interattiva del pubblico, posizionato al di là del limite della circonferenza. Ntellas e Skourtis partono da questo presupposto storico e culturale: gli spazi scenici ed extrascenici, in questa versione dell’Antigone, sono pensati per guidare, supportare, definire le azioni degli attori, nonché per condizionare la percezione estetica da parte del pubblico e suggerire la sua integrazione nel dramma stesso, veicolandone le emozioni.
Due spazi per due pubblici.
Attraverso una precisa organizzazione dello spazio, nell’Antigone di Ntellas si determinano e interagiscono due tipologie di spettatori: una prima seduta nella Chiesa sconsacrata, in parte sui sedili disposti intorno al cerchio – allusione alla privilegiata proedria del teatro greco –; una seconda rappresentata dalla comunità arrivata in processione, composta da cittadini di Cividale. Oltrepassata l’orchestra e salite poche scalette, questa comunità giunge su un palco al di là dell’orchestra che riecheggia la skene di un teatro greco.
La diversa attribuzione dello spazio ai due gruppi traduce una differente identità degli spettatori e qualità della partecipazione. Il pubblico che prende posto in Chiesa è ‘tradizionale’; gli uomini, le donne, i bambini seduti nello spazio-skene, invece, con lo sguardo rivolto sia agli attori sia agli spettatori di fronte, hanno natura e funzione ibrida: in parte hanno lo stesso ruolo del pubblico canonico, in parte appaiono il riverbero di questo sulla scena, in parte sono amplificazione del coro nell’orchestra e, dunque, si definiscono anche come spettatori-attori.
Il cerchio fatale della famiglia.
Molte delle scelte registiche di questa Antigone derivano dall’idea dell’orchestra come spazio originario del movimento scenico, dalla volontà di riaffermare l’orchestra come luogo che dà vita all’azione teatrale. Perciò è qui, nel cerchio, che gli attori agiscono per quasi tutta la rappresentazione e dal cerchio dell’orchestra Konstantinos Ntellas e Androniki Marathaki (assistente alla regia) creano il primo gesto teatrale di questa Antigone: movimenti circolari, sempre più veloci, un vortice, un turbine di vento, che si raggruma infine nell’abbraccio di Antigone e di Ismene e che, nello stesso tempo, spinge ai margini dell’orchestra gli altri attori.
Abbraccio tra sorelle, colpite da una recentissima morte fratricida, tra figlie eredi di un nome fatale: Edipo. Il peso della famiglia maledetta, persistente nella vicenda dell’Antigone, si rivela fin dai primi gesti del dramma e trasforma l’abbraccio sororale in un corpo a corpo fra Antigone, che si muove come un animale selvatico ferito e imbizzarrito, chiuso in gabbia, e Ismene, suo (vano) domatore.
Nel centro esatto dell’orchestra si concretizza e si rende visibile inoltre uno dei gesti più iconici di Antigone, compiuto appena la giovane viene portata davanti a Creonte dalla guardia, come responsabile del vietato seppellimento di Polinice: lo sguardo a terra, la testa reclinata da un lato, un gesto sottolineato dalla battuta del re («tu che tieni la testa china al suolo, ammetti di averlo fatto?»). Antigone alza poi il viso ma guarda lontano, anticipando una distanza da tutti che diventerà sempre più irresolubile. Il tono della sua risposta, una ferma ammissione di aver agito andando contro il decreto del re, sprigiona forza e invasamento, in un crescendo che porta la voce di una giovane donna poco più che bambina a farsi violenta, potentissima, fino a diventare urlo. Antigone, allora, si distacca febbrilmente dal centro dell’orchestra, alla ricerca di spazi lontani dal luogo in cui era stata inchiodata dall’accusa di Creonte.
La scena circolare, che richiama l’antica orchestra, più che spazio paragiudiziario e parapolitico, si denota come spazio familiare perché lì Ntellas-Creonte, che non è solo il re, ma anche e prima ancora lo zio di Antigone, reagisce alle parole delle due nipoti con gesti propri di una violenza non di Stato ma familiare.
Le azioni di segno contrario, quelle pietose e affettuose di Ismene verso la sorella – l’accarezzare i capelli, l’abbracciare teneramente alla vita –, che rimandano a una dimensione ancor più intima e familiare, non hanno posto in questo dramma: a loro Antigone oppone una ostinata resistenza che sfocia presto in un radicale rifiuto.
Questo lessico di gesti e di emozioni si equipara a quello della scena in cui Creonte e il figlio si incontrano e si scontrano, scena in cui la vicinanza iniziale è presto soffocata da silenzi che sono abissi di incomunicabilità e da un allontanamento fisicamente brutale.
Le azioni di questa Antigone sono segni di un dialogo impossibile tra personaggi che vivono lo iato ineluttabile degli equilibri di una famiglia, la cui rovina si intreccia alla catastrofe di una città.
Palco della città-spettatrice e palco del potere.
In un simile dramma, lo spazio non si limita a essere puro sfondo: la skene-palco è uno schermo reso vivo dalle reazioni degli atipici spettatori e l’orchestra, vale a dire il principale spazio scenico dell’Antigone di Ntellas, viene sfruttato interamente dagli attori per costruire il gesto tragico.
Orchestra e skene, che vivono in un dialogo rispettoso delle proprie suddette specificità, arrivano infine a contaminarsi: avviene in uno dei momenti più drammatici, quando il sovvertimento dei destini diventa pressante.
Durante il congedo di Antigone dalla vita, che si apre con lo sguardo in alto «per vedere il sole per l’ultima volta», Creonte ascolta le parole della nipote fuori dall’orchestra, dall’alto del palco dove siedono i Cividalesi. Si aggira alle loro spalle, ma la sua presenza è stonata, specialmente quando tutti si alzano in piedi alle parole della giovane: «guardate le leggi che mi portano a morire». Creonte non fa parte di quella comunità, se ne è voluto staccare nel momento in cui non ha ammesso eccezione alcuna per il proprio editto. Inutilmente Emone lo richiama all’ascolto dell’opinione degli altri, che per paura mormorano ma non alzano la voce; inutilmente gli chiede di piegarsi come giunco per opporsi alla violenza distruttiva della corrente. Creonte presume di potersi elevare sopra quel coro che, pur rimanendo muto, si alza in ossequio al commiato di Antigone.
A questa coralità inefficace, perché tutto sommato indifferente, si oppone la solitudine di Antigone nell’orchestra, solitudine che si esprime anche attraverso gesti che non sembrano più umani, ma di un automa mosso da fili invisibili: tali appaiono soprattutto i movimenti delle braccia, che tagliano lo spazio con compulsiva meccanicità.
Non c’è più nessun contatto, né fisico né visivo, fra Creonte e Antigone. Non si guardano più in faccia. L’uso dei due diversi piani scenici da parte dei due attori, quello circolare, dove continua a trovarsi Antigone, inchiodata al suo fato, e la skene-palco, dove il re parla alla giovane da una posizione elevata, quella del potere che domina dall’alto, rende icastica l’incomunicabilità fra i due e anche il loro irrecuperabile isolamento dalla comunità.
Creonte dovrà scendere dal livello sopraelevato, tornare nell’orchestra e misurarsi, in uno spietato faccia a faccia, con il suo proprio destino che non è meno crudele di quello di Antigone. Quando Creonte scoprirà della morte di Emone e di Euridice, i suoi precedenti movimenti nell’orchestra, improntati a senso del potere e possesso di autorità, tuttavia adombrati dal vacillare del passo claudicante ed edipico, probabile ripresa del barcollare di Creonte-Julian Beck nel finale dell’Antigone del Living (Eva Marinai, Antigone di Sofocle-Brecht per il Living Theatre, Pisa 2014, p. 181), si pietrificheranno in una atrofizzata immobilità.
Il cerchio danzante.
Il piano dell’orchestra appartiene, oltre che agli attori, al coro.
Questa messa in scena si interroga produttivamente anche sul ruolo del coro nella tragedia – un ruolo che il teatro moderno non conosce – e su come esso può essere proposto in una rappresentazione contemporanea. Ntellas sembra tener fede ad alcune originarie accezioni, prerogative e prossemiche del coro tragico per elaborare, a partire da queste, altre coerenti con la propria ri-costruzione teatrale dell’Antigone. In questa rientrano gli anomali spettatori sul palco-skene, che assumono anche la funzione di ampliamento del coro in azione nella scena-orchestra; in questa si colloca il movimento di distacco degli attori dal coro, che sembra richiamare l’origine stessa dell’azione tragica, per cui un coreuta cominciò a dialogare con gli altri coreuti, separandosi da essi, e ad assumere il ruolo di attore, come sembra dedursi da una fonte antica[6].
Ntellas, nella sua messa in scena, non si ferma a questo movimento di distinzione ma ne crea uno di senso contrario. Negli stasimi, nelle sezioni della tragedia dove in scena domina il coro, fa tornare a questo gli attori, fa ritrovare una unità perduta nella condivisione del canto: un’unità di voci e di sentimenti che richiama la genesi della tragedia.
Negli stasimi, ricorrono movimenti circolari che la forma stessa dello spazio, con la complicità di una sonorità ipnotica, amplifica e fa percepire sempre più ossessivi, tanto da indurre persino a pensarli come l’onda lunga delle ossessioni di Antigone e di Creonte, della philia per Polinice dell’una, dell’esercizio del potere dell’altro.
Nel quinto e ultimo stasimo, in cui si ripercorrono i luoghi mitici di Tebe, dove si evocano Dioniso e la «danza di stelle palpitanti», l’orchestra di riappropria della sua originaria e specifica funzione di spazio del danzare (secondo l’etimologia di orchestra da orcheomai, danzo) e la coreografia sembra riscoprire schemata gestuali, corporei, molto simili a quelli di satiri e menadi danzanti della ceramografia attica, attraversati da invasamento ed estasi dionisiaca.
L’effetto è potente perché questa danza del coro precede la nera sequenza di morti, da Antigone a Emone a Euridice, e la morte metaforica di Creonte. Precede dunque la stasi, il fermarsi di ogni movimento, ossia l’evento tragico come metafora dell’immobilità.
Lo spazio del sacro.
La Antigone di Ntellas ripensa un’altra cifra della tragedia di V secolo a.C., la sacralità del luogo. Ad Atene, Antigone fu rappresentata nello spazio rituale di un teatro che era connesso al santuario di Dioniso Eleutereo; per la ripresa contemporanea di Antigone a Cividale si è scelta la Chiesa di San Francesco, uno spazio rituale anch’esso che, pur divenuto altro nel tempo per i vari riusi, ha conservato segni originari del sacro, per lo più affreschi tre-cinquecenteschi. Su tutti spicca una Crocifissione nell’abside centrale, di fronte alla quale è stato sospeso un pannello su cui scorre la traduzione italiana della tragedia, recitata in greco.
Nei versi che portano idealmente in scena Zeus, come in quelli del messaggero che suggella l’annuncio della morte di Emone affermando «il fato è tutto», l’immagine cristiana crea uno stimolante cortocircuito.
Lo spazio della Chiesa, in cui domina il Crocifisso, entra in un imprevisto e intrigante dialogo con lo spazio ideale del sacro definito dalle parole della tragedia, in particolare da quelle che evocano Zeus, pronunciate da Creonte e Antigone. Il re, alla sua prima entrata in scena, chiama a «testimone», con voce stentorea, «l’onniveggente Zeus» e le mani che Ntellas protende verso il cielo sono rivolte, agli occhi degli spettatori, anche verso un Dio, quello crocifisso nell’affresco, che certo non è tale per il personaggio Creonte, ma lo è nell’immaginario degli spettatori.
Per questi – almeno per alcuni – quel gesto, inserito in uno spazio che è pittorico oltre che architettonico, acquista una potenza visiva ed emotiva polisemica.
Una profana Pietà.
La morte del Figlio di Dio entra implicitamente a far parte soprattutto delle scene finali di Antigone, segnate dalla morte non solo della fanciulla ma anche del figlio di Creonte, Emone, e della madre.
Alla notizia del suicidio della donna, le parole del re: «caro dio, ora tremo di paura» sgretolano l’autocrazia che il potente sovrano pensava incrollabile, anche per la sua capacità di ingenerare paura nel popolo. Ora invece proprio la paura avvolge e paralizza lo stesso re.
Il gesto di Ntellas-Creonte di fronte alla morte del figlio e della madre può suscitare in spettatori come noi, che abbiamo nella nostra cultura visuale almeno una Pietà cristiana, quella di Michelangelo, una feconda eco di immagini e pensieri e un indubbio disorientamento. Creonte porta il corpo del figlio verso la madre seduta e senza vita. In questo modo sembra comporre una Pietà ma, di fatto, rende visibile a sé stesso e al ‘doppio’ pubblico della tragedia la propria responsabilità di due morti, rispetto alle quali appare vano ogni gesto di umana pietà e inutile ogni invocazione a Zeus, chiunque egli sia.
Dalla città alla Chiesa, e viceversa.
Uno spazio non teatrale come una Chiesa sconsacrata si rivela così un perfetto spazio teatrale per l’Antigone di Ntellas, sia per il modo in cui è stato riconfigurato, richiamando il luogo della ‘prima’, il teatro piccolo di Epidauro e il suo contiguo, più celebre omologo, sia per le implicite potenzialità sceniche e drammatiche dello spazio visivo della stessa Chiesa, che comprende anche le immagini, intimamente legate allo spazio architettonico: mi riferisco all’affresco della Crocifissione e alla sua collocazione nel punto focale dell’architettura.
La Chiesa che ha accolto Antigone è un edificio rappresentativo della città di Cividale, come era rappresentativo della polis di Atene il teatro del santuario di Dioniso, dove Antigone andò in scena nel 442 a.C.. Con questa consapevolezza acquista un valore più intenso il percorso a ritroso dei Cividalesi verso l’uscita della Chiesa e, insieme a loro, degli attori, che sono stati anche coro.
Tutti di nuovo in processione; alcuni sorreggono una specie di cenotafio, una tavola di legno sormontata da una struttura scheletrica che, durante la rappresentazione, giovani cividalesi hanno ornato con ghirlande: è la città che dà gli onori ai morti, al di là di Antigone e Creonte; la città che intona il canto per loro.
L’ultimo a uscire è Creonte. «Tutto intorno a me è morto» sono le sue ultime parole, e un uomo della città, un Cividalese, lo sorregge: solo lui può farlo, perché rappresenta la comunità che sorregge il proprio stesso dolore.
La tragedia viene dalla città e torna alla città, in senso reale e metaforico.
Oltre lo spazio teatrale.
Lo spazio teatrale si dilata così oltre quello del teatro in senso stretto e si unisce infine simbolicamente a quello dell’Antigone di Bertold Brecht messa in scena da Maria Signorelli con la compagnia L’Opera dei Burattini, ricordata nell’incantevole Centro Internazionale Vittorio Podrecca - Teatro delle Meraviglie Maria Signorelli[7], non lontano dalla Chiesa di San Francesco.
La traduzione italiana dei versi di Antigone, citati nell’articolo, è quella usata nella Antigone di Konstantinos Ntellas.
ANTIGONE di Sofocle
Traduzione e drammaturgia: Nikos A. Panagiotopoulos
Regia: Konstantinos Ntellas
Assistente alla regia e movimenti scenici: Androniki Marathaki
Scenografia: Andreas Skourtis
Assistenti alla scenografia: Vivianna Chiotini, Mania Chrysomallidou
Costumi: Konstantina Mardiki
Musica: Alexandros Ktistakis
Luci: Panagiotis Lampis
Cast: Efthimis Chalkidis, Thanasis Dovris, Konstantinos Ntellas, Fani Panagiotidou, Maria Parasyri, Despoina Dorina Remediaki
Produzione: Delta Pi
[1] https://www.mittelfest.org/2019-leadership.
[2]https://www.mittelfest.org/2019-leadership/giulio-cesare-pezzi-staccati-julius-cesar-spared-parts-14.
[3]http://greekfestival.gr/festival_events/antigone/?lang=en.
[4] https://www.visionideltragico.it/blog/schede-critiche/l-antigone-mediterranea-di-kostantinos-ntellas-mittelfest-2019.
[5] http://performingarchitectures.com/portfolio/staging-antigone/.
[6] Cfr. Diogene Laerzio, 3,56: «[…] anticamente nella tragedia dapprima era il coro soltanto a svolgere l’azione drammatica, e poi Tespi inventò un attore, per concedere una pausa al coro […]».