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Un fiume di fango che trascina, imprigiona, sommerge. Viene dalla montagna, le cui pareti sembrano precipitare insieme al cielo plumbeo; la pioggia pare sporca già nel cadere, un’unica corrente di lava scura ma non incandescente, melmosa, trascina detriti e si accumula sulle strade, mura le porte delle case, si insinua nei sotterranei. Una forza poderosa cancella tutto quel che c’era, disegna un nuovo paesaggio senza alcuna logica, una sepoltura scomposta, disordinata, casuale. Visto da lontano, sullo schermo, al sicuro, anche l’inondazione di Bitti come ogni spettacolo tragico ha qualcosa di sublime, diventa immagine di un destino crudele e implacabile che colpisce altri, un naufragio in un mare vischioso di cui siamo solo spettatori.

Penso a G., che conosco solo per la sua iniziale su un quadratino dello schermo durante le nostre lezioni a distanza, coraggioso studente di lingue che ha voluto frequentare il corso di letteratura greca, perché, mi ha detto, è alla ricerca di ispirazione. Si collega da Bitti, chiede ogni volta quand’è che si ricomincia in presenza, vuole tornare a Sassari, dagli amici. Penso a S., che non ha mai acceso la telecamera, che vive con i genitori a Torpé: forse la sua famiglia è tra gli sfollati di oggi; anche per lei Letteratura greca è un esame a scelta, un modo di andare alla ricerca di sé stessa, mi ha detto una volta, perché non sa bene ancora cosa farà da grande. Vedo le immagini alla televisione, e mi chiedo cosa sinora hanno fatto o potuto fare i geologi sardi, e perché sull’ isola e al Sud si è sempre in ritardo rispetto agli eventi; mi chiedo perché non si impara dalla storia, la più antica e la più recente (le ultime disastrose alluvioni sembrano accadute ieri, eppure c’è stato il tempo, c’è sempre il tempo di fare qualcosa). E mi chiedo anche se a quegli studenti dell’Università di Sassari che abitano in Barbagia, mentre vedevano il fango invadere le strade del loro paese, e adesso che certamente stanno scavando e aiutando a rimuovere i detriti, siano venuti in mente quei versi di Omero che descrivono Achille in lotta con il fiume Scamandro.

Nel XXI libro dell’ Iliade, Achille, preso da furia infinita per la morte di Patroclo, comincia a menare strage tra i nemici Troiani, e ne dissemina i cadaveri nel fiume – che scorre davanti alla città assediata. Le acque si riempiono di morti e si tingono di rosso sangue; il fiume, che è anche un dio, non sopporta di essere così oltraggiato, e rivolge la sua ira contro l’eroe greco. Si unisce all’altro fiume che scorre sulla piana di Troia, il Simoenta, smuove tutti i torrenti, solleva ondate immense, trascina tronchi e massi, vuole seppellire Achille nel fango, coprirlo di ghiaia così che non possano più ritrovarne nemmeno le ossa. Achille dapprima si attacca ad un olmo, poi, quando anche quello rovina, comincia a fuggire a precipizio, però i flutti sono più veloci e potenti di lui, lo raggiungono, lo sommergono e lo fanno sprofondare: sarebbe morto, se non fosse venuto in suo aiuto un altro dio, ancora più potente, il dio del fuoco, bruciando olmi, salici, tamerischi, il trifoglio, il giunco, il cipero sulle rive, soffocando anguille e pesci, rendendo arido il fango. La siccità diventa ancora più letale dell’inondazione.

Il dio fiume, che gli antichi immaginavano anche con la forma di un toro e di un serpente, indietreggia davanti all’incendio, lascia suo malgrado la preda, l’uomo che ha osato sfidarlo, che ne ha intasato i canali e il letto con i cadaveri, che ha voluto cioè caparbiamente ostacolarne la corrente. Proprio mentre sta descrivendo la furia muggente del fiume, il poeta inserisce però una similitudine, un paragone; come per altre similitudini dell’ Iliade, lo scopo principale del poeta sembra essere dare una pausa di respiro all’uditorio, al pubblico, in una scena di grande tensione. E perciò il poeta riporta il pubblico ad una realtà più quotidiana, spostando l’attenzione dal mondo lontanissimo e simbolico del mito, intriso di guerra e di sangue, ad un più pacifico e vicino angolo di mondo, dove si allevano e tosano le pecore, si mungono e si fa il formaggio, dove si allontanano i nugoli di mosche dai secchi di latte e si ricava il miele dagli alveari. Questo è il mondo conosciuto da chi ascoltava i poemi di Omero: un mondo di solitudini mediterranee, come quelle della Sardegna, dove al tramonto si raccolgono gli animali negli stazzi, dove l’alba ha le dita di rosa e i tramonti sono incendi, dove il vento piega gli ulivi; dove le stelle servono da riferimento per i pescatori, dove la tosatura è ancora una festa. Una volta, tempo fa, ho partecipato anch’io, ad una tosatura proprio in un ovile vicino Bitti, mangiando poi alla tavola separata delle donne e dei bambini.

Ma torniamo a Omero: mentre racconta la piena travolgente dello Scamandro, del fiume-dio, il poeta usa una similitudine che ricorda il lavoro duro ma umile dei campi e la sua importanza:

Come quando da fonte d’acqua bruna / un uomo che irriga i campi indirizza l’acqua corrente verso orti/ e frutteti rimuovendo con la zappa i detriti da un canale,/ e rotola ogni ciottolo sul fondo quando il rivo scorre in discesa e gorgoglia riversandosi veloce/ sul terreno in pendio e precedendo colui che lo indirizza, /così l’onda tornava sempre a raggiungere/ il pur rapido Achille (XXI, 257-264).[1]

La similitudine certo è strana, ed è parsa fuori luogo anche ad alcuni antichi: cosa ha a che vedere un rivolo disciplinato, le cui acque canterine procedono veloci ma ben condotte, con la violenza cieca e assassina del fiume divino adirato? Perché il poeta ricorda, proprio mentre descrive l’infuriare della natura, mentre pare di udire lo strepito, il fragore delle acque che tutto travolgono, proprio mentre lo scenario di morte è amplificato dai cadaveri scompostamente trascinati da onde che si alzano, proprio mentre il dio-fiume rivolge  minacce terribili al più forte e violento degli eroi, Achille, perché proprio in quel momento al poeta viene in mente un uomo umile, un contadino, che con la zappa libera i canali, e lascia scorrere veloce e allegra l’acqua verso i suoi campi?

Le similitudini omeriche, diceva Goethe, sono asterischi, luminosi punti di luce nel tessuto dell’epica. Il poeta se ne serve per comunicare con il suo pubblico, per ricondurlo all’attualità, per mostrare di saper fare poesia non solo con antichi racconti. E dunque: cosa vuol dire questo piccolo punto luminoso, la descrizione precisa e dettagliata di un camparo, che indirizza l’acqua e così rende più fertile la sua terra?

Dobbiamo guardare al contesto: Achille, nell’ Iliade in generale e nel XXI canto in particolare, è un archetipo dell’eroe tragico che troppo osa e crede di possedere forza infinita, con la quale piega gli uomini ma anche la natura. Il fiume divino si adira con lui perché ne è offeso: Achille ha reso il letto del fiume un cimitero, ne ha sporcato le acque con oggetti pesanti, i cadaveri e le loro ormai inutili armature; il fiume si lamenta perché non può più scorrere verso il mare. I pesci si nutrono dei corpi, e così si contaminano.  Achille, insomma, ha profanato, trasgredito e ostacolato un importante elemento della natura, le sue leggi, la sua funzione. Ecco allora perché il poeta inserisce, per contrasto, una similitudine che è invece idillica, e che Virgilio imita nelle Georgiche in un contesto più adatto, di un contadino che riesce a porre rimedio all'arsura del terreno.

Alla violenza cieca di Achille, alla sua hybris, all’arroganza con cui si accosta al fiume e lo sconcia, fa riscontro l’accortezza dell’irrigatore, che conosce la preziosità dell’acqua, che è grato della sua presenza, che pulisce i canali, e non li sotterra (come è stato fatto anche in Sardegna), per rendere agevole il loro scorrere. Il contadino apre la via all’acqua per servirsene, e così l’uomo si fa dominatore della natura, assecondandola, non ostacolandola né contrapponendovisi. Il linguaggio del mito, e della poesia epica, naturalmente, non è trasparente, va compreso nei suoi simboli: Achille è il cattivo esempio, anzi l’esempio di una forza e di una potenza mal utilizzata, che a nulla serve a difenderlo dal suo destino. Se non muore sepolto dalla melma che il fiume gli trascina addosso, è solo perché destinato a morire, presto, in altra occasione.

I Greci antichi avevano paura dei fiumi, che in quanto divinità non potevano offendere o addirittura sfidare, come fa Achille. Per cattivarsene il favore, a divinità fluviali erano dedicati templi e culti specifici; i fiumi erano potenziali e rabbiosi distruttori, ma anche salvatori, ad esempio dei naufraghi in mare[2]. Sempre nel mito, è Eracle, l’eroe che vince i mostri, a sconfiggere Acheloo, il fiume più importante della Grecia, metamorfico e pericoloso, stupratore e violento: Eracle è l’eroe che distrugge le creature più orrende che la mente umana possa immaginare, imponendo infine la civiltà. Achille non è invece figura della misura, della civiltà, del rispetto, anche verso la natura. La sua arte è quella della guerra, non miete le spighe dei campi ma vite umane, non regola il corso del fiume ma lo rende fiume infero, spettrale. Così un altro grande arrogante, Serse, crederà di poter imporre il giogo al mare, rendendolo attraversabile, e con questa sua opera di ingegneria si procurerà l’ira degli dei.

Nel secondo canto corale dell’ Antigone si dice che molte cose sono terribili e meravigliose insieme, ma nessuna più dell’uomo, e tra le sue prime imprese che lo rendono così ambiguamente ammirevole c’è il saper percorrere le vie del mare anche quando scoppia la tempesta. La natura non va sfidata, vuole dire il coro dell’ Antigone , ma l’uomo, che della natura è parte, deve sapersi ritagliare il suo proprio spazio, per vivere in simbiosi con essa, poiché la natura è sempre più potente e può distruggere le opere umane, se lo vuole. Perché l’uomo, anche il più violento e feroce, come Achille, rispetto alla natura è piccola cosa.

Le catastrofi sono sempre in agguato, ma il lavoro costante e responsabile può costituire una forma di resistenza e può, anzi deve, contribuire a prevederle e se possibile ad evitarle. Rispetto ad Omero e al coro dell’ Antigone abbiamo purtroppo scoperto che la natura non è immutabile, né che sempre ha ragione di noi e dunque sfugge al nostro dominio: ma proprio per questo, dobbiamo essere come l’irrigatore di Omero, che non è spaventato dalla forza e dalla velocità dell’acqua, perché libera i canali. Non ci venga mai in mente di ammirare Achille, né alcuno degli eroi a lui analoghi.

Gli studenti a cui io faccio lezione non studiano geologia, e forse per questo non si misureranno mai concretamente con delle responsabilità di gestione del piano idro-geologico sardo. Ma forse non sarebbe sbagliato che si ricordassero di Omero i geologi e gli amministratori attuali, e certamente quelli futuri. Perché i fiumi di fango non scorrano più.         

 

[1] La traduzione, tranne per una parola, è di Franco Ferrari (Oscar Mondadori).

[2] Come Odisseo (Odissea, V, 450 ss.)