«Tra gli antichi poeti, Sofocle è uno dei più grandi. Di lui ci restano soltanto alcune tragedie. In ciascuna di queste, il personaggio principale è un essere coraggioso e fiero che lotta da solo contro una situazione intollerabilmente dolorosa; si piega sotto il peso della solitudine, della miseria, dell’umiliazione, dell’ingiustizia; a tratti il suo coraggio viene meno; ma tiene duro e non si lascia mai degradare dalla sventura. Così queste tragedie, benché dolorose, non lasciano mai un’impressione di tristezza. Se ne ricava piuttosto un’impressione di serenità»[1].
Sono parole di Simone Weil (1909-1943) in un breve testo, dedicato all’ Antigone di Sofocle, scritto nel 1936 e destinato al giornale della fabbrica ai cui operai insegnò per un anno.
Insieme all’ Antigone, la filosofa francese parlò ai suoi scolari anche dell’ Elettra e del Filottete: i tre testi sono stati di recente raccolti per il Melangolo con l’opportuno titolo Filosofie della resistenza da Francesca R. Recchia Luciani, che nella sua prefazione interpreta le pagine di Simone Weil come un’indiretta ma efficace esortazione a resistere all’oppressione esercitata dai poteri, politici ed economici. I racconti della tragedia greca rivelano così, nella lettura mirata della filosofa, le loro potenzialità nella vita e nelle difficoltà di ogni giorno, come nei momenti di maggiore crisi, fornendo esempi a cui ispirarsi moralmente, esempi di dissenso, forza, sacrificio contro tutti quegli apparati che stritolano gli esseri umani, li riducono a nuda vita, li schiacciano con la loro forza soverchiante.
Il mito, in origine, secondo il significato della parola greca, non è nient’altro che un racconto, e le tragedie greche mettono in scena miti che esemplificano condizioni esistenziali estreme, storie la cui trama scaturisce da una lunga tradizione di riflessione sulla sorte dell’uomo nel mondo, o che alludono anche a situazioni storiche particolari, alcune delle quali per noi possono restare oscure perché troppo lontane nel tempo. Ogni mito, vogliamo dire, contiene sempre un grado di esemplarità, e perciò ogni epoca ha bisogno di miti, antichi, recenti oppure nuovi.
In particolare, il nostro tempo ha bisogno più che mai di paradigmi di resistenza, di esempi che ci raccontino il coraggio, la dedizione, la capacità di opporsi a poteri, umani e naturali, che travolgono d’improvviso le vite individuali e quelle della collettività, fagocitandole. L’ultimo anno di pandemia ha acuito incalcolabilmente il bisogno di resistenza, divenuto uno dei termini cruciali del presente.
Quanto più avvertiamo il nostro tempo come tragico, nel senso comune di tragico come situazione di conflitto tra l’individuo e forze ostili e soverchianti, tanto più abbiamo bisogno di esempi di resistenza e di miti di resistenza. Simone Weil non sbagliava davvero nel vedere in alcuni eroi di Sofocle e nel loro individualismo esasperato proprio esempi del genere; però non ci sono solo gli eroi tragici antichi a testimoniare la resistenza necessaria, e possiamo e dobbiamo rivolgerci anche alla storia evenemenziale a noi più vicina e ai protagonisti di movimenti di resistenza in ogni parte della terra e in ogni epoca.
Purtroppo, però, non tutti gli esempi di resistenza diventano miti, e non tutti sono raccontati. Esistono anche eroi scomodi per il senso comune e la moralità borghese, eroi rifiutati non perché le loro azioni non siano state esemplari, ma perché il loro ruolo nel mondo non era considerato accettabile.
Proprio eroi di questo genere sono i protagonisti di La resistenza negata di Fortunato Calvino, drammaturgo napoletano attento da decenni a storie tragiche di resistenza individuale alla fame, alla miseria, alla guerra e all’emarginazione.
Il dramma nasce anch’esso da una serie di mythoi, di racconti, ossia dalla memoria delle quattro giornate di Napoli del 27 al 30 settembre 1943, tramandata oralmente da un sopravvissuto, il partigiano Antonio Amoretti, classe 1927, detto ‘Tonino ‘u biondo’, che più volte ha voluto tramandare ciò di cui è stato testimone (vedi per esempio qui). Non si tratta però di un dramma documentario: sebbene i personaggi siano riconducibili a persone realmente esistite, talora un po’ più note, come Maddalena Cerasuolo, essi - come i protagonisti del mito greco – sono anche figure di racconto, maschere esemplari per le azioni compiute e per le scelte individuali, senza le quali ogni azione corale diventa impossibile, ogni rivolta, ogni rivoluzione, ogni barricata è destinata a soccombere.
Personaggi, quelli del dramma di Calvino, da Maddalena a ‘la Cecata’ , da Mariasole a Sasà, eccezionali per il loro coraggio e per la loro strenua e disperata opposizione alla rabbia dell’esercito tedesco che menava strage in una Napoli non ancora liberata; ma eccezionali anche perché figure di quell’umanità ai margini, di cui si disconosce la grandezza solo per pregiudizio: le donne da una parte, e i cosiddetti ‘femminielli’ dall’altra. Perciò la resistenza di cui parla il titolo del dramma è stata negata, ossia nascosta, taciuta, sottovalutata dalla storiografia ufficiale, che ha reputato poco pedagogico o morale parlarne.
Invece il testo di Fortunato Calvino, risultato vincitore del Premio Carlo Annoni per testi teatrali a tematica gay e sulle diversità nella sfera dell’amore nell’edizione 2020, pone in primo piano proprio le donne e i ‘femminielli’, intrecciando ad una vicenda di eroismo disperato quella di un amore irrealizzabile, tra un uomo già sposato e un ‘femminiello’.
Si tratta perciò di una tragedia basata sul binomio amore e morte, dall’esito infelice, perché proprio come un eroe sofocleo uno dei protagonisti soccombe sotto il peso del proprio eroismo e della propria generosa, ma incosciente, giovinezza, avvilito anche da un amore che non può essere ricambiato per la morale comune, capro espiatorio, perciò, della guerra e della crudeltà, ma anche dell’incomprensione. Eppure tutto questo non rabbuia né intristisce, ma dà anzi serenità: lo stesso scriveva Simone Weil a proposito delle tragedie di Sofocle[2].
Infatti, sentire a distanza di quasi ottant’anni il racconto di chi c’era, e vuole trasmetterlo ai più giovani e giovanissimi, commuove, ma concede anche una grande forza: la lezione della tragedia è sempre che all’uomo si può rubare tutto, anche la dignità, ma non la libertà interiore, scriveva Weil. La resistenza all’ingiustizia e all’oppressione, dunque, quando è insita nella natura dell’essere umano coincide con l’aspirazione alla felicità. «Elevarsi da una situazione psicofisicamente intollerabile sarà solo il primo passo verso la conquista della gioia di vivere», scrive Francesca R. Recchia Luciani a proposito degli scritti di Simone Weil sulla tragedia greca. Ed è quello che accade nel dramma di Calvino, il cui titolo, allora, risulta ironico in senso greco: perché la resistenza esemplare non si può negare, e il ruolo di quegli eroi, anche se rimasti senza nomi, ai margini della società e anche ai margini dei sentimenti per chi si reputa ‘normale’, non si può cancellare.
Noi abbiamo ascoltato parte del testo di Calvino in una mise-en-espace nell’ambito del Festival dei Filodrammatici Lecite/Visioni, giunto alla sua nona edizione, sostenuta dalla Chiesa Valdese (grazie all'8Xmille), che in quest’anno particolare di distanziamento e negazione del contatto umano ha saputo presentare un programma concentrato sulla storia delle diseguaglianze e dell’omofobia, dai primi dell’ Ottocento sino agli anni ’80 del secolo scorso, passando, appunto, per gli anni del fascismo e la seconda guerra mondiale.
I quattro attori che hanno interpretato tutte le parti del copione di La resistenza negata, sdoppiandosi (il dramma prevede otto attori), hanno dato una grande e collaudata prova performativa: grazie dunque ad Antonella Cioli, Luigi Credendino, Gregorio De Paola, Francesco Barra. Certamente nella cornice del Teatro Campania Festival, il 12 e 13 giugno prossimo, la messa in scena, nella grande tradizione del teatro di prosa napoletano, risulterà esteticamente ed emotivamente più d’impatto, e introdurrà – crediamo – un altro protagonista: lo spazio, quel basso nei pressi di piazza Carlo III, cuore di tutta un’umanità perseguitata, casa, rifugio, cervello di una città dilaniata dai bombardamenti e dalle rappresaglie tedesche.
In una drammaturgia esemplare e dal ritmo serrato, dal messaggio così esplicito e importante, ci è invero dispiaciuto un po’ ascoltare inserzioni di tipo didascalico e che ci sono sembrate troppo retoriche, forse destinate ad un pubblico che può rivelarsi poco sensibile, sia al tema che alla storia.
Ma è stato un attimo. Per il resto, solo convinti applausi.
[1] Simone Weil, La rivelazione greca. A cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Milano, Adelphi, 2014, p. 13.
[2] Vd. la traduzione citata, n. 1, p. 361, da un passo dei Quaderni della filosofa: «Sofocle ha scelto le leggende più orribili (Edipo, Oreste) per portarvi la serenità. La lezione delle sue tragedie è: non esistono rapitori della libertà interiore. I suoi eroi conoscono la sventura, non l’ossessione.È più gioioso di una fantasmagoria di Shakespeare… »
Qui sotto l'autore, Fortunato Calvino. Sopra: immagini dalle quattro giornate di Napoli, tratte dalla rete.