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Le sofferenze della pandemia, con le lunghe settimane di lockdown e le difficoltà della fase successiva, sono state una vera tragedia con corollario di malattia, morte e disperazione. Come non partire da questo dato di fatto per allestire una tragedia greca nel settembre 2020, quando la stagione teatrale cerca timidamente di ripartire e il pericolo di una seconda ondata non sembra affatto scongiurato? E quale tragedia greca meglio delle Troiane di Euripide si presta a rappresentare lo stato d’animo predominante oggi, il senso di incertezza dopo la catastrofe, l’angoscia per lo smacco subito, l’ansia per un futuro incerto e minaccioso?

 Il Centro Teatrale Bresciano (CTB) ha riaperto i battenti a metà settembre con un nuovo allestimento del dramma euripideo, con traduzione e adattamento di Angela Demattè, regia di Andrea Chiodi, e pochi ma valorosi attori, tra i quali spicca per intensità Elisabetta Pozzi, nei panni di un’Ecuba quanto mai dolente e prostrata, senza più la forza di resistere o almeno di sperare. Andato in scena dal 9 al 20 settembre al Teatro Sociale di Brescia, davanti a spettatori con mascherina e diligentemente distanziati l’uno dall’altro, questo adattamento delle Troiane ha coinvolto e commosso, rivelando non solo il talento degli attori, ma anche alcuni accorgimenti drammaturgici e spunti interpretativi tutt’altro che banali.

Chi ha in mente la suntuosa messinscena delle Troiane vista al Teatro Greco di Siracusa nella primavera del 2019 (vedi qui la nostra recensione), diretta da Muriel Mayette-Holtz, con un bosco di alberi distrutti e tronchi spezzati sullo sfondo, e la fitta massa corale delle prigioniere troiane ricoperte di polvere bianca, deve fare uno sforzo per allontanare dalla memoria quel fantasmagorico scenario da day after. Qui siamo all’insegna del minimalismo e dell’essenzialità. Pochi attori, pochi personaggi, niente prologo in cielo con Posidone e Atena. Al sollevarsi del sipario si presenta una scena sobria: non già le spiagge di Ilio, ma l’interno di una stanza qualsiasi, con tavolo da cucina e qualche sedia attorno, una poltrona con poggiapiedi, un cavallo a dondolo, un letto da ospedale, un computer. Tanti oggetti della vita quotidiana odierna, sparsi in ordinario disordine, come in un salotto qualsiasi. Di per sé non è nulla di eclatante e non è certo la prima volta che si vede una tragedia greca ambientata nella contemporaneità. La suggestione che si trasmette è il senso della claustrofobia, della reclusione coatta (destino delle figlie di Priamo, ma anche dei cittadini di oggi sottoposti a misure di confinamento domestico). A spiazzare lo spettatore è se mai un water con asse verde, che troneggia in bella evidenza sul fondo, simbolica cloaca dove Cassandra e Andromaca scaricano il vomito del loro disperato dolore. Il vomito di chi ha perso la guerra (contro gli Achei? Contro il Covid 19?) e cerca a fatica di rialzare la testa. A enfatizzare il dolente sgomento si levano le note di Lascia ch’io pianga, dal Rinaldo di Händel, Leitmotiv musicale ripetuto nel corso dello spettacolo, soprattutto nel finale.

 Ecuba, Andromaca, Cassandra ed Elena sono delle sopravvissute che devono riprendere la misura del mondo circostante, metabolizzare il trauma patito della distruzione e del lutto. Il testo e la drammaturgia di Euripide sono sottoposti a pesanti ritocchi. L’adattamento di Angela Demattè e la regia di Andrea Chiodi comprimono e inevitabilmente semplificano la densità del modello antico, ma seguono una linea coerente senza scadere in sbavature grossolane. Elisabetta Pozzi nei panni di Ecuba svetta grandiosamente sulla scena per la capacità tutta sua di condensare le emozioni attraverso gesti e cenni essenziali. È un’Ecuba che sceglie di parlare poco e rinuncia perfino alla tenzone dialettica con Elena sulla responsabilità principale del disastro bellico. Nonostante ci provi ad esortare alla resistenza («Dobbiamo alzare la testa», dice all’inizio), la sconfitta per lei non ha altra conseguenza che l’accettazione composta della sofferenza. Non è vero, purtroppo, che «andrà tutto bene».

 Federica Fracassi è una Cassandra convincente nel rabbioso delirio dionisiaco, nel quale la profezia della propria morte insieme con il re Agamennone si somma ad altre tremende predizioni di stragi e afflizioni che riguardano il tempo presente. Al culmine della collera, prima di essere deportata nell’accampamento del suo nuovo padrone, la principessa si toglie gli occhiali, simbolo evidente della sua capacità di “visione profonda”. Gli occhiali corrispondo allegoricamente alle bende da sacerdotessa della tradizione, e il suo è un gesto di rottura e liberazione dallo status fatale di veggente non creduta.

Curiosa, ma per niente scorretta, la caratterizzazione di Elena, la cui parte è affidata ad Alessia Spinelli. Se ne sta per quasi tutto il tempo in disparte, affondata sulla poltrona davanti al computer, mimetizzata dentro una tuta informe. Ma quando tocca a lei, subito accende la webcam e attacca un lungo monologo apologetico in cui difende il proprio operato accusando d’invidia i tanti hater che la giudicano una poca di buono. Fiera della propria straordinaria bellezza che enfatizza con moine, le smorfie leziose del viso e ammiccamenti sensuali, Elena è qui una sorta di influencer che parla ai suoi follower costruendo una narrazione di comodo.

 Il Coro è risolto in questa messinscena mediante un accorgimento singolare: sullo sfondo vengono proiettate varie immagini di donne che recitano i versi euripidei formando un mosaico di fotogrammi che ricorda da vicino la modalità delle teleconferenze via Skype o Zoom che hanno scandito la vita quotidiana di molti nei mesi passati.

 Resta da dire dell’ottima prova di Graziano Piazza nei panni del messaggero Taltibio, il gelido e cinico burocrate che ubbidisce ai suoi padroni greci e annuncia alla principesse troiane la sorte che le attende. Nelle Troiane di Siracusa 2019 quella parte era stata affidata all’attore Paolo Rossi, che l’ha interpretata in maniera esageratamente subdola e sorniona. Qui la recitazione dei comunicati diviene via via sempre più empatica rispetto alle vittime, fino al clou della notifica che il piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca, ultimo superstite maschio della stirpe troiana, è stato ucciso (sciolto nell’acido, per la precisione, e non gettato dalle mura come vuole la tradizione). Il rito funebre per il corpicino di Astianatte, compiuto dalla sola Ecuba che lo depone su un coperchio di pentola a mo’ di scudo di Ettore, chiude la rappresentazione.

 «Come si può oggi rappresentare una tragedia dopo averne vissuta una ma senza averla vista, senza aver compianto i morti, in altre parole, dopo aver avuto di essa solo un simulacro virtuale? Vite umane ridotte a tamponi, incertezza sull’importanza di parole come: carità, gesto, affetto, compianto rito, vicinanza. Paura della morte». Queste parole si leggono nelle Note di regia di Angela Demattè stampate sul programma di sala. La sfida era difficile, il risultato è suggestivo. E comunque lo si giudichi, è sintomatico che ancora una volta, la cultura teatrale peschi nel serbatoio della tragedia attica del V secolo a.C. per rispecchiare i traumi del recente passato e del presente cercandovi un modo per cicatrizzarne le ferite.

TROIANE

da Euripide
adattamento e traduzione Angela Demattè
regia Andrea Chiodi
con Elisabetta Pozzi
e con Graziano Piazza, Federica Fracassi, Valentina Bartolo, Alessia Spinelli
scene Matteo Patrucco
costumi Ilaria Ariemme
luci Cesare Agoni
musiche Daniele D’Angelo
produzione Centro Teatrale Bresciano

Le foto sono tratte dal sito del Centro Teatrale Bresciano:https://www.centroteatralebresciano.it/spettacoli/2020/troiane