Rossana Rossanda firmò nel 1987 un lungo saggio-prefazione all’Antigone di Sofocle dall’ efficace titolo Antigone ricorrente.
Non conosco le ragioni della casa editrice Feltrinelli nel non voler ristampare la traduzione chiara e fruibile di Luisa Biondetti, e con essa il saggio profondo e meditato di Rossanda, redatto per conto del centro culturale Virginia Woolf di Roma: un saggio che ancora ha molto da dire ed è invece pressoché irreperibile. Più noto, e presente nelle recenti commemorazioni di Rossanda, il lavoro collettivo alla rivista «Antigone» (primo numero nel 1985), in cui però il nome mitologico venne usato in senso puramente simbolico.
Il saggio di Rossanda, invece, rappresenta una complessa lettura della tragedia di Sofocle, con note filologiche, storiche, filosofiche, tesa soprattutto a spiegare perché il mito di Antigone 'ricorra' nella storia e nella cultura di epoche assai diverse.
Al tempo, il saggio di Rossanda fu considerato politicamente inopportuno e scorretto: ma l’analisi della tragedia di Sofocle è acuta e fondata, al di là del significato latamente politico attribuito alla vicenda mitologica. Inoltre meraviglia lo scandalo suscitato proprio dalle osservazioni politiche di Rossanda, che avevano già molti precedenti, come diremo, e per certi versi suonavano come inattuali.
Partiamo con Antigone: nella figura sofoclea di Antigone, Rossanda riconosce l’affermazione dell’etica della persona.
Il racconto di Antigone, nella versione di Sofocle, rilette una condizione pre-politica e anti-politica della società; Antigone resta chiusa nel proprio individualismo, non riesce a rapportarsi, se non conflittualmente, con l'altro e la collettività. D’altro canto, quel che di archetipico è contenuto in questa figura mitologica consiste nella necessità della rivolta di fronte all’oppressione, di fronte ai meccanismi coercitivi dell'autorità, dunque anche di fronte a leggi che sono sentite come ingiuste. Perché ingiuste? Perché violano l'intimità della persona, i suoi valori non transeunti, cioè non legati all'attimo, all'evento, perché non rispettano i sentimenti della persona. Violano, in altre parole, l'amore di Antigone verso il fratello. Perciò Antigone disubbidisce, in nome però di valori e convinzioni che si situano al di là della storia e del transeunte, perché rinviano al tempo lungo della morte, nel quale Antigone si proietta. La disubbidienza di Antigone, perciò, non è politica, non corrisponde cioè ad una rivendicazione politica rappresentativa anche per altri, non riguarda la condizione presente e la possibilità di cambiare o migliorare il mondo. Si tratta invece di una disubbidienza in dome dei diritti della persona (diversi dai 'diritti umani', che nascono invece con la Rivoluzione francese e si identificano, secondo Rossanda, con i 'diritti politici'). L'azione di Antigone non è nemmeno a sfondo religioso: si svolge, infatti, su un terreno completamente laico: gli dei sono assenti dalla tragedia sofoclea, non intervengono né per salvare né per distruggere; gli elementi religiosi o trascendenti sono solo ipotizzati, come nel caso della prima sepoltura, che il coro dubitativamente attribuisce agli dei, quasi a volerli evocare e sollecitare. Il silenzio degli dei, in effetti, è in questa tragedia palese e rumoroso.
E Creonte? Questo signore di «incompleta signoria», rappresenta l’uomo di governo che non sa accettare le regole della democrazia, ossia la necessità di consultare i cittadini prima di prendere le decisioni. Creonte infatti comunica solo dopo aver deciso quali siano le nuove regole, imponendo il consenso. Nel non voler comprendere la natura e la funzione della consultazione democratica, che è invece affermata con modernità rivoluzionaria dal figlio Emone, sta l’errore di Creonte.
Antigone non rappresenta perciò alcuna collettività, nemmeno di genere. Il dissidio al centro della tragedia di Sofocle è tra un singolo ‘io’ e gli altri, è il dissidio tra l’individuo posto davanti a ciò che sente ingiusto e chi glielo impone, è il dissidio tra reazione oppure ripiegamento in se stessi. Antigone esprime anche l’incolmabile squilibrio tra la fragilità dell’ ‘io’ e l’enormità dell’apparato di potere a cui sta di fronte. Antigone denuncia, in sintesi, l'abnormità di un potere che riesce a colpire nell’interiorità, nelle più profonde convinzioni, nelle radicate e anche oscure pulsioni della persona, nel suo desiderare e amare. Perciò disubbidisce.
L’ambito della politica, nella lettura di Rossanda, è lasciato a Creonte e soprattutto ad Emone: posizione che suscitò non poco sconcerto tra le teoriche femministe, per le quali Antigone era, e in parte è ancora, figura di una coscienza specificamente femminile anti-patriarcale e pronta ad operare nella polis. Alla fine del saggio, invece, con un’aggettivazione senza sconti, Rossanda scrive di «cultura femminista immiserente», lì dove si tratti di cultura che voglia necessariamente cercare la differenza nell'azione e nella coscienza delle donne. Il personaggio di Antigone, è vero, «non può che essere donna», scrive Rossanda: ma proprio perché si riferisce ad uno stadio pre-politico, senza forma politica, per nulla consapevole delle strutture del potere e per nulla partecipe dell'organizzazione della polis. La rivendicazione di Antigone, che è donna, è però rivendicazione di qualsiasi essere umano, di qualsiasi persona che voglia affermare il proprio diritto ad amare, e lo affermi anche con violenza e a costo di sapere di dover perciò morire. Il con-dividere amore è la cifra di Antigone, non la separazione dei sentimenti in nome di una specificità di genere; e quando questo 'condividere' è impedito, il mito di Antigone, come è messo in scena da Sofocle, indica la necessità della relazione con l’altro e la spinta alla comunicazione. Il suo essere donna si situa perciò in un ambito metastorico, originario, informale, della natura, dell’esperienza; il suo essere donna segna la frattura con l’autorità, ma non la origina e non dà luogo ad alcuna azione politica consapevole.
L’ ‘io’ rivoltoso come quello di Antigone, per quanto vulnerabile rispetto ai poteri dominanti, ha tuttavia la forza di mettere in discussione lo status quo, testimoniando con la sua stessa vita: perciò il gesto suicida di Antigone non può essere inteso come sacrificio, tutt’altro.
Ma cosa ha a che fare Antigone con noi? Il suo 'io' non ha molto a che fare con il nostro, ma ci uniscono a lei, scrive Rossanda, "il principio di autonomia e di disobbedienza".
Dalla rivolta soggettiva, in altri contesti storici, sono nate le rivoluzioni, e il conflitto dell’‘io’ con l’autorità costituisce, del resto, il motore della storia. Perciò, con un salto storico, ma sulla base di una comune base morale, la rivolta di Antigone alla legge di Creonte diventa modello, nelle pagine di Rossanda, per ogni messa in discussione di una cultura ‘ingiusta’ rispetto ai bisogni dell’individuo e oppressiva. Il movimento del '68 nasce da una analoga rivolta etica.
"Così il discorso sulla rottura delle regole ripreso e rinnovato all'inizio degli anni '70, e su scala mondiale, è stato ricco di figure nate per 'condividere amore' e perciò, paradossalmente, determinate a uccidere chi 'condivideva odio'", scrive efficacemente Rossanda. Questo non significa affatto, come parve all'epoca, e come persino potrebbe sembrare oggi, giustificare il terrorismo e la lotta armata e stragista degli 'anni di piombo'. Ma significa indicare la contraddizione, insita già nella figura antica di Antigone, tra un agire in nome della giustizia e di leggi immutabili del rispetto della persona, e la violenza di questo agire e le sue conseguenze sanguinose. Antigone non è né una santa, né una martire: è una disubbidiente, la cui forza distruttiva è sottovalutata anche da quel potere che ne decreta la soppressione. Perciò 'ha il cuore che arde per cose agghiaccianti', come le dice la sorella Ismene (v.88).
Vi è naturalmente una differenza sostanziale tra l’io rivoltoso di Antigone e quella dei rivoluzionari moderni (a partire dalla Rivoluzione francese) e contemporanei: Antigone disubbidisce per testimoniare qualcosa che non è di questo mondo, che è eterno come l’amore che la lega al corpo del fratello; i rivoltosi politici contemporanei con la loro morte, e anche con quella altrui, vogliono invece cambiare questo mondo, non si riferiscono a valori metastorici, ma agiscono nella storia: la rivolta di Antigone resta gesto singolo, l’io dei rivoluzionari contemporanei, invece, si è fatto politico e dunque collettivo.
Tuttavia anche la rivolta esclusivamente individuale di Antigone possiede forza e violenza rivoluzionaria, possiede lo stravolgimento dionisiaco tutte le forme esistenti, poiché, disdegnando la vita in sé stessa come valore e proiettandosi nel tempo della morte, riesce a destabilizzare sin dalle fondamenta il potere costituito.
L’interpretazione di Rossanda non era del tutto nuova: già Friedrich Hölderlin aveva inteso la rivolta di Antigone come una messa in discussione di tutto ciò che è esistente, prefigurante la Rivoluzione francese, ma anche il suo fallimento nel Terrore. In Germania soprattutto, il mito di Antigone era stato già ampiamente rivisitato e tirato in causa come archetipo della critica e della trasgressione delle leggi dello Stato capitalista, considerato l'erede diretto, nelle strutture burocratiche e mentali, del nazismo: e così la guerriglia armata anti-capitalista, supportata da solide riflessioni teoriche, aveva all’inizio trovato numerosi simpatizzanti, specie tra gli intellettuali (ne parlo nei dettagli in L’ora di Antigone dal nazismo agli anni di piombo).
Ma quel che in Germania era ormai persino poco attuale, perché già detto dieci anni prima, nel 1977, subito dopo i supposti suicidi in carcere dei più importanti esponenti della RAF, ad esempio nell’episodio l’ Antigone rinviata di Heinrich Böll e Volker Schlöndorff nel film collettivo Germania in autunno, in Italia diventava ancora difficile da recepire.
Eppure in Italia già nel lontano 1968 Liliana Cavani, con i Cannibali, aveva istituito un filo rosso tra il mito di Antigone e i movimenti giovanili dell’epoca. Nel 1981 il Leone d’oro era stato dato al film Anni di piombo di Margarethe von Trotta, nel cui racconto è riconoscibilissimo in filigrana il mito di Antigone. Contemporaneamente all’uscita dell’Antigone di Feltrinelli, Marco Bellocchio mandava nelle sale Diavolo in corpo, in cui ancora il mito di Antigone serviva da paradigma per raccontare la ‘follia’ di una giovane donna borghese, che pure si ribellava individualmente al sistema e alle autorità, lo stesso sistema a cui i terroristi ‘pentiti’ invece, si erano piegati e assuefatti (ne parlo in Antigone ai tempi del terrorismo).
Così, stranamente, nell’Italia dei tardi anni ’80, l’accostamento seppure non nuovo né superficiale delle questioni poste dall’Antigone di Sofocle alle ragioni dei terroristi, per giunta alle ragioni dei membri della Rote Armee Fraktion (Rossanda non fa esplicita parola delle Brigate Rosse), non mancò invece di suscitare le proteste dei recensori, forse sintetizzabili nel banale «Antigone non uccideva», titolo del pezzo di Beniamino Placido. Antigone, invece, uccide almeno sé stessa, come ho scritto altrove, e indirettamente uccide Emone e Euridice; e a ragione Rossanda, ispirandosi soprattutto a Hölderlin, metteva in luce la violenza estrema insita nel gesto di Antigone e nelle sue parole di opposizione inflessibile a Creonte. Un’opposizione che è «irriducibile», aggettivo che nei tardi anni ’80 in Italia assumeva, rispetto al terrorismo, una connotazione precisa.
Nelle critiche al saggio, contò certamente anche un classicismo deteriore e diffuso nel senso comune, per il quale le tragedie greche sono poesia dal valore universale, come scaturita fuori dalla storia.
Rossanda prende le mosse dal testo di Sofocle, eppure chiaramente il suo interesse non sta nel comprendere la tragedia di Sofocle nel suo tempo, quanto il ricorrere delle questioni che questa apre nel nostro. Antigone rappresenta così il dissenso necessario, l’impossibilità di non reagire davanti all’ingiustizia, la problematicità di ogni rapporto gerarchico e di potere. E il potere reagisce sempre con la repressione, così che Antigone sa di votarsi alla morte con la sua azione, sebbene questa azione non sia politica, ma rinvii ad un’esigenza etica interiore eterna e non scritta. Ma quel che provoca, la morte di Emone, la morte di Euridice, il ‘nulla’ a cui Creonte viene ridotto, apre la questione delle conseguenze controproducenti di una rivolta pure giusta nei principi.
La lotta armata, nata quasi come reazione alla repressione statale della rivolta giusta e non violenta del movimento, attirando l’attenzione solo sulla violenza esercitata dai rivoltosi, ha fatto dimenticare e rimuovere la violenza insita nello Stato, nota Rossanda. Quindi, paradossalmente, la lotta armata ha fornito e fornisce una patente di innocenza all’esercizio del potere, un’innocenza che il potere non ha mai: il potere uccide per reprimere il dissenso e quando non uccide è perché l’omicidio è divenuto strumento superfluo, dato che il potere è riuscito a soffocare la soggettività attraverso una persuasione inscalfibile, attraverso strategie emotive, pervadendo ogni aspetto, visibile e invisibile, dell’esistenza.
"La categoria della 'sicurezza' consente sempre più largamente agli apparati pubblici di disporre della vita del cittadino, e la categoria del profitto d'impresa ha nuovamente esaltato, offuscandone l'immoralismo, la natura reificata della manodopera, rigettando parte della società al di sotto dei limiti di sussistenza. La droga e il suo traffico, uno sfrenato individualismo dello sviluppo hanno ugualmente violentato vite e ambiente. La macchina politico/sociale è violenta, ma ammette soltanto un 'non violento' modo di essere contestata" - scrive Rossanda.
Ed è qui che il saggio di Rossanda parla del nostro presente, per quella capacità profetica che sempre hanno le analisi storicamente fondate dei testi e della realtà: l’emergenza pandemica ha esasperato una concezione dello Stato che deve servirsi, per il suo agire, non di principi morali, e meno che mai di principi ‘umanitari’, ma di regole tecniche, che non richiedono il consenso ma vengono comunicate dall’alto, dopo essere state elaborate da un’élite (comitati, gruppi di lavoro) che le escogitano per imporle come ‘linee guida’ alla collettività. Questa «tecnicità e separatezza» dello Stato - per usare le parole di Rossanda – dai singoli cittadini come pure dagli abituali organi democratici, tecnicità e separatezza che si verifica in ogni stato d’eccezione, implica un conflitto con le singole persone, le cui esigenze individuali, le cui storie ed esperienze non trovano e non possono trovare sintesi, riduzione e ascolto nelle norme generali e nella struttura degli organi di governo.
Ogni giorno continuiamo a sentire e a parlare di ‘numero di contagiati’ e di ‘numero dei morti’, annullando, nell’enunciazione di numeri, le persone. Troviamo giustificazioni non solo alla privazione di libertà, ma al condizionamento di tutti i nostri rapporti: lo Stato si impossessa dei corpi, dettando normative ‘di sicurezza’ anche ai funerali e ai matrimoni, ma soprattutto pervade il lato oscuro dell’io, la capacità di scelta e di volontà. Quale sarebbe dovuto essere l’atteggiamento di Antigone, ossia di chi pone il problema dell’etica della persona, rispetto alla «carcerazione preventiva» (definizione di Donatella Di Cesare) a cui siamo stati sottoposti durante il lockdown, quale rispetto ai funerali vietati, alle prenotazioni obbligatorie per ogni azione sociale, alle forme imposte di distanziamento, alla sospensione del politico, ove con questo aggettivo si intenda la vita della polis?
Attraverso il saggio di Rossanda sull’Antigone, noi possiamo riflettere sulla dialettica, che però è «una ferita, una piaga», e non innocuo confronto, tra etiche diverse, quella della persona e quella della società, quella della persona e quella dello Stato: ferita che l’emergenza pandemica ha reso e sta rendendo ancora più dolorosa, quando è avvertita. Il problema è che lì dove non viene nemmeno avvertita come ferita è perché si è completamente demandato allo Stato di decidere della persona. Il richiamo alla responsabilità individuale non ha senso, se tale responsabilità, coinvolgendo gli altri, è a sua volta dettata dalla tecnica e non dalla natura: è la tecnica a dire all’individuo, infatti, che una naturale manifestazione d’affetto, come l’abbraccio, è proibita perché bisogna essere responsabili della salute degli altri, oltre che della propria. Il richiamo alla responsabilità non elude la questione della privazione della libertà e di pervasione della sfera affettiva.
Anzi, rinviando anche indirettamente all’idea di uno Stato etico, che agisce cioè in nome di principi e per il bene comune, tanto più se questo bene esige il controllo fisico ed emotivo della persona, non può che presagire la morte di ogni dissenso e persino di ogni sapere critico, come è stato negli ultimi Stati etici del Novecento, ossia nelle dittature.
Non importa quali siano le ragioni dello stato di eccezione che fonda la sovranità: se queste ragioni inducono il potere, l’autorità esistente, a entrare nella coscienza, se riescono a condizionare la maniera di provare sentimenti, se impongono i modi nei quali bisogna condividere amore, se dettano le regole della possibilità di condividere emozioni, c’è da augurarsi che sorga un io disubbidiente, trasgressivo delle leggi scritte, che testimoni i diritti delle persone e si richiami a leggi non scritte del rispetto, della dignità, dell'amore. La rivendicazione di Antigone si sostanzia nelle parole celebri: sono nata per condivivere amore e non odio. In nome dell'amore, occorre disubbidire.
E in nome dell'amore, possiamo e dobbiamo sperare che Antigone ricorra ancora.
La terza immagine è tratta da Antigone - Nacht und Nebel di Archivio Zeta, al Passo della Futa, di cui parleremo presto su questo blog. Sul significato di Antigone durante gli 'anni di piombo' ricordo anche la raccolta di saggi a cura di Roberto Alonge, 'Antigone volti di un enigma. Da Sofocle alle brigate rosse' Sulle letture di genere del mito, vedi il libro 'Nostra sorella Antigone' di Elena Porciani.