Dal libro Berlino. Tra passato e futuro, nella serie ‘Le città del teatro’, CUE press.
Berlino è una città libro.
Le sue pagine: i monumenti, le strade, le facciate.
Le sue storie: raccontate dalle ombre, dai vuoti, da luoghi svaniti nel vortice della storia.
Se ci mettiamo in ascolto delle sue voci, una soglia narrerà di una famiglia deportata, un cortile ombroso mormorerà di ebrei nascosti, buchi di proiettili sussurreranno di una barricata. Una balaustra sul canale urla ancora un omicidio politico: lì gettarono Rosa Luxemburg nell’acqua di ghiaccio.
Un tunnel scavato in una cantina resiste come via di fuga verso la libertà. La vetrina opaca di un bar rispecchia ancora un poetico amore lesbico di un secolo fa. Un binario nel bosco riecheggia sbuffi di vapore di convogli in partenza verso l’orrore dei campi di concentramento. Un lago ghiacciato trattiene i versi mai scritti di un giovane poeta, Georg Heym, che vi annegò per salvare un amico. L’entrata di un sexy shop, a lato della stazione dello Zoo, denuncia storie di diseredati di ieri e di oggi.
Berlino: città delle cose che scompaiono, diluite nel tempo, come i sotterranei del carcere della Gestapo, le stanze di tortura dei sovietici, l’angolo dove un folle sparò al leader della rivolta studentesca del ’68, Rudi Dutschke.
Un metallico orologio cilindrico su Alexanderplatz, monumento che doveva segnare la luminosa via verso l’utopia, si rassegna malinconico e antiquato a indicare l’ora di tutte le principali città del mondo: il suo cuore meccanico si fermò, insieme allo Stato socialista che l’aveva eretto, quel giorno di novembre 1989, quando da qui partì la rivolta pacifica al grido: ‘Noi siamo il popolo!’.
Berlino: città dalle tragiche metamorfosi. Capitale altera del severo impero prussiano, sul lastricato dei suoi ampi viali echeggia ancora, straniante, il passo dell’oca. Nella nebbia dei suoi club, ancora batte il ritmo del fox trot; le sirene, ormai mute, delle fabbriche lastricate di mattoncini rossi intonano ogni grigio mattino, se le si sa ascoltare, la frenetica sinfonia della metropoli.
Nelle ampie vetrate dei caffé, rigate dalla pioggia, continuano balli gioiosi e indifferenti sull’orlo di un vulcano. Da un pulpito improvvisato Karl Liebknecht arringa ancora la folla alla rivoluzione. In crocicchi nascosti, gli ebrei orientali parlottano in yiddisch. In locali fumosi, Gastarbeiter turchi, ‘i ‘lavoratori ospiti’, si trincerano con occhi torvi nelle loro nostalgie. La smisurata ed affamata città del sogno democratico di Weimar (1919-1933), ancora si inchina all’urlo della propaganda nazista e un tappeto di braccia alzate inneggia al ‘Führer’.
L’Atene sulla Sprea infine si sbriciola sotto le bombe, come carta bruciata, e dei suoi edifici neoclassici, il sogno di Karl Friedrich Schinkel (1781-1841) e di Albert Speer (1905-1981), l’architetto di Hitler, restano giganteschi cumuli di macerie.
Terra d’occupazione delle quattro forze alleate, nel 1949 la città si spezzò in Berlino Est, sotto il giogo dei sovietici, e Berlino Ovest, l’avamposto degli occidentali. Per 40 anni, la topografia di Berlino, città-isola e città-confine insieme, fu segnata dalla tensione ideologica tra due sistemi politici in una nuova guerra, eufemisticamente definita ‘fredda’, che pure non risparmiò le sue vittime. Trafitta dal muro nel 1961, la capitale del nuovo Stato della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) servì da scintillante vetrina espositiva sia al comunismo dell’est che al capitalismo dell’ovest.
Mentre i berlinesi orientali soffocavano, stretti dal terrore della polizia di Stato, dalla mancanza di libertà e dal sospetto reciproco, i berlinesi occidentali si misuravano col terrorismo di una generazione arrabbiata, che chiedeva sanguinosamente conto ai padri della colpa inestinguibile della Shoah e dichiarava guerra alle umiliazioni sociali del capitalismo.
Nel 1989 cadde il muro, simbolo della barriera invalicabile tra due concezioni del mondo, ma la nuova storia della Germania riunificata si porta addosso, visibili e non, ferite e cicatrici. E si inalbera orgogliosa a misura di un nuovo ordine economico, esorcizzando le proprie crisi, la disoccupazione, un tenore di vita ridotto, la pericolosa rivendicazione di un’identità nazionale forte, nuovo muro ideologico contro immigrati vecchi e nuovi.
Una doppia fila di mattoncini più scuri sul selciato, ripercorre per circa sei chilometri i ‘confini’ interni alla città, con una una tavoletta di metallo infissa al suolo ad intervalli regolari: ‘Muro di Berlino 1961-1989’. Quel che resta del vero muro, invece, sul fiume, verso il ponte della stazione metropolitana di Warschauerstrasse, itinerario obbligato per i nottambuli di ogni provenienza, si difende fregiandosi del riconoscimento di ‘galleria d’arte’.
Segni da decifrare, ovunque: a terra, sulle pareti, nei vuoti tra gli edifici. A Berlino si deve camminare con attenzione, ché si attraversa il campo minato della storia. Un mondo sotterraneo vive sotto le suole della memoria; in alto, invece, nel cielo spesso uniforme, conchiglia dei rumori del passato, lastra indifferente alle disperazioni e alle gioie dei piccoli uomini, lampi inattesi aprono solchi ansiosi di futuro. Scrittori, poeti, artisti d’ogni sorta hanno camminato e camminano per le sue vie; cercatori di tracce, coglitori dei frutti della malinconia, visionari.
Eppure Berlino sta sempre in attesa di epici cantori, dei suoi angeli che osservano tristemente dalla cima della ‘Colonna della vittoria’ gli incontri fuggevoli delle piccole vite. ‘Devo ammettere che amo questa città – ha scritto in pagine autobiografiche intitolate Perché Berlino (2003) il premio nobel Imre Kertész (1929-2016). Un’affermazione persino scandalosa, se si pensa che a dirla è l’autore di Essere senza destino, un reduce di Auschwitz.
‘Non lo nego – scrive ancora Kertész - qualche volta a Berlino sono preso dalla vertigine assurda della storia, tuttavia non credo che ci sia un’altra città in Europa dove si sente così intensamente il presente e la strada che vi ci porta.’ Questo presente parla tutte le lingue, non ammette la definizione di ‘straniero’, né quella esclusiva di ‘casa’ e ‘patria’ : quel che rende Berlino, cioè, una città-mondo, una Weltstadt. Ed insieme luogo dell’ indissolubile aporia : lì dove cioè diviene possibile rappresentare artisticamente l’irrappresentabile, gli sviamenti della storia, l’orrore dei poteri, il comodo oblio riparatore, il piombo sulla coscienza.
‘Ho rappresentato i Cannibali a Berlino. Mi è piaciuto così. Devo restare’, dichiarò il drammaturgo e regista George Tabori (1914-2007) dopo la messa in scena del suo dramma sullo sterminio ebraico, per molti versi ispirato a Se questo è un uomo di Primo Levi. Così anche Tabori, il cui padre morì trucidato ad Auschwitz, scelse Berlino per i suoi ultimi anni ; e proprio nella città dov’era stata decretata la catastrofe anche dei suoi affetti personali trovò la ‘patria’ (Heimat), cioè un ‘letto ed un palcoscenico’.
Ma si sa: la lista degli Odissei approdati a Berlino, la città senza mare eppure piena di metaforici porti nei suoi letti precari, si stenderebbe per pagine e pagine.
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