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Nella mostra di Anselm Kiefer a Palazzo Strozzi, a Firenze (22 marzo-21 luglio), le opere esplicitamente dedicate alla mitologia classica sono tutte simbolo di opposizione e di resistenza, e tutte sono intitolate a figure femminili.

Danae (2016), per esempio. Danae per Kiefer è lo stelo in piombo fuso di un girasole annerito, come carbonizzato, che sembra affondare le radici nelle pagine di un libro aperto. Dalla corona del girasole cadono semi d’oro sulle pagine annerite del libro: i semi scintillanti sono destinati a germogliare ancora sogni, speranze, illusioni, nonostante libro e girasole siano immobili in un tempo senza tempo, il tempo della morte, il tempo dell’oscurità.

La vicenda di Danae è nota: la fanciulla fu rinchiusa in una torre dal padre Acrisio, preoccupato perché un oracolo gli aveva predetto che sarebbe stato detronizzato e ucciso dal nipote. Ma pur prigioniera, Danae fu messa incinta da Zeus, che si era invaghito di lei, e per possederla si era trasformato in pioggia d’oro. Acrisio, allora, rinchiuse madre e bambino in una cassa e la affidò alle tempeste marine.  Sebbene il lamento di Danae nella cassa tra i flutti sia stato sin dalla poesia arcaica greca argomento di poesia, nell’osservare l’opera di Kiefer vengono in mente innanzitutto i pochi versi dell’Antigone di Sofocle, pronunciati dal coro, che ricorda il destino dell’infelice Danae ad Antigone che si appresta ad essere chiusa nella sua prigione tomba, colpevole di aver seppellito il corpo del fratello nonostante il divieto del tirannico Creonte e perciò da questi condannata a morte.  

«Soffrì anche il corpo di Danae di lasciare la luce del cielo in una camera di bronzo. Fu confinata, nascosta in un talamo tombale. Eppure anche lei era onorata per stirpe, o bambina, o bambina, e ricevette come tesoro il seme fluente d’oro di Zeus» (vv. 944-950), dice il coro, rivolgendosi ad Antigone, non per consolarla quanto per rafforzarla nella sua volontà di andare incontro alle conseguenze, consapevolmente volute, del suo gesto. Deve abbandonare la luce del sole, perché ha trasgredito la legge ingiusta di Creonte. Nessuno può sfuggire alla morte, come nessuno può sfuggire al destino: ma l’atto estremo di resistenza sta proprio nella dignità di affidarsi alla morte, orgogliosi delle proprie scelte e dei propri gesti. Danae, come Antigone, sopporta dunque il suo terribile destino con dignità immensa e se pure il suo corpo viene privato della luce, dunque della vita, e poi abusato da un dio, la sua resistenza muta si pone al culmine di ogni idea di eroismo. Così Antigone, il cui lamento finale, prima di andare a morire,  non è né di paura né tantomeno di rimpianto, ma di fermezza, e va paragonato alle lettere forti e struggenti insieme, che esprimono nostalgia per quel che non potranno vivere, le lettere dei condannati a morte da ogni tirannia.

Sono sicura che Kiefer, nella sua lettura del mito di Danae, abbia avuto presente la traduzione/rielaborazione dei versi di Sofocle del grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin, che cambia il greco di Sofocle e conferisce a Danae una centralità simbolica nella tragedia che in Sofocle non ha.

Danae, nel buio della sua prigione, «contava per il Padre del tempo i dorati battiti delle Ore», scrive Hölderlin. Questa non facile immagine in Sofocle non c’è, è un’aggiunta. Perché, cosa vuol dire il poeta tedesco? Hölderlin lo spiega, con un linguaggio densissimo, nelle Note che appone alla sua traduzione dell’Antigone. Il «Padre del tempo è Zeus». Danae da parte sua è allegoria di “colei che porta in sé il divenire del tempo”, ossia figura  della condizione umana costretta a misurare il tempo come atto di resistenza.

Il tempo trascina l’uomo, afferra l’essere umano, il cui tempo mortale è infinitesimo rispetto al tempo della natura e della divinità.

L’uomo si rapporta al dio attraverso la misura del tempo e così tocca con mano la sua limitata essenza e la sua fragilità. Davanti alla minaccia continua del tempo all’esistenza umana, l’unico atteggiamento possibile è resistere nel presente, senza lasciarsi schiacciare da un passato inattingibile né pensare all’incombere della morte che segna il nostro futuro. L’eroismo umano, allora, consiste nel rimanere saldi davanti al tempo che tutto muta: ed è questo l’eroismo della fanciulla Danae, la quale “contando le ore” accoglie in sé il dio del tempo, ossia Zeus, ne sopporta la violenza e riesce a vincerlo.

Hölderlin legge nel mito di Danae, costretta nella sua tomba in vita, eppure lì fecondata da Zeus, l’allegoria della vita o di una vita umana costretta al dolore, che però resiste conoscendo emotivamente nel dolore il passare delle ore e che esperisce con il corpo il tempo e il suo divenire.

Così nell’opera di Kiefer il girasole, ripiegato su se stesso, rinchiuso in una teca, carbonizzato, non è davvero morto e sterile: i semi d’oro che continuano a diffondersi dalla sua corona e che testimoniano di un atto di violenza e non di amore, germogliano nel presente delle pagine di un libro che porta la testimonianza di quella violenza e del successivo dolore, eternano il nome di Danae, sfidano la caducità del tempo e il buio della morte attraverso frammenti di luce. Nessuna sofferenza è inutile, nessun dolore è infecondo.

La mostra di Kiefer si conclude con una parete bianca, dove l’artista ha tracciato i noti versi di Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo. Ecco, in questa consapevolezza sta la resistenza di Kiefer, che ha posto quei versi di fronte a grandi stampe fotografiche della sua giovinezza in cui, indossando l’uniforme da ufficiale della Wehrmacht del padre, emulava in molti luoghi, tra cui Paestum, il saluto nazista.

Si trattava di una provocazione, che non fu compresa, tranne che da uno dei maestri di Kiefer, il pittore Rainer Maria Küchenmeister, di cui diremo dopo.

Non era un gesto di emulazione, al contrario di ricordo e di condanna; un gesto di estrema solitudine, di chi resiste a un fascismo della mente che si rinnova in mille forme, che può presentarsi persino sotto la forma di una seducente pioggia d’oro, non meno violenta dello schiaffo o del colpo d’arma da fuoco.

Ecco, quel giovane uomo che da solo alza il braccio, con sulle spalle il buio e l’orrore di quel gesto, sta esercitando resistenza nella sua solitudine di un paesaggio sfocato. Conta il tempo, come la Danae di Hölderlin, perché è in quel misurare il tempo, nella consapevolezza che ‘sarà subito sera’, che consiste l’affermazione della dignità dell’essere umano e della sua capacità di opporre resistenza, se lo vuole.

Kiefer, nato sotto i bombardamenti del 1945, racconta con la sua opera soprattutto il passato tedesco, come ha mostrato quel capolavoro che è il film Anselm di Wim Wenders a lui dedicato. Ma racconta anche il passato di qualsiasi essere umano, la meraviglia stupita e sofferente di chi osserva, ancora e ancora, la storia ripetersi. La sua Danae scarnificata, ridotta a ‘cosa’, come avrebbe scritto Simone Weil, diventa, come quella di Hölderlin, allegoria di come la forza riduce l’essere umano privandolo di un'anima: eppure anche l’uomo diventato cosa offre resistenza al tempo, con la sua corolla reclinata e nobile, diffondendo i semi dorati dei suoi attimi di dolore.

Così Antigone. Così chiunque che sia consapevole di ogni suo semplice gesto e si rifiuti di alzare il braccio a sostegno di qualsiasi ingiusto potere, a sostegno di qualsiasi prevaricazione.

Nella serie Die Frauen der Antike (Le donne dell’antichità), Anselm Kiefer ha rappresentato anche la ninfa Dafne. Come le altre figure della serie, anche Dafne è un busto rivestito di un bianco abito settecentesco, lungo al punto da confondersi con il suolo e da sporcarsi di terra nella parte inferiore. La testa delle figure svela la loro identità. Nel caso di Dafne, troviamo un grande ramo d’alloro, verniciato di bianco, che testimonia la pianta in cui la ninfa, che non volle cedere alla violenza di Apollo, fu trasformata, secondo il racconto mitologico reso celebre da Ovidio.

Perché la testa diventa simbolo? L’arte di Kiefer, estremamente materica, si basa sull’interazione con i materiali anche attraverso il tempo; non ha nulla di razionale, nel senso che non rispetta modelli figurativi né astratti. Non imita la realtà, ma il suo divenire e le sue atmosfere emotive. Sostituire il volto di una figura umana con la sua essenza non significa negarne il corpo, ma al contrario dire che nel corpo è inscritta la vicenda esistenziale e morale di ogni essere umano. Il volto e gli occhi rivelano chi siamo, l’artista guarda attraverso il volto e svela anche a chi osserva la figura nella sua essenza.

Dafne è un simbolo di resistenza. Trasformando quel corpo oggetto di violenza e di non ricambiato desiderio in pianta, Dafne non solo afferma la sua creaturalità come parte della Natura, ma si sottrae alla violenza e le resiste attraverso la generazione di una forma alternativa di vita e di pensiero. Perciò Kiefer fa levare l’arbusto dalla scollatura della figura femminile, dunque sia dal suo cuore che dal suo seno, con cui nutre speranza per il futuro e genera una potente testimonianza di dolore.

Vorrei però dire qualcosa sulla trasformazione artistica del volto. Dal catalogo della mostra si apprende che Kiefer fu allievo del pittore Rainer Maria Küchenmeister, un pittore sconosciuto, dice Kiefer, che era stato in campo di concentramento. Si tratta di una notizia sommaria, che qui vogliamo invece approfondire, anche perché in effetti Küchenmeister (nella foto sotto) non è molto conosciuto, e quando lo è non lo è (ingiustamente) come pittore, quanto come figlio di un membro della resistenza tedesca e lui stesso resistente. 

Rainer era berlinese, nato nel quartiere più operaio di Berlino, nel profondo est.  La madre morì in un bombardamento, il padre fu ghigliottinato da Hitler il 13 agosto del 1945. L’ultimo ricordo che Heiner ebbe di lui fu una carezza, mentre gli uomini della Gestapo lo aspettavano sulla soglia, una carezza «come quella che solo un padre fa a un figlio», e parole sussurrate: ‘Arrivederci, ragazzo’. L’accusa era senza scampo: tradimento allo Stato e al Führer.

Rainer aveva 16 anni; fu arrestato anche lui con la stessa accusa, e rinchiuso nella prigione di Alexanderplatz, al quarto piano. Proprio sulla cella sopra la sua, c’era una ragazza di ventuno anni, una ceramista, Cato Bontjes van Beek, anche lei una ‘traditrice’ del Führer: aveva dato da mangiare a dei prigionieri francesi. Cato, dalle sbarre della sua cella, cantava melodie che rallegravano tutti. ‘I pensieri sono liberi’ – cantava. A Rainer mandava bigliettini sospesi ad un filo. Si scambiavano messaggi picchiando in codice con le nocche sui pesanti muri. Si amarono così, come si ama la vita. Cato venne decapitata il 5 agosto 1943.

Rainer rimase diciotto mesi in quella cella ad Alexanderplatz, poi fu condotto in un campo di concentramento per ragazzi, a Moringen: e lì, nel 1945, dovette subire anche la prigionia sovietica. Negli ultimi anni, parlò molto in ricordo del suo amore di gioventù ghigliottinato, del padre, e di quel gruppo di Resistenza che i Nazisti chiamarono spregiativamente ‘Orchestra rossa’: ‘rossi’ perché comunisti, e ‘pianisti’ perché con le dita inviavano segnali radio ai Russi, ‘spie’ al servizio di Mosca. Le cose non stavano così. Erano uomini coraggiosi,  anche ragazzi, che non tennero in conto se stessi per lottare senza mezzi contro il mostro, Adolf Hitler. Queste vite furono dopo dimenticate, lo sono in parte adesso, quando non addirittura diffamate.

Rainer  Küchenmeister non poteva dimenticare.

Aveva promesso a Cato, in uno dei bigliettini che percorrevano le mura della prigione attaccati a fili sottili, che sarebbe divenuto un pittore. Mantenne la promessa.

Le sue figure su tela non hanno occhi. Nelle sue sculture al posto della testa vi sono grovigli informi, insetti di metallo, plastica, pelle che brulicano su tronchi tagliati. Questo il ricordo di quel che la prigione e il nazismo gli avevano fatto: nella testa, solo orribili astrazioni, ricordi da cui guardarsi.

Le teste delle Donne dell’antichità di Kiefer sono dirette eredi di quelle figure di Küchenmeister. L’alloro bianco di Dafne, quasi corona di sposa o corona di spine, irrealistico nel candore, vuol dire dolore sì, ma soprattutto resistenza e capacità di trasformazione. La stessa che chi subisce una dittatura deve esercitare su sé stesso se vuole continuare a sopravvivere, anche nella consapevolezza di essere appunto un sopravvissuto, una rovina di un tempo che lascia dietro di sé solo macerie.

Ma il dolore diventa ragione di forza. Basta conoscerlo. Basta saperlo tenere rinchiuso dentro il sipario del volto, pronti a svelarlo per chi abbia cuore e occhi per saperlo guardare.

 

Le immagini (parziali) di Danae (2016) e Daphne (2008-2010) sono tratte dal sito di Palazzo Strozzi e sono precisamente:  

Anselm Kiefer, Daphne (det.), 2008-2011 © Anselm Kiefer. Photo Georges Poncet.

Anselm Kiefer, Danae (det.), 2016 © Anselm Kiefer. Photo Georges Poncet.

Anselm Kiefer, Danae (det.), 2016 © Anselm Kiefer. Photo Georges Poncet.