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Il 28 ottobre 2020, a proposito dei disordini scoppiati in varie piazze d’Italia per reazione all’ultimo DPCM, il sociologo Marco Revelli ha dichiarato in un’intervista al Fatto quotidiano: «Sono piazze tragiche, nel senso letterario del termine, perché sono espressione di situazioni nelle quali non si può scegliere tra un bene e un male, tra una soluzione positiva e una negativa. Nelle tragedie, purtroppo, si sceglie sempre tra due mali».

Il trovarsi di fronte a un dilemma che non si può sciogliere costituisce, in effetti, un elemento tragico: la tragedia consiste anche nel conflitto, nell’antagonismo tra principi ugualmente validi che cercano autonomamente di affermarsi, senza alcuna possibilità di conciliazione.

Ma anche per altri aspetti le rivolte a cui stiamo assistendo in questi giorni sono tragiche.

La tragedia consiste, secondo una persistente tradizione che nasce nella prima età romantica, nella lotta di uno solo, di un eroe, contro il destino, contro la Natura, contro la divinità; insomma la tragedia racconta l'opposizione impari di un uomo solo contro una forza immane che lo supera, lo schiaccia, lo umilia. L’eroe tragico  soccombe a tale forza, tuttavia la sua azione resta grandiosa, la sua battaglia diventa tragica quanto più, nei fatti, inutile e disperata.

La tragedia che stiamo vivendo, l’irruzione nella nostra vita di una forza sconosciuta e per ora indominabile, il virus, obbliga chiunque a tenere un atteggiamento eroico, induce cioè tutti noi ad opporci con tutte forze e a combattere. La tragedia dell'attuale conflitto contro un nemico invisibile e irriconoscibile, ci attribuisce dunque il ruolo di eroi.

Il termine ‘eroe’, del resto, ricorre spesso, soprattutto per chi, come si dice, combatte ‘in prima linea’: medici, infermieri, personale paramedico. Tuttavia la situazione tragica esige da tutti indiscriminatamente coraggio e spirito di sacrificio. Tutti dobbiamo erigere barriere, tenere a distanza il virus, che significa tenere a distanza anche chi amiamo, rinunciare a riti e occasioni che sostanziano la nostra vita sociale, intellettuale, religiosa, dai matrimoni ai funerali, dai convegni ai concerti, dal cinema al teatro. Tutti siamo potenziali vittime del virus, tutti dobbiamo contrastare questa calamità estranea e sconosciuta che ci colpisce chissà da dove. 

La folla di chi deve confrontarsi maggiormente con il rischio dell’infezione, coloro ad esempio che devono prendere i mezzi pubblici affollati per andare a lavorare, che non possono usare lo smart working, che devono e vogliono tener aperti negozi, uffici, scuole, questa folla è destinata a restare ignota, sconosciuta, senza nome; a tutte queste persone viene chiesta responsabilità, senso del dovere, rispetto degli altri, ma in cambio non viene dato nulla, nemmeno la certezza della cura.

Tutt'altro: la comunicazione politica diviene sempre più censoria, scarica la colpa del male collettivo sulla irresponsabilità dei singoli, sulla superficialità dei cosiddetti giovani, sull'obnubilamento di fronte al pericolo: come se la necessità di frequentare luoghi ad alto rischio di contagio fosse una colpa, come se la necessità di lavorare equivalesse a una volontà di diffondere il contagio, come se l'ignoranza sulle modalità del contagio derivasse da una voluta mancanza di informazione, e non dall'ignoranza di chi questo virus lo studia. Siamo nella condizione, invero non paradossale dal punto di vista letterario, degli eroi che sbagliano, qualche volta incolpevolmente, qualche volta no, ma sbagliano. Eroi tragici, dunque, tragici eroi negativi. 

Tutti siamo chiamati a combattere una battaglia dura, senza che vi siano premi e medaglie, anzi: la punizione sta sempre in agguato e può colpire nel mucchio o collettivamente. Eroi negativi e senza nome. 

La folla silenziosa dei soldati, si dirà, già nell’Iliade di Omero, resta sempre senza nome, ignota e schiacciata dal destino, in balia delle decisioni dello Stato, e deve essere pronta ad obbedire ai decreti perché questi sono 'per il bene pubblico', anche quando questi decreti minano profondamente non solo le libertà individuali, ma la stessa possibilità di sopravvivenza, come è per intere categorie di lavoratori. Dietro ogni singolo membro di queste categorie, però, ci sono nomi, ci sono individui, ci sono persone: ci sono milioni di storie tragiche. 

La tragedia, infatti, si sviluppa sempre come racconto di un'esperienza individuale, è legata alla vicenda di un solo essere umano, vicenda che può certo diventare paradigmatica, ma nondimeno è tragedia di un soggetto, della sua sventura, del rovesciamento della sua esistenza.   

Gli eroi tragici greci combattono la loro battaglia con quel che noi chiamiamo destino anche per evitare di perdere la dignità; per evitare, in particolare, la vergogna di vedersi sminuiti, umiliati, offesi; per non doversi cioè vergognare di fronte agli altri, dato il binomio particolare della cultura greca per cui vergogna equivale spesso a disonore.

Aiace, ad esempio,  si uccide per la vergogna di aver agito in preda a follia; Antigone trasgredisce una legge, che prevede la condanna a morte, pur di non vivere nella vergogna di aver lasciato insepolto il fratello; Edipo si uccide metaforicamente, accecandosi, per non assistere alla vergogna di cui si è macchiato; Giocasta, invece, non può sopravvivere alla medesima vergogna di essere stata sposa del figlio e aver generato con lui. 

Nel primo testo della letteratura occidentale, l’Iliade di Omero, evitare la vergogna è un imperativo morale, superiore allo stesso amore per la vita. Come sappiamo, Ettore va a morire anche se la moglie lo scongiura di mettersi al riparo; va a morire affrontando volontariamente Achille, che è molto più forte di lui. Ma Ettore deve affrontarlo, perché non avrebbe sopportato la vergogna di sembrare un vigliacco agli occhi dei cittadini.

Tutti gli eroi del mito vogliono ricevere un riconoscimento per la loro dignità, rispetto per il loro onore, e sebbene siano personaggi infelici, nessuna infelicità è maggiore della vergogna dell’anonimia, della consapevolezza che non si sarà ricordati.

In un momento storico in cui a tutti si chiede di comportarsi eroicamente, in cui l’esistenza stessa assume una dimensione tragica, perché si configura come una lotta contro un male invisibile e cieco, non deve meravigliare la necessità di ribellarsi a ogni tentativo di ridimensionare la portata e l’importanza di questa lotta, la portata e l’importanza del sacrificio richiesto, tanto più se questo tentativo viene dal potere, cioè dallo Stato.

Se siamo tutti degli eroi, come eroi vogliamo essere riconosciuti e trattati, e non come numeri di curve epidemiche, di dati di cui non viene nemmeno esplicitata la ratio. Se siamo tutti eroi, non ci rassegnamo ad essere puntini senza volto dietro gli schermi, o cifre che connotano i letti delle terapie intensive. Se siamo tutti eroi, non si può cancellare quel che siamo con decreti, che ci obbligano d'improvviso, per il 'bene comune', a non lavorare più, che ci portano nella disperazione dei debiti. Se siamo eroi, non siamo burattini senza emozioni e sentimenti. Se siamo eroi, non possiamo perdere la nostra dignità, non possiamo vergognarci. 

E allora la piazza protesta, lancia bombe carta, devasta le strade e i negozi. E allora la rabbia esplode. E allora si grida 'libertà, libertà'. Perchè?

Per quel meccanismo tragico che è alla base di ogni rivoluzione, di cui protagonisti non sono gli uomini fuori dal comune come gli eroi, ma al contrario proprio quegli uomini ‘comuni’, ‘ordinari’, ai quali da un lato si chiede un comportamento eroico, dall’altro li si schiaccia, umilia, colpisce nella dignità, ad esempio pensando che si possa risarcire economicamente il divieto di lavorare, oppure proibendo loro improvvisamente di lavorare, anche se questa proibizione mira al 'bene comune'. 

Da qui, da sempre,  il fenomeno delle piazze tragiche, delle piazze che bruciano.

Arthur Miller (1915-2005), nei suoi Saggi sul teatro, apparsi in volume nel 1978, scrive:

«Nella tragedia si tratta sempre e solo della completa realizzazione di un uomo, e tutto ciò che limita e sminuisce la sua personalità, viene attaccato e messo in discussione. Questo non significa, che la tragedia predichi la rivoluzione. I Greci poterono persino mettere in dubbio l’origine divina dell’ordine del loro mondo, e alla fine tuttavia confermare la giustizia delle leggi. E Giobbe potè presentarsi, irato, davanti a Dio, chiedere giustizia e ugualmente, alla fine, sottomettersi a lui. Ma per un attimo tutto vacillava, tutto era negativo, e con questo sconvolgimento del cosmo, con quest’azione rivolta all’assoluto, il personaggio guadagna in ‘grandezza’, acquista una dimensione tragica, che noi a torto leghiamo ai re o ai nobili. L’uomo comune può acquisire questa dimensione tragica, se è pronto a scommettere tutto, ad osare tutto, per difendere il proprio posto nel mondo

Da qui l’origine tragica delle rivoluzioni.  

E tale – mi pare –  la dimensione tragica delle piazze di questi giorni: piazze di persone ‘comuni’, il cui posto al mondo viene messo in discussione da decreti che li privano della possibilità di lavorare, di esprimersi, in fin dei conti di essere quello che sono; piazze di persone che esigono di mantenere il loro posto al mondo, esigono il rispetto per quel che sono; piazze di persone che non vogliono essere numeri di una curva, cifre per contare posti-letto; piazze di persone che vogliono e sanno lottare per la propria vita, che sanno bene quale è la posta in gioco, ma proprio per questo non possono essere messe davanti all'alternativa tragica di morire di fame oppure infettarsi di covid 19 o addirittura rischiare di essere tacciati come 'untori'.

Piazze di eroi, che per affermare il loro essere al mondo protestano, agiscono, e allora il loro agire supera la misura del quotidiano, aspira ad una dimensione tragica.

Queste persone non vogliono compassione.

La differenza chiara e inequivocabile tra ciò che è tragico e ciò che è commovente, continua ancora Arthur Miller, sta nel fatto che la tragedia non suscita solo tristezza e pietà: ma suscita il bisogno di identificarsi con gli eroi tragici, pur assumendosi i loro errori e la loro colpa, perché la cifra propria dell’eroe tragico è l’esagerazione, più propriamente la hybris, l’arroganza che induce all’errore fatale e distruttivo, la mancanza di saggezza e di equilibrio.

L’eroe tragico non è un paradigma etico, tutt’altro: personifica l’errore, volontario o involontario. Alla fine della tragedia, tutti sono vinti: lo sappiamo sin dalla prima tragedia greca superstite, che si riferisce tra l’altro a un fatto epocale della storia ateniese, i Persiani di Eschilo.

Gli eroi tragici delle nostre piazze tragiche bruciano, feriscono, devastano. Non hanno il controllo razionale delle loro emozioni: nessun eroe tragico può dominare la propria rabbia e la propria ira, altrimenti non sarebbe un eroe tragico.

Ricordiamo ancora l'Iliade, la prima opera letteraria di una tradizione culturale a cui tanto spesso ci richiamiamo: un'opera che inizia con un'epidemia devastante, e ha come prima parola l' ira distruttiva di un solo personaggio, di Achille, ira letale, 'che infiniti addusse lutti agli Achei'. E nondimeno nell'ira di Achille, nella sua violenza, c'è pure l'affermazione della propria dignità offesa, non solo un narcististico orgoglio smisurato. 

Dunque, abbracciamo la definizione di Marco Revelli: le piazze di questi giorni sono piazze tragiche, di uomini che inconsapevolmente desiderano la sofferente grandezza degli eroi tragici, pur di non restare senza nome e senza voce.

E come davanti a una tragedia, chi guarda non può che provare pietà e paura. Solo che in questa tragedia non dovrebbe esserci distinzione tra pubblico e protagonisti. 

 

Le foto dell’agenzia New Press Photo sono tratte dal sito www.lanazione.it (https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/foto/scontri-centro-polizia-1.5665254)