«Avevamo fame. In quel mese d’agosto, con le nostre tessere annonarie, mia madre era riuscita ad acquistare soltanto due uova, cento grammi d’olio e ottanta grammi di margarina. La nostra razione quotidiana di pane nero era precipitata a meno di duecento grammi. Quella di carne si era ridotta a tal punto che gli spiritosi affermavano che la si sarebbe potuta avvolgere tutta in un biglietto del metrò…purché non fosse stato obliterato.
Ma, più ancora dei loro stomaci vuoti, era il futuro immediato della città ad angosciare i parigini. Mentre Londra, Berlino, Vienna, Budapest, Tokyo e tante altre città non erano ormai nient’altro che cumuli di rovine, la capitale francese, in quel quinto anno di guerra, usciva intatta dal conflitto più devastante della storia. I tedeschi avrebbero forse posto fine a quel miracolo, facendo di Parigi una nuova Stalingrado? Diversi indizi lo facevano temere. Vedevo sorgere ogni giorno un nuovo bunker o una casamatta. I soldati scavavano trincee dove andavo a giocare a biglie. I viali attorno agli Champs-Élysées vedevano accumularsi senza sosta gli ostacoli anticarro. Vari cartelli recanti la scritta ACHTUNG MINEN avevano fatto la propria comparsa. Il penoso spettacolo dei convogli militari coperti di foglie che si ritiravano giorno e notte dal fronte della Normandia non mitigava granché la nostra apprensione. Una sera mio padre rientrò a casa con il viso stravolto. Aveva un modesto impiego al municipio della città. Ci spiegò che quel pomeriggio il sindaco aveva riunito i suoi collaboratori per raccontare loro la propria conversazione con il nuovo governatore militare tedesco della capitale. Allarmato dopo aver saputo che gli occupanti stavano minando i ponti sulla Senna, il sindaco si era precipitato al quartier generale dell’ufficiale per supplicarlo di interrompere quelle operazioni, che mettevano a repentaglio la vita di decine di migliaia di parigini. Il racconto di nostro padre ci diede la pelle d’oca.
“Immagini, signor sindaco, che un colpo d’arma da fuoco venga sparato su uno dei miei soldati da un palazzo dell’avenue de l’Opéra” aveva dichiarato il generale tedesco puntando il dito su una mappa di Parigi. “In quel caso, farò dare fuoco ai palazzi dell’intero viale e fucilare i loro abitanti”
Aveva a disposizione i mezzi necessari per simili rappresaglie. “Le mie forze” aveva aggiunto “ammontano a più di ventiduemila uomini, per la maggior parte SS; un centinaio di carri Tigre e novanta aerei da bombardamento, e sto aspettando rinforzi consistenti”
I parigini avrebbero imparato a conoscere il nome di quel generale leggendo la sua firma in calce agli energici proclami che fece affiggere sui muri della città. Si chiamava Dietrich von Choltitz. Pareva che fosse stato nominato al proprio posto da Adolf Hitler in persona, per via del suo stato di servizio eccezionale e di una lealtà totale alla causa nazista.»
Così Dominique Lapierre all’inizio di un libro, scritto a quattro mani con il giornalista americano Larry Collins, Parigi brucia?, sull’agosto 1944 nella capitale francese. Il titolo deriva dalla domanda che, secondo i testimoni, il ‘Führer’ pose insistentemente al suo Stato maggiore in quei giorni febbrili: Brennt Paris? Parigi brucia?, domanda accompagnata da un furente pugno sul tavolo e da occhi demonici, in attesa di una risposta affermativa che invece non arrivò: l’ordine di difendere Parigi sino all’ultimo uomo e, nel caso di sconfitta, distruggerla completamente, facendone saltare i ponti e lasciandola sommergere dalla Senna, non fu mai eseguito.
La volontà di ridurre in cenere la città rivale per antonomasia, la cui bellezza invano aveva voluto imitare nei progetti architettonici della Berlino imperiale, veniva da Hitler in persona, in pieno delirio di onnipotenza e scampato miracolosamente all’attentato del 14 luglio 1944, da un dittatore la cui stessa parola sino all’ultimo, quando cioè ormai tutte le gerarchie militari sapevano che la guerra era perduta, ebbe forza di legge. Perché la parola di Hitler sia stata così potente, resta un quesito di non poco interesse per chi si chieda cosa sia il potere, in cosa abbia origine, come si mantenga e perché, infine, cada.
Lo stesso Dieter von Choltitz (1894-1966) ha raccontato in un suo memoriale nel 1951 e poi, nel 1963, a Lapierre e Collins, quel che ricordava di quei giorni d’estate in cui il mondo intero sembrava dovesse soffocare e la resistenza francese si riorganizzava: von Choltitz non obbedì. Tornò all’ Hotel Le Meurice, dove aveva i suoi appartamenti durante la guerra, dieci anni dopo, poco prima di morire proprio per le conseguenze di una ferita di guerra: dalla terrazza della suite più prestigiosa dell’Hotel, perciò, vide ancora quei monumenti che avrebbe dovuto invece dar ordine di distruggere: Notre Dame, il Louvre, la Tour Eiffel.
Dunque: von Choltitz, grazie alle sue decisioni, ebbe la possibilità di ammirare ancora Parigi dopo la guerra, e così i suoi figli: ma non fu propriamente un eroe. L’uomo che non aveva obbedito agli ordini di Hitler, non disubbidì, invero, per spirito umanitario, né per salvare Parigi, o non solo: sapeva invece che tutto era perduto, e con il diplomatico di origine svedese Raoul Nordling (1882-1962) avviò sin dal 15 agosto un complesso negoziato, che implicava anche la liberazione di prigionieri; grazie all’aiuto di Nordling, cercò di salvare la sua famiglia che era in Germania e i soldati tedeschi di stanza a Parigi. Von Choltitz voleva, infine, sopravvivere: e proprio per la sua resa all’ultimatum finì prigioniero in Inghilterra, invece che sotto processo a Norimberga come criminale di guerra. Realismo politico, dunque, paura per sé stesso, bisogno di tutelare i propri affetti, di difendere i soldati tedeschi più che una città straniera, condizionarono la sua resa all’ultimatum: non conosceva Parigi, e vi era stato mandato dopo un’orrenda e sanguinosa carriera di fedelissimo a Hitler solo pochi giorni prima dell’arrivo degli alleati.
Una realizzazione cinematografica epica del racconto di quegli eventi si deve al regista Réné Clément, che nel 1966 girò Parigi brucia? con un cast d’eccezione, tra cui Orson Wells, e con un impiego spettacolare di mezzi per le scene degli esterni. Von Chlotiz morì appena prima dell’uscita del film.
Comprimendo il tempo narrativo ad una sola notte ed a un solo luogo, trasformando dunque la narrazione degli eventi storici in tragedia, il drammaturgo Cyril Gely ha scritto Diplomazia, alla base del film ‘teatrale’ così intitolato, uscito nel 2014, con la regia di Völker Schlöndorff: regista adatto forse quanto nessun altro a entrare nei processi emotivi che possono essere alla base dei grandi eventi, alle storie singole che sono paradigmatiche dei terremoti della storia collettiva. Schlöndorff è infatti il regista, non lo si può dimenticare, di Die verlorene Ehre der Katharina Blum (Il perduto onore di Katharina Blum), diretto con l’allora moglie Margarethe von Trotta nel lontanissimo 1975, oltre che del film premio Oscar Tamburo di latta (1979). È il regista – per dirla in due parole – che ha scavato nella storia tedesca, che non ha avuto paura dei suoi fantasmi e delle sue sopravvivenze anche durante la Repubblica Federale Tedesca, che ha saputo denunciare il potere abnorme della stampa capitalista e dell’industria borghese nella Germania post-bellica, diretta erede di quella che aveva proliferato durante il cosiddetto ‘Terzo Reich’.
Il film Diplomazia non restituisce un ritratto edulcorato del generale von Choltitz, di cui viene in luce l’ottusa educazione familiare militarista e gli orrori già commessi in guerra: von Chlotizt non è dunque il salvatore di Parigi, nella ricostruzione di Gely e di Schlöndorff, ma pur sempre un opportunista, che cerca di salvare chi più gli sta a cuore e sé stesso; il vero artefice della salvezza di Parigi resta Nordling, che lo inganna assicurandogli di portare in salvo la sua famiglia, ma evita così la distruzione di Parigi, una città in cui è cresciuto e che ama profondamente. E Parigi val bene una diplomatica bugia. La famiglia di Choltitz, comunque, non verrà trucidata dal Führer, che forse non ne avrà il tempo, ma si salverà ugualmente anche se non grazie alla Resistenza francese, come Nordling aveva assicurato al governatore nazista.
Il dramma di Cyril Gely è portato in scena in questi giorni da Ferdinando Bruni ed Elio de Capitani all’Elfo Puccini di Milano, in una stagione che si è appena aperta e già si sta spegnendo a causa della pandemia. Ho visto lo spettacolo di domenica pomeriggio, nel rispetto di tutte le norme di sicurezza: uno spettacolo impeccabile, dal punto di vista interpretativo, preciso nella scenografia e perfetto nella tensione drammatica e nel ritmo, curatissimo nelle luci e nei costumi. Uno spettacolo che insegna e conquista insieme. L’ho visto con una partecipazione emotiva che non si deve solo alla immensa bravura degli interpreti tutti, all’impressionante ricostruzione storica, infine alla drammaticità dei fatti messi in scena. Si deve anche, più in generale, a quel fenomeno che chiamiamo teatro, parola che vuol dire ‘ciò che si vede’, perché senza la visione, diretta e non mediata dalla distanza o dalla protezione di uno schermo, senza la conoscenza immediata che solo il vedere e l’ascoltare con i propri occhi può dare, non si dà teatro, non si è mai dato. Ma a che serve il teatro?
Certo, con Diplomazia dobbiamo necessariamente fermarci a riflettere su una pagina di storia, e si suppone che il pubblico, più o meno giovane, prima e dopo lo spettacolo si documenti, ripercorra gli eventi, se ne interessi storicamente, anche per comprendere fino in fondo quel che ha visto. Dunque questo tipo di teatro ha una funzione didattica non sostituibile da documentari o serie televisive e nemmeno da lezioni accademiche. Ma il teatro non serve certo solo ad insegnare o a ricordare.
Conosciamo tutti la celebre definizione di Friedrich Schiller del teatro come ‘istituzione morale’.
(Ecco, mentre all’Elfo andava in scena con ‘Diplomazia’ un dialogo serrato, un dibattito filosofico sul potere e sui suoi limiti, sull’importanza dei legami familiari e sulla necessità di sacrificarli per altri ideali, sui limiti tra il dovere di ubbidire e l’ubbidienza cieca, era impossibile astrarsi da quello che stava accadendo nella sala di teatro (spettatori distanziati e con la mascherina, una grande sala occupata solo a metà) e fuori, shopping domenicale spento e la strisciante paura dell’epidemia). Un anno dopo: fuori dal teatro grazie al vaccino non c'è più paura del virus. Ma le piazze sono dilaniate e torna il lessico della strategia della tensione.
Cosa accade quando si è di fronte a un caso di coscienza, grande o piccolo che sia il nostro potere di decidere? Cosa accade adesso?
Parigi brucia? Il mondo brucia?
Un virus sconosciuto sta determinando ormai da mesi uno stato d’eccezione senza precedenti; il nostro lessico, volente o nolente, risente di un clima di paura e di guerra, sì che sembra normale parlare di coprifuoco e serrata. La solitudine di chi è solo diventa ancora più impenetrabile, e la civilissima e neutrale Svizzera ha emanato una norma per cui si nega la terapia intensiva a chi è vecchio o ha patologie pregresse, a chi, insomma, ha meno possibilità di salvarsi. La pratica stessa del triage è una paradossale negazione dell’umanitarismo in piena emergenza umanitaria: chi deve essere salvato per primo? E perché? Norme dello Stato, in uno stato di emergenza, in cui pare si sia creato un contenzioso sulla sovranità, entrano nel nostro privato, ci impediscono di sedere al tavolo con molte persone, sconsigliano di ricevere amici in casa, raccomandano di non intraprendere lunghi tragitti: e ancora, chiudono palestre, ristoranti, bar, ma anche vie e piazze. Impediscono matrimoni e funerali. E già per le strade si alzano le prime barricate e ardono i primi fuochi, giustificati o meno, contro lo stato di eccezione e comunque contro l’eccesso di sovranità.
Il mondo brucia? Qual è allora il compito di chi ha il potere e in cosa consiste il potere? E cosa resta in nostro potere? Eseguire gli ordini, anche se si ha la consapevolezza che sono sbagliati? Cosa bisogna perseguire: un astratto concetto di giustizia e umanità per cui nessuna vita vale più di un’altra e nessuna è sacrificabile? O bisogna cedere al calcolo delle probabilità e agli algoritmi come misura di giustizia? Cosa vuol dire, poi, responsabilità? Responsabilità verso chi? Verso sé stessi o verso gli altri? e perché le due cose sembrano escludersi? La responsabilità del presente o del futuro?
Queste domande sono poste da questa pièce di teatro, o meglio: anche da questa pièce di teatro, perché sono alcune delle domande che sempre pone il teatro come ‘istituzione morale’.
(E questo teatro, Primo Ministro Giuseppe Conte e ministri Speranza e Franceschini, è necessario. È necessario non perché ‘diverte’, espressione infelice su cui bisogna sorvolare, perché pronunciata di sicuro senza riflettere.) Questa frase va datata all'ottobre 2020. Oggi i teatri possono riempirsi al 100 per cento. Grazie però all'imposizione del green pass.
Il teatro è necessario perché produce conoscenza, perché provoca le domande che dobbiamo porci in ogni momento in cui ci rapportiamo agli altri, e soprattutto negli stati di emergenza. Il teatro è catartico. È necessario e non va chiuso, non va fatto tacere: la sua voce, al contrario, va amplificata e diffusa. Anche in tempi di pandemia. Soprattutto in tempi di pandemia. Con tutte le misure di sicurezza, sì. Ma la chiusura è censura. E la censura è una delle pratiche del potere autoritario.
A Parigi, durante gli anni dell’occupazione nazista, andò in scena l’Antigone di Jean Anouilh, una tra le riscritture più amate del dopoguerra della celebre tragedia di Sofocle e un dramma assai discusso, in bilico tra accuse di collaborazionismo e di celata opposizione alle forze naziste occupanti. Si tratta di un dramma sul potere, metaforico perché diversamente non avrebbe potuto andare in scena, sarebbe stato, appunto censurato: si tratta di un dramma sul potere come tragedia individuale, come necessità di decidere per gli altri, ma anche di un dramma su chi preferisce sottomettersi, rinunciare alla rivolta e alla ragione critica, perché così fa più comodo, perché così ci si salva, perché dire ‘no’ è difficile o pericoloso.
Agli interrogativi e alle paure di quel tempo, dobbiamo adesso ancora rispondere. E perciò abbiamo bisogno più che mai di teatro.
Le foto sono tratte dallo spettacolo 'Diplomazia' in questi giorni al Teatro Elfo Puccini di Milano . L'ultima foto invece è tratta da 'Requiem Antigone. Una marcia addolorata, una processione desolata' di Archivio Zeta, 3 - 4 ottobre 2020 (tramonto e alba) - Festival periferico - Cimitero di San Cataldo - Modena: tutte le informazioni qui.