Berenice[1]
Nel 2022 la storica di origine ebraica Tal Ilan ha pubblicato, in una prestigiosa collana scientifica, la prima biografia di Berenice che cerca finalmente di far luce sui pregiudizi e sui preconcetti di genere e politici che hanno per secoli oscurato questa figura di donna che, come recita il sottotitolo del libro, è da considerarsi un’ «icona» della storia ebraica del I sec. a.C..
Berenice, nata nel 28 d.C., forse a Roma o forse in Giudea, fu una figura strettamente legata alle dinastie regnanti del suo tempo. Pronipote, figlia e sorella di re, sposò due sovrani e fu amante di Tito, futuro imperatore di Roma e responsabile dell’assedio di Gerusalemme e della distruzione del Tempio. Tuttavia la sua storia è stata raccontata in rapporto agli uomini che la circondarono e le sue azioni sono state giudicate sulla base di preconcetti moralistici e di genere. Discendente della dinastia erodiana, la stessa del sanguinario Erode, fu spesso associata alla crudeltà dei suoi antenati. I suoi due matrimoni alimentarono l’idea di una donna dissoluta, il rapporto con il fratello le costò l’accusa di incesto, mentre la relazione con Tito, l’uomo che distrusse il Secondo Tempio, la fece etichettare come traditrice del suo stesso popolo. Nell’Ottocento, studiosi come Emil Schürer e Theodor Mommsen la definirono una «fanatica» oppure una «Cleopatra in miniatura» o ancora «una bella peccatrice» (Joseph Derenbourg), la cui «storia sembra un orribile romanzo o una pagina tratta dalle cronache dei Borgia» (Herbert Lockyer). Non molto sembra essere cambiato nel Novecento, almeno nella storia degli studi: nel 1974 Ruth Jordan, che dedicò a Berenice una biografia, pur mostrando maggiore comprensione rispetto ai suoi predecessori, non si spinse a confutare le accuse rivolte alla principessa giudaica, anzi sottolineò come Berenice avesse sfruttato il suo fascino per fini politici non essendo mai stata una sovrana indipendente, ma sempre subordinata agli uomini attorno a lei.
Racine
Nell’autunno del 1670 che Jean Racine trasformò Berenice in un’eroina dell’amore offeso, della rinuncia e della rassegnazione. Berenice era stata già protagonista di qualche pagina di Les Femmes illustres di Madame de Scudéry (1642)[2], e di un melodramma (il Tito di Antonio Cesti, 1666), ma Racine elevò Berenice a eroina tragica, affine per indomita dignità ai personaggi femminili della tragedia greca, a Ifigenia, ad Antigone, e soprattutto ad Alcesti e Fedra, ambedue diversamente vittime dell’amore. È con la tragedia di Racine, dunque, che Berenice entra nel novero delle donne infelicissime, costretta dalle ragioni dell’opportunità politica e del potere a eclissare i propri desideri, e come tale viene consegnata al teatro, alla letteratura, alla musica e all’arte dei secoli successivi.
La tragedia di Racine ha un’azione «estremamente semplice», come scrive l’autore nella préface all’opera, che porta come incipit una frase di Svetonio (Tito, VII, 1-2), che Racine traduce liberamente così: Titus, qui aimait passionnément Bérénice, et qui même, à ce qu’on croyait, lui avait promis de l’épouser, la renvoya de Rome, malgré lui et malgré elle, dès les premiers jours de son empire (Tito, che amava appassionatamente Berenice e che, secondo quanto si credeva, le aveva persino promesso di sposarla, la allontanò da Roma, contro la sua volontà e contro la propria, fin dai primi giorni del suo impero). Il principe aveva ventisette anni, Berenice quaranta. Tito, mandando via la regina orientale, invitus invitam (non volendo, lei che non voleva), salvò così la sua reputazione di uomo dissoluto e immorale, paragonato perciò a Nerone.
La préface di Racine alla Bérénice, polemica verso gli avversari e i detrattori, vale come un manifesto di nuova poetica tragica. Al contrario della pratica poetica del tempo, la simplicité, afferma Racine, è la vera caratteristica dei capolavori tragici degli antichi, dell’Aiace, del Filottete e dell’Edipo di Sofocle, che hanno trame per nulla complicate rispetto a quelle delle tragedie moderne. I detrattori di tale semplicità non pensano che, al contrario, toute l’invention consiste à faire quelque chose de rien, «tutta l’invenzione consiste nel creare qualcosa dal nulla»: e in effetti ‘nulla’ accade in una tragedia in cui, sin dalla prima scena, tutto è già deciso. L’evento centrale di Bérénice, la morte dell’imperatore Vespasiano, padre di Tito, avviene una settimana prima che la tragedia abbia inizio. Da quel momento Tito è consapevole che la separazione da Berenice è inevitabile. I due amanti hanno già vissuto la loro intensa storia d’amore. La fine di questo amore straordinario coinvolge anche le speranze di Antioco, fido amico e alleato militare dell’imperatore che è segretamente innamorato di Berenice, ma che è pronto a partire e a non rivedere più la sua amata, pensando che sposerà l’imperatore. Nel finale non vi sono vittime di un destino crudele ma solo esseri umani che prendono decisioni gravi a dispetto dei propri sentimenti, con consapevolezza e responsabilità. La pièce conduce tutti e tre i protagonisti sull’orlo non della vendetta ma di un annientamento interiore, fino a quando Berenice, con il suo sublime monologo conclusivo, guida tutti verso un atto di rinuncia condivisa. Desistendo da ogni pensiero di morte, e consolando i due uomini che la amano, decide di partire prima di provocare tumulti e invita anche Tito e Antioco a continuare a vivere anteponendo il dovere all’amore. «Che tutti e tre / possiamo esser d’esempio all’universo / dell’amore più tenero e infelice; / che rimanga nei cuori la memoria / di questa nostra dolorosa storia» (traduzione di Giovanni Raboni). Racine trasforma la dinamica grammaticale della frase di Svetonio da cui prende l’argomento del dramma: mentre nella frase latina Tito è il soggetto (invitus) e Berenice l’oggetto (invitam), nella tragedia è Berenice a prendere in mano la situazione, decidendo infine il destino della relazione con Tito, del rapporto con Antioco e di Roma stessa.
Il ‘nulla’ tragico
Si versano molte lacrime, in questa tragedia, ma non una goccia di sangue: Racine avrebbe potuto far suicidare Berenice, modellando la storia a quella di Enea e Didone, ma non ha voluto, come scrive nella préface. La tragedia, infatti, è «sostenuta dalla forza delle passioni, dalla bellezza dei sentimenti e dall’eleganza dell’espressione» non dalla complessità degli eventi e degli incidenti, espedienti di cui si servono i poeti mediocri. Si tratta di un’idea nuova, e assai moderna, di tragedia.
Come fa dunque Racine a trasformare in ‘qualcosa’ il ‘niente’ della trama? La tragedia si sviluppa non attraverso l’azione ma tutta interiormente, attraverso i ricordi dei tre protagonisti, il vagheggiamento di un tempo che è stato e che non potrà più ritornare, come non potrà realizzarsi il futuro che i protagonisti avevano progettato. Il presente diventa perciò una trappola, una macchina infernale che agisce in base a convenzioni, pregiudizi, esigenze della politica e le pretese della gloire e così paralizza i sentimenti, le azioni, i sogni dei singoli individui. Scrivendo la storia di tre anime che si intrecciano tra loro, Racine, con un dramma ambientato nella lontana Roma imperiale, anticipa i contenuti della tragedia borghese del Novecento, di Ibsen e di Cocteau, per esempio.
Racine con Bérénice inventa un nuovo tipo di tragedia, che si attiene nella struttura alla tragedia greca ma la innova profondamente. Da acuto conoscitore della Poetica di Aristotele, Racine adatta gli elementi fondamentali della tragedia. L’hamartia (errore) non è più un atto isolato, come il sacrificio di Ifigenia da parte di Agamennone o l’uccisione inconsapevole del padre da parte di Edipo. Racine si concentra su un’idea complessa di errore, un misto di parola, silenzio e progressiva disgregazione morale, un tema che svilupperà ulteriormente in Phèdre. In Bérénice l’hamartia è connaturata al vivere stesso, nella trasformazione dei sentimenti con l’età e con le situazioni, nella perdita dei sogni, nell’accettazione della sofferenza insita nelle umane cose. La peripeteia (rovesciamento) non si traduce in una caduta drastica di potere, come nel caso di Edipo, ma in Bérénice si manifesta attraverso continui ribaltamenti di aspettative, di suicidi annunciati ma non realizzati, culminando nel momento in cui Berenice sovverte le dinamiche di potere e prende il controllo del proprio destino, rinunciando al proprio amore e allontanandosi per sempre da Roma e dall’amato. Anche la anagnorisis (riconoscimento) non è un momento improvviso, ma un processo graduale: in Britannicus, assistiamo a un Nerone consapevole che la sua autoaffermazione lo sta distruggendo; in Bérénice, i protagonisti arrivano ad accettare che non esiste una soluzione felice al loro conflitto, e a riconoscersi reciprocamente amanti in un triangolo amoroso. La tragedia dell’esistenza non lascia scampo né vie di fuga. Infine, la catharsis (purificazione) delle emozioni: il pubblico esperisce la catarsi vivendo empaticamente il crollo delle speranze di Berenice. Gli spettatori si riconoscono, cioè, nell’angoscia della regina che accetta il suo destino.
Una tragedia ‘romana’
Contrariamente alle prime tragedie ‘greche’ di Racine[3], Britannicus (1670) e Bérénice (1671) sono ispirate non a soggetti mitologici ma ad avvenimenti storici della Roma imperiale. Racine intende così rivaleggiare con Corneille, che già trent’anni prima aveva esplorato la Roma antica in Horace (1640), e che esattamente sette giorni dopo la messa in scena di Bérénice mette in scena un Tite et Bérénice, dando inizio a una contesa che ha acceso l’immaginazione dei posteri.
La Roma di Racine è antitetica a quella di Corneille. Sebbene Racine fosse un profondo conoscitore dei testi classici e utilizzasse dettagli storici con grande precisione, la sua Roma non è una ricostruzione storica, bensì un luogo immaginario, una hétérotopie in termini foucaltiani, uno spazio ‘altro’ regolato da leggi proprie sul piano spaziale, sociale e psicologico. In Britannicus, questo spazio si manifesta nella corte opprimente e chiusa di Nerone mentre in Bérénice si riduce al cabinet di Tito, il luogo solitario ove sono racchiusi i segreti di Tito, tra cui l’amore con la regina orientale sgradito a Roma[4]. Le voci del mondo esterno arrivano attutite in questi luoghi claustrofobici e intimi dove si svolgono drammi privati, che consistono nella contrapposizione tra l’individuo e il potere esterno che vuole sopraffare o controllare le vite e i sentimenti dei singoli, potere di cui Roma funge da simbolo perenne. Questi ambienti circoscritti funzionano perciò anche come spazi psicologici e con essi Racine costruisce una complessa coreografia teatrale. Ogni entrata, uscita, presenza o assenza sulla scena non ha solo una funzione pratica ma rappresenta visivamente una battaglia psicologica e un conflitto esistenziale, secondo una dinamica che ricorda Huis Clos (A porte chiuse) di Sartre. In questo modo, Racine sfida il modello di tragedia romana reso celebre dal suo rivale Corneille, proponendo una versione alternativa dell’idea stessa di Roma e della sua gloire.
Bérénice e la questione dello spazio.
Nella rappresentazione dei sentimenti e delle relazioni sta certamente il motivo del successo ininterrotto della tragedia di Racine nei teatri francofoni (basti guardare la banca dati di Les Archives du spectacle). In Bérénice non ci sono né mostri sanguinari né dèi mitologici né tiranni abominevoli, come in altre tragedie ‘classiche’ francesi. Roma e il suo Impero svaniscono per lasciare spazio a una storia universale che tocca chiunque nel profondo: quella di due amanti che sarebbero potuti essere felici, ma che la vita costringe a separarsi. Si parlano, poi si lasciano, senza clamore, senza drammi esagerati, senza retorica o grandiloquenza, ma con un perfetto decoro. Non la vicenda, dunque, è tragica, ma l’intensità delle passioni nascosta nel ‘cuore’ dei personaggi, e questa si manifesta nelle parole come nei silenzi, nel ‘nulla’ di accadimenti esteriori che copre tempeste emotive.[5]
Un altro sicuro motivo della fortuna di Bérénice sta nei molteplici contenuti metateatrali, nella rappresentazione dei suoni, delle relazioni, dei personaggi e del loro stare al mondo. In certo senso, la tragedia è nel suo complesso una maestosa metafora teatrale e anche per questo difficile da portare in scena. Come ha scritto Servane L’Hopital, spesso siamo limitati dall’idea tradizionale che lo spazio, in Racine, sia un palais à volonté – un luogo astratto e non realistico. Si dice anche frequentemente che, in Racine, le parole e il loro potere siano più essenziali della concezione dello spazio. Ma lo spazio, in Bérénice, svolge un ruolo drammaturgico essenziale sia in termini di struttura sia di effetto visivo. È proprio all’interno di uno spazio sovraccarico di significati che si consacra la concezione sublime dell’amore secondo Racine. In Bérénice l’unità di luogo non è una convenzione artificiale. Con grande acutezza, il drammaturgo ha scelto un luogo denso di significati affettivi e simbolici, disegnando un salon galante e, per così dire, paradisiaco, dove i tre amanti potrebbero amarsi eternamente, senza rivalità né dubbi. Un luogo che ha anche un significato letterario: all’epica dei ricordi, in spazi ampi e pubblici, si oppone la tragedia del presente, del cabinet, la stanza privata di Tito, dove quei sogni convergono per essere poi delusi e ripiegarsi su se stessi. Come mettere in scena, dunque, questo nodo di metafore emotive, teatrali, erotiche di cui si carica lo spazio fisico della rappresentazione?
Si tratta di una sfida per i registi più grandi. Nel XX secolo, Bérénice è stata messa in scena cinque volte alla Comédie-Française, rappresentata nella prestigiosa sala Richelieu (ad eccezione di quella di Faustin Linyekula, nel 2009, allo Studio-Théâtre): è stata diretta da Gaston Baty nel 1946-1947; da Paul-Émile Deiber nel 1962-1963; Klaus-Michael Grüber nel 1984, con Ludmila Mikaël nel ruolo principale; Muriel Mayette-Holtz nel 2008. La messa in scena di Grüber, per più di un aspetto, può dirsi epocale, oltre al fatto che il regista tedesco è stato il primo straniero a mettere in scena questa tragedia alla Comédie-Française. Ha scritto Carole Guidicelli:
«Con la messa in scena di Klaus Michael Grüber alla Comédie-Française nel 1984, il “nulla” su cui si basa Bérénice diventa concretamente il luogo di un’esperienza ai limiti: in questa tragedia dove nessuno muore, gli attori, quasi immobili, interpretano un lungo canto di lutto amoroso; il loro lento lamento tragico, di un’intensità costante, fa presagire il disastro irrimediabile che si manifesta sin dall’alzarsi del sipario. Al confine tra silenzio e parola, la rappresentazione, in un presente che sembra sospeso, amplifica nel pubblico il sentimento di vuoto, confrontandolo con l’esperienza di nuovi regimi del percepibile, sia sul piano sonoro che visivo».
La Bérénice di Grüber.
Klaus Michael Grüber (1941-2008) affida gran parte della narrazione visiva al pittore e scenografo Gilles Aillaud (1928-2005), che costruisce uno spazio diviso capace di rappresentare simbolicamente l’opposizione tra il mondo di Tito e quello di Berenice. Lo spazio di Tito è dominato da una cupola in mattoni, pesante e opprimente, che incarna la rigidità delle leggi romane e un senso di fatalità immutabile, rafforzato dalla presenza di una grande pietra bianca che richiama l’atmosfera tombale. Al contrario, lo spazio di Berenice è definito da un muro rosso decorato con una frangia ispirata a Matisse e da una finestra verde attraversata da un velo grigio, leggero e fluttuante, che suggerisce un ambiente orientale e una dimensione di leggerezza. Questi elementi visivi non solo traducono l’incompatibilità dei due protagonisti, ma rendono tangibile quel ‘nulla’ che caratterizza il dramma attraverso una scenografia immobile e altamente simbolica. Al centro dello spazio scenico, un monumentale masso liscio e bianco che richiama l’uovo di Costantin Brancusi, una pietra che suggerisce una legge inamovibile, la tragedia senza soluzione, ma che rinvia anche alla dimensione onirica, alla percezione sensoriale non visiva, perché la superficie della pietra, per essere compresa nel suo valore simbolico, deve essere toccata e non vista.
Grüber accentua ulteriormente la sensazione di sospensione dilatando lo spettacolo oltre le tre ore e facendo del tempo uno degli elementi centrali della rappresentazione. La lentezza pervade ogni aspetto della messa in scena, amplificata dalla quasi immobilità degli attori, i cui gesti sono ridotti al minimo e regolati da una precisione ieratica. Questo approccio trasforma la recitazione in un’evocazione intima e misurata del dramma interiore, in cui la rarefazione stilistica si traduce in una cerimonia poetica, dove il tempo diventa palpabile e il silenzio, con il suo peso, fa da cassa di risonanza per ogni parola pronunciata. La dimensione del linguaggio, nella sua delicata interazione con il silenzio, diventa un elemento centrale della messa in scena. La recitazione degli attori è caratterizzata da una dizione sommessa, spesso al limite dell’udibilità, che costringe il pubblico a un ascolto attento. Grüber evita ogni enfasi e fa della voce uno strumento sottile, capace di navigare tra il detto e il non detto. Questo approccio crea una tragedia dell’ «afasia», come scrive Roland Barthes, dove il linguaggio si dissolve progressivamente, lasciando spazio all’introspezione e a un senso di mistero che avvolge l’intera rappresentazione.
Anche gli oggetti sulla scena partecipano alla costruzione di questo universo poetico, assumendo una forte valenza simbolica. Il bruciaprofumi, per esempio, richiama un’atmosfera funebre e di perdita mentre il velo grigio, che si muove leggermente con il vento, diventa una metafora del corpo di Berenice, fragile e sospeso, nonché un indicatore delle emozioni che attraversano la scena.
Grüber riesce a ridurre all’essenziale ogni aspetto della rappresentazione teatrale, esaltando la dimensione elegiaca e contemplativa della tragedia di Racine. La sua Bérénice si trasforma così in un’esperienza sensoriale e intima, in cui il vuoto emotivo e la solitudine dei protagonisti trovano espressione in una staticità che amplifica la tensione drammatica e in un simbolismo che traduce il linguaggio del testo in immagini poetiche. Ogni elemento scenico contribuisce a rendere visibile l’intensità del conflitto interiore, trasformando la tragedia in una meditazione sulla temporalità, sull’amore impossibile e sull’inevitabilità della separazione.
Appunti per le prove di Grüber: Le vers est comme un confort pour survivre.
Negli appunti presi dal regista tedesco durante le prove, editi solo nel 2021, c’è testimonianza del significato attribuito al verso alessandrino di Racine come pure all’insufficienza della parola poetica per rappresentare teatralmente le emozioni:
Ci sono momenti in cui le cose sono troppo terribili, ed è allora che il verso arriva per attenuarle – c’è troppa sofferenza, e abbiamo bisogno della forma per non fermarci.
« Sono rimasto in silenzio per cinque anni »…
Il verso è come un conforto per sopravvivere.
Il verso: estrema eleganza per evitare il silenzio, è un dono.
Quando vi ascoltiamo: bisogna tacere, e poi c’è la forma, e bisogna vivere,
bisogna continuare.
Parlare per sopravvivere.
La rima diventa un’arma di sopravvivenza.
Quando si comprende il diciottesimo «Hélas!», si comprende l’intera pièce.
Nella pièce ci sono grida che sanno come tacere.
L’attore è lì per consolare o guarire il personaggio.
I primi due minuti sono una soglia – la difficoltà di attraversare quella soglia.
La bellezza di aver paura, la paura di perdersi e di continuare l’alessandrino.
Sapere e poi dimenticare tutto.
Bérénice conosce le stelle, il cielo mai squarciato.
Per viverlo, bisogna averlo vissuto. [6]
[…]
Strano equilibrio tra scrittura e teatro.
Sono personaggi scritti che non possono essere vissuti.
Quando si parla di lacrime, non si può avere allo stesso tempo l’emozione,
il prodotto dell’emozione.
Invece di tacere, si dice che si tace.
Affinché la parola sia così fredda, il cuore deve essere terribilmente sanguinante.
La bocca deve rimanere sempre aristocratica, gli occhi possono essere
borghesi forse.
Non siete personaggi, siete portatori di messaggi.
Come faceva la Callas a rinnovare verità e falsità allo stesso tempo?
Canta «io muoio» e resta in scena per due ore.
Hélas: soffio su una ferita.[7]
Bérénice di Castellucci
Sebbene Romeo Castellucci, nell’intervista a Mélanie Drouère che si può scaricare dal sito della Triennale di Milano (qui), prenda le distanze dalla rappresentazione di Grüber, che ricorda come «neoclassica», è proprio quella rappresentazione il più diretto antecedente della sua Bérénice. La tragedia di Racine è sottoposta da Castellucci a un radicale adattamento per la figura e l’interpretazione di Isabelle Huppert la quale, secondo Castellucci, è «sineddoche» per il teatro, ossia rappresenta da sola il teatro in assoluto, è la parte per il tutto. Di sicuro, spogliando la tragedia raciniana degli altri personaggi, Castellucci rende la Huppert unica e sola protagonista, amplificandone l’isolamento e l’‘eroismo’ ma semplificando i conflitti presenti nell’originale e la trama sottilissima delle relazioni dei personaggi tra loro. Bérénice è la Huppert nella rivisitazione di Castellucci, in una esplicita identificazione per cui la parola diventa ‘viva’ al punto che, alla fine, non c’è più bisogno della parola, basta il corpo dell’attrice in scena a rappresentare la tragedia. Sarebbe stato forse opportuno, allora, ridurre completamente il ruolo del testo, addirittura azzerare il testo per abbandonare la tragedia al gesto, ai suoni, agli oggetti, alla composizione visiva. Si trattava, insomma, non di riscrivere Racine, ma di metterlo davvero a tacere. Invece il testo c’è (si può leggere sul sito della Triennale nella traduzione inglese – qui –, chissà perché non italiana o francese): uno spezzato monologo, recitato in una specie di lamento continuo, con una voce a tratti deformata da un sintonizzatore e sempre più incomprensibile. Un testo che impone la sua presenza in certo senso ‘fisica’, perché compare in alcune frasi poco leggibili proiettate su un velo calato sul fondo del palcoscenico.
Castellucci opera per sottrazione: sulle orme di Barthes, la cui celebre lettura della tragedia è assunta dal regista come guida, Castellucci lascia che lo spazio sia avvolto nella notte.
«È Bérénice a desiderare Titus. Tito, al contrario, non è legato a Berenice se non per abitudine. Lei, invece, è legata a lui attraverso un’immagine, il che, in Racine, significa attraverso Éros. Quest’immagine è, per sua natura, notturna, e Bérénice vi ritorna liberamente ogni volta che pensa al suo amore. Per lei, Tito incarna il fascino di uno splendore immerso nell’ombra, di una luce attenuata. Riportato, secondo un procedimento propriamente raciniano, al cuore di quella “notte infuocata” in cui ha ricevuto gli omaggi del popolo e del senato davanti alla pira funebre del padre, Tito rivela, nell’immagine erotica, la sua stessa essenza corporea, lo splendore della dolcezza: è un principio assoluto, un soffio d’aria, al tempo stesso luce e avvolgimento. Non poter più respirare quest’aria equivale a morire», scrive Barthes.
Sprofondando tutto nell’oscurità, però, Castellucci fa scomparire il luogo della tragedia, che – come abbiamo accennato – è altamente simbolico e significativo. Così facendo, lo spettatore intuisce che la tragedia si svolge tutta nell’oscurità impenetrabile della coscienza di Bérénice-Huppert, ossia che la tragedia è una vicenda esclusivamente interiore. L’elemento politico, la messa in discussione del potere, dello Stato, dell’idea stessa di ‘Roma’ imperiale, viene dunque sminuito: la tragedia si riduce all’espressione fisica di una passione irrealizzabile e distruttiva perché l’essere umano altro non è che una composizione di elementi, dall’acqua all’oro, come ricordano le percentuali proiettate sul fondo della scena ed esposte allo sguardo dello spettatore all’inizio e alla fine dello spettacolo. Come a dire che le emozioni, tra cui l’eros, non sono altro che reazioni chimiche.
La Bérénice di Castellucci-Huppert è dunque il racconto estenuante di una dissoluzione, a partire dalla dissoluzione del verso alessandrino, la cui melodia viene progressivamente distrutta fino ad arrivare a un incomprensibile balbettio, che ricorda da vicino gli effetti fisici di eros su Saffo infelicemente innamorata nella famosa ode all’amata (fr. 31): «allora niente / mi resta più / di voce, / ma / la lingua si spezza, sottile / fuoco subito mi corre sotto la pelle».
A dissolversi è la tragedia stessa, seguendo ancora – credo – l’interpretazione di Barthes: «Quanto a Bérénice, sa che, una volta oltrepassata la tragedia, il tempo non è altro che un’insignificanza infinita, di cui la pluralità dei mari non è che un sostituto spaziale. Restituita alla durata, la vita non può più essere uno spettacolo. Questo è, in definitiva, l’Oriente di Bérénice: la morte stessa del teatro. E sui vascelli ancorati a Ostia, insieme ad Antioco, è l’intera tragedia che Tito manda verso il nulla orientale» (corsivo mio).
E in effetti Castellucci e Huppert mettono in scena la morte del teatro, decostruendo un testo classico e monumentale della drammaturgia occidentale: tagliando le parti degli altri personaggi e lasciando Bérénice sola, disperatamente sola, in scena; offuscando la scena attraverso un metaforico velario che nega allo spettatore la visione chiara, e in quest’oscurità fuligginosa Huppert pronuncia isole galleggianti di parole alla deriva, frammenti del testo originario, deliranti, che marcano il suo essere amante attraverso la voce: «Si sa quanto la voce sia sessualizzata nel teatro raciniano, e in modo particolare in Bérénice, tragedia dell’afasia», scrive sempre Barthes.
Bérénice si appropria con Huppert di una metaforica quotidianità provocatoriamente banale e anacronistica: per riscaldarsi, abbraccia un termosifone; poi lava il bucato in lavatrice, poi diventa una mendicante d’amore che agita la sua ciotola, infine una donna con un abito color fiamma (firmato Iris van Herpen), consumata dalla passione davanti a grandi fiori che appassiscono. Alternando urla e sussurri, Huppert pronuncia invettive bagnate di lacrime. Lo spettatore italiano segue la sua inquietante nebbia di parole grazie ai sovratitoli, partecipando di tanta solitudine e di tanto abbandono di cui è vittima non il personaggio, non la regina orientale Bérénice, ma la Huppert stessa a cui qui Castellucci sta erigendo un monumento. Morta (metaforicamente) la Huppert, muore il teatro e muore la tragedia. Un recensore francese, che ha poco apprezzato, come altri in Francia, l’incomprensibilità della recitazione, ha paragonato questa esibizione di Huppert a quella di «Sarah Bernhardt, che a 75 anni, con una gamba amputata, interpretava ancora Athalie dello stesso Racine». E perciò, finita lei e finito il teatro, può gridare, Bérénice-Huppert: «Non guardatemi!»
Oltre la centralità della Huppert ci sono immagini e suoni che riprendono pienamente la poetica tragica di Castellucci: dal buio emergono le figure sottilissime, quasi figurine di carta, ‘ragazzi pasoliniani’ – come sono stati definiti[8] – del muto Tito, interpretato dal franco-senegalese Cheikh Kébé, un imperatore nero con toga rossa, che danza cupi rituali in compagnia di Antioco, un altro amante respinto (questa volta da Bérénice), interpretato da Giovanni Manzo. Il colore della pelle di Tito vale come sin troppo delicata allusione al razzismo romano verso la regina che veniva da Oriente. Dietro di loro, appena visibili nella penombra velata, i senatori complottano, si agitano, si calano i pantaloni, si denudano, portano l’imperatore in trionfo su una croce, come nel martirio di San Pietro di Caravaggio, ai chiaroscuri potenti del quale si allude. La musica dark ambient di Scott Gibbons si materializza in colpi secchi, assordanti, battuti da spiriti invisibili in un’evocazione di fantasmi, in una nekyia, colpi che si abbattono su un gatto/divinità egizia (oscuro tributo all’Oriente sognato), su un lavabo o un busto imperiale, come gong che scandisce meccanicamente l’ineluttabilità del tempo. Nastri ufficiali e anelli d’oro fluttuano nello spazio, una lancia luminosa trafigge le anime innamorate e pesanti tende cadono bruscamente, gettando le ombre dell’inconscio addolorato di Bérénice sull’intera scena. Ma così si rappresenta anche la paura del potere e la presenza fantasmatica di Roma: «in realtà – scrive Barthes – Roma è un puro fantasma. Roma è silenziosa […] il fantasma è […] integrato nel rituale della separazione […] Roma svanisce».
Bérénice di Castellucci è stata accolta piuttosto male in Francia, dove la tradizione delle rappresentazioni della tragedia di Racine è consolidata e non ha retto il confronto a distanza con l’allestimento di Grüber. Durante una replica si è arrivati addirittura alle mani tra fan che adorano il regista e spettatori che hanno salutato con grande insoddisfazione questa Bérénice in salsa Castellucci-Huppert: a noi, abituati ad accoglienze più sonnacchiose o indifferenti, una rissa del genere sembra un bell’esempio di vitalità del teatro. Non so quanto abbia contribuito al dispiacere del pubblico l’idea che i propri ‘classici’ non vadano dissacrati. Dopo la prima italiana di Bérénice alla Triennale (4-8 aprile 2024), al Teatro Mercadante di Napoli, dove abbiamo visto lo spettacolo e incontrato amici da tutta Italia venuti a vedere l’icona Huppert e un’opera diretta da Castellucci, c’è stato il tutto esaurito per tre sere (24-26 gennaio 2025). Anche questo un buon segnale per la vitalità del teatro e per la sua capacità di creare eroi.
Bibliografia essenziale:
Alonge, Tristan. Amatus amatam dimisit. Déclaration d’amour et tragédie cachée dans Bérénice de Racine. Revue d’histoire littéraire de la France 119, no. 1 (2019): 55-80.
Barnett, Jenny Davis. Doubled and divided by the gaze: psychopathic identity in Racine’s Bérénice (1670). Romance Notes 60, no. 2 (2020): 303-314.
Barthes, Roland. Sur Racine. Paris: Éd. du seuil, 1963.
Bérénice, trois-cent cinquante ans après, edited by Caroline Labrune, Servane L’Hôpital, Victoire Malenfer, and Tony Gheeraert. Études Épistémè 40 (2021). https://doi.org/10.4000/episteme.12954.
Calle, Delphine. La séparation tragique: les lieux et l’espace dans Médée, Bérénice et Ariane. Nottingham French Studies 63, no. 1 (2024): 1. https://doi.org/10.3366/nfs.2024.0396.
Dermutz, Klaus, and Friedemann Kreuder. Klaus Michael Grüber – Homo viator: archivalien und neue Texte. Göttingen: V&R unipress, Mainz University Press, Vienna University Press, 2021.
Fiorentino, Francesco. Il potere spassionato: Corneille, Molière, Racine e altri tre saggi teatrali. Pisa: Edizioni ETS, 2020.
Guidicelli, Carole. La Bérénice de Klaus Michael Grüber, ou la contemplation du « rien » sur la scène. Double Jeu 2009: 41-52. https://doi.org/10.4000/doublejeu.1333.
Hammond, Nicholas, and Paul Hammond. Racine’s Roman tragedies: essays on Britannicus and Bérénice. Leiden/Boston: Brill, 2022. https://doi.org/10.1163/9789004504813.
Ilan, Ṭal. Queen Berenice: a Jewish female icon of the first century CE. Leiden/Boston: Brill, 2022. https://doi.org/10.1163/9789004511033.
Schlieper, Hendrik. Helden-Geschlechter: die Bérénice-Tragödien Cornelius und Racines. Gattung und Geschlecht (2021): 53-95.
Romeo Castellucci e Carlemo Rifici dialogano sui temi di Bérénice: https://www.luganolac.ch/lac/programma/evento~lac~24-25~s~berenice~.html
La traduzione italiana consultata della Bérénice è quella di Giovanni Raboni per i Meridiani, ora in: Teatro. Testi e traduzioni, a cura di Massimo Natale, Milano: Mondadori 2024.
Alcune recensioni a Bérénice di Castellucci in Francia:
Alban Barthélémy. Entre louanges et insultes, le public de Bérénice et d’Isabelle Huppert s’échauffe. Le Figaro, 28 marzo 2024. https://www.lefigaro.fr/theatre/entre-louanges-et-insultes-le-public-de-berenice-et-d-isabelle-huppert-s-echauffe-20240328.
Fabienne Darge. Au Théâtre de la Ville à Paris, l’hermétique Bérénice de Romeo Castellucci. Le Monde, 3 marzo 2024. https://www.lemonde.fr/culture/article/2024/03/03/au-theatre-de-la-ville-a-paris-l-hermetique-berenice-de-romeo-castellucci_6219831_3246.html.
Emmanuel Daydé. Bérénice par Castellucci au Théâtre de la Ville. Art Press, 14 marzo 2024. https://www.artpress.com/2024/03/14/berenice-par-castellucci-au-theatre-de-la-ville/.
Anthony Paulou. Théâtre: Bérénice dévorée par Isabelle Huppert. Le Figaro, 26 febbraio 2024. https://www.lefigaro.fr/theatre/theatre-berenice-devoree-par-isabelle-huppert-20240226.
Philippe Lançon «Bérénice» par Castellucci, Huppert et impairs. Libération, 18 marzo 2024. Disponibile su PressReader.
[1] Questo articolo è l’anticipazione di uno studio più esteso su Berenice in scena di prossima pubblicazione.
[2] Scudéry, Les Femmes illustres ou les harangues héroïques, « Bérénice à Titus. Huictiesme harangue », Paris, Sommaville et Courbe, 1642
[3] La Thébaïde ou Les Frères ennemis (1664), Alexandre le Grand (1666), Andromaque (1668).
[4] Souvent ce cabinet superbe et solitaire/ Des secrets de Titus est le dépositaire.
[5] Caroline Labrune, Servane L’Hopital, Victoire Malenfer and Tony Gheeraert, “Avant-propos”, Études Épistémè [Online], 40 | 2021, Online since 20 October 2021, connection on 27 January 2025. URL: http://journals.openedition.org/episteme/13048; DOI: https://doi.org/10.4000/episteme.13048
[6] Il y a des choses trop terribles par moments et là, le vers arrive pour adoucir ça
– il y a trop de douleur et on a besoin des la forme pour ne pas s’arrêter.
« Je me suis tu cinq ans »…
Le vers est comme un confort pour survivre.
Le vers: extreme élégance pour éviter le silence, c’est un cadeau.
Quand on vous entend: il faut se taire et puis il y a la forme et il faut vivre,
il faut continuer.
Parler pour survivre.
Rimer devient une arme de survie.
Quand on a compris le 18 « hélas! » , on a compris la pièce.
Dans la pièce il y a les cris savant de se taire.
Le comédien et là pour consoler our guérir le personage.
Les deux premières minutes, c’est un seuil – la difficulté de franchir le seuil.
La beauté d’avoir peur, la peur de se perdre et de continuer l’alexandrin.
Savoir et tout oublier.
Bérénice connaît les étoiles, le ciel jamais déchiré.
Pour le vivre il faut l’avoir vécu.
[7] Étrange équilibre entre l’écriture et le théâtre.
Ce sont des personnages écrits qui ne peuvent pas être vécus.
Quand on parle des larmes on ne peut pas avoir en même temps l’émotion,
le produit de l’émotion.
Au lieu de se taire on dit qu’on se tait.
Pour que la parole soit si froide, il faut que le coeur soit terriblement sanglant.
Paulin n’a pas besoin de respirer, il respire une fois par jour.
La bouche doit rester toujours aristocrate, lex yeux peuvent être
bourgeois peut-être.
Vous n’êtes pas des personnages, vous êtes porteurs de messages.
Comment Callas a fait pour renouveler la vérité et la fausseté en même temps?
Elle chante « je meurs » et elle reste pendant deux heures sur scène.
Hélas: souffle sur une blessure.
[8] https://www.artpress.com/2024/03/14/berenice-par-castellucci-au-theatre-de-la-ville/