default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Mentre gli spettatori entrano in sala, dall’alto scende una colonna sottile di sabbia, come quella di una clessidra di gigantesche dimensioni, che evoca l’inesorabile scorrere del tempo. La sabbia si deposita su una spiaggia dorata, luogo di dolci ricordi d’infanzia, delle foto scattate con mamme giovani e bellissime, di giochi incantati, di effimeri castelli di sabbia, scenario di nostalgie struggenti come la memoria sfocata di un lontano giorno d’estate.

La guerra trasforma lo stesso luogo, la stessa sabbia, in distesa di macerie e deposito di oggetti, sopravvissuti alla distruzione e ai bombardamenti, oppure lasciati da maree di profughi in precipitosa fuga, come a Gaza. Gli stessi uomini e le stesse donne che un tempo su quella spiaggia giocavano, che un tempo lì erano o sembravano felici, sono morti in guerra oppure ridotti a zombies svuotati di ogni sentimento. Dopo dieci anni di guerra, i soldati superstiti si aggirano tra le rovine come fantasmi crudeli, vestiti di armature su cui si sono depositate le tracce di infinite atrocità, di innocenti trucidati, armature su cui si sono cristallizzati rimorsi e atti di sangue. I bambini di un tempo, divenuti adulti sono venuti a seppellire i padri e a continuarne la guerra, in un circolo vizioso che pare non potersi interrompere mai. Le madri un tempo splendide, ora sono maschere di dolore: anche la madre per antomasia, Teti, la dea marina costretta a sposare un mortale e a generare un figlio fortissimo, Achille, destinato a una gloria effimera in cambio di una morte prematura. Teti, l’archetipo di ogni madre dolorosa.

I sogni d’infanzia non sopravvivono all’oscurità dell’età adulta, si dissolvono come sabbia sottile portata via dal vento e dalle mareggiate. E come le foglie le generazioni degli uomini passano, si dileguano, nel succedersi inesauribile delle stagioni. Alla primavera bambina segue lo splendore dell’estate e la malinconia dell’autunno, la cui dolcezza si spegne nel buio e nella stasi dell’inverno. Le stirpi degli uomini sono come le foglie fragili, ingialliscono, si frantumano,  cadono.  Questa similitudine, dall’infinita fortuna nella poesia e nell’arte, si trova per la prima volta in un passo dell’Iliade di Omero, così  come tante altre immagini sulla precarietà della vita umana, sul capriccio degli dei, sull’imperscrutabile forza di una potenza che tutto domina, una forza dai molti nomi, violenta, improvvisa, impietosa: più tardi la si chiamerà  destino. Tutto ciò è accennato, alluso e simbolicamente rappresentato nei primi poemi traditi della letteratura occidentale, l’Iliade e l’Odissea, sin dall’antichità pilastri dell’educazione. In questi due poemi si ritrovano i due archetipi narrativi dell’assedio e del ritorno che sono inscritti nell’inconscio artistico dell’Europa[1].  Ed alcuni degli infiniti rivoli che scorrono da Omero e dai miti che Omero racconta sono giunti  anche in Semidei di Pier Lorenzo Pisano, giovane (1991) ma già affermato regista, drammaturgo e scrittore, attualmente artista associato del Piccolo Teatro di Milano.

Il programma di sala (scaricabile qui) espone quali siano gli intenti dell’autore, intervistato da Eleonora Vasta: raccontare ciò che di universalmente umano Pisano ha da sempre trovato in quei miti, ad esempio la forza e insieme la pericolosità dei legami familiari, l’ingenuità dell’infanzia, l’elaborazione del dolore e la meditazione sulla morte. Sempre nel programma di sala, alcune belle pagine di Helena Janeczek sanno ricondurci lievemente all’epoca, ai luoghi, agli autori, la Germania dell’inizio dell’Ottocento, in cui si formò quell’ideale classicistico che tanta influenza continua ad avere sul nostro immaginario e sul nostro pensiero. Silvia Romani ci ricorda la bellezza della falsità del mito, come di ogni racconto nato per il bisogno di dare piacere (terpsis, dicevano i Greci) all’ascoltatore.

Lo spettacolo si avvale di una scenografia curata e imponente, di uno spazio maestoso, nei piani alti dal quale si affacciano litigiose divinità aureo-vestite, trasformando l’Olimpo in un’animata riunione di condominio. Splendidi i costumi, da quello iniziale di Teti che emerge dal mare come una venditrice di  multicolori salvagenti e buffi galleggianti colorati, alle tute mimetiche mostruose indossate nel finale da uomini ridotti a macchine per uccidere. Eppure in questo spettacolo manca qualcosa.

Da quasi trent’anni leggo l’Iliade e l’Odissea a studenti che sanno il greco oppure no, e potrei scrivere un libro sulle reazioni che nel corso degli anni e ormai delle generazioni questa lettura ha causato: mi ricordo una ragazza serba, adottata in Italia, che durante la lettura dell’episodio di Ettore e Andromaca scoppiò in lacrime, perché le ricordava l’addio del padre andato in guerra; ricordo le risate e le battute quando abbiamo letto del tradimento di Afrodite ai danni dello zoppo Efesto, ricordo la commozione per l’elegia struggente della similitudine delle foglie; e ancora come mi raccontarono della mungitura delle capre  e della navigazione a vela, così reale in Omero. Mi è sembrato spesso di sentire battere cuori all’unisono, quando abbiamo tradotto i versi del quattordicesimo libro dell’Iliade in cui Era chiede alla dea dell’amore: ‘dammi ora il desiderio, l’incontro, la comprensione, l’eros che toglie il senno a mortali e immortali, anche ai più saggi’; e poi ancora le discussioni sul potere incoercibile dell’amore che aveva trascinato lontano Elena, sulla bellezza divina di quest’ultima e sulla sua innocenza,  sulla fedeltà di Penelope e su Telemaco schiacciato dalla fama del padre e anche dalla sua eredità. Abbiamo commentato il senso simbolico di quelle mura che servono da palco per guardare l’orribile ma magnetico spettacolo della guerra, abbiamo espresso pensieri sul significato del mare, deposito di desideri naufragati; abbiamo affermato il bisogno di tornare a casa ma solo per ripartire. Abbiamo sofferto con Nausicaa abbandonata. E ancora, e ancora. Ci siamo emozionati, come io mi emozionai quando, al secondo anno di università, il mio professore di letteratura greca ci invitava a sentire il suono delle vocali nel lamento delle Nereidi in lutto che come nebbia emergono dal mare. Leggendo Omero ci si emoziona.

Qualche mese fa Tommaso Spazzini Villa ha pubblicato da Quodlibet un libro che si intitola Autoritratti. Nel 2018 il poeta ha coinvolto 361 detenuti delle carceri italiani, lasciando a ognuno di loro una pagina dell’Odissea e chiedendo di sottolineare liberamente delle parole. «Le loro scelte hanno messo in luce brevi frasi di senso compiuto, che danno voce all’inconscio e al vissuto di ognuno attraverso le parole di Omero» - scrive Spazzini Villa. Il risultato è un testo dell’Odissea, nella traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, che diventa, pagina dopo pagina, lo specchio, il sismografo, delle emozioni e della vita di chi l’ha letta.

In Semidei è mancata l’emozione. La patina di retorica che i secoli accumulano sui testi ‘classici’ (nella nostra cultura) affiora in questo spettacolo, sicuramente contro le intenzioni dell’autore, che suo malgrado però si aggiunge alla schiera innumerevole di chi vuole a parole sue spiegare come i poemi omerici sono parte «integrante della nostra cultura e contengono temi che appartengono e sempre apparterranno all’umanità». Pisano svolge la sua lezione con «una lingua libera da anacronismi» (Claudio Longhi), ma si tratta però pur sempre di una lezione, a cui vengono aggiunte anche delle immagini, da un vaso greco a De Chirico; e infine, per ripudiare la musealizzazione di cui i classici sono vittima,  alcuni reperti archeologici protestano per esser stati tirati fuori dal buio della terra, dove avrebbero riposato in pace e sarebbero rimasti per sempre muti, come molti testi della letteratura greca che per sempre abbiamo perso, tra cui tanti poemi che raccontavano quel che in Omero non c’è.  

I semidei di Pisano rimangono, appunto, semidei, ibridi che non sono sacri come divinità e non quotidiani come esseri umani; non sono gli Antichi nuovi di zecca di Kae Tempest e non servono nemmeno da specchi autobiografici come – solo per fare un esempio -  nel romanzo Un’Odissea di Daniel Mendelssohn; a tratti assomigliano un po’ ai protagonisti di Kaos, la serie televisiva Netflix che ha deluso tutti. Questi semidei sono creature sospese, resuscitati dalla lettura di manuali e enciclopedie, come quella celebre ottocentesca di Gustav Schwab che è nei ricordi di infanzia di Helena Janeczek.

Resta l’auspicio che spettacoli come Semidei servano a incuriosire e a indurre alla lettura di Omero i più giovani che ancora non hanno letto Iliade e Odissea; considerando che non tutti, specie in un mondo multiculturale e interetnico come il nostro,  hanno avuto la fortuna di crescere o essere cresciuti «a pane e miti greci» (Pisano).

 

Semidei 
PRIMA ASSOLUTA
scritto e diretto da Pier Lorenzo Pisano
scene Giuseppe Stellato 
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda
assistente alla regia Flavio Capuzzo Dolcetta
assistente costumista Marta Solari 
con Francesco Alberici, Marco Cacciola (6, 7 e 11-23 febbraio), Pierluigi Corallo, Michelangelo Dalisi (8 e 9 febbraio), Claudia Gambino, Pia Lanciotti, Caterina Sanvi, Eduardo Scarpetta
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa 

 

[1] Franco Ferrucci, L'assedio e il ritorno: Omero e gli archetipi della narrazione, Milamo 1974 (rist. 1991).