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I fiocchi di neve si rifrangono sui fari che illuminano il tappeto rosso; alle spalle, il  trasparente palazzo di vetro della Berlinale, quest’anno alla 75esima edizione e una nuova direzione, quella dell’americana Licia Tuttle, dal 2018 al 2020 a capo del London Film Festival. Anche per il turbinio della neve, l’inizio è magico:

i rumori di Potsdamerplatz arrivano attutiti, le voci si spengono nell’aria ghiacciata, il pubblico cerca di ripararsi dalla neve e guarda in alto, sia la danza dei fiocchi che il maxischermo. Il tempo si sospende per dieci giorni, stretto in una morsa di ghiaccio, nello spazio tra lo scenario post-moderno delle architetture di Potsdamerplatz, il Palazzo della Berlinale ospitato dal teatro progettato da Renzo Piano, le sale confortevoli del Cinemaxx, quello del mitico Arsenal, all’interno di quello che era il Museo del Cinema, oggi in via di trasferimento,  e il più austero Blue Stage Theater, il teatro dove da venti anni si replica lo show del Blue Man Group. Fuori, il gelo stende una patina ovattata da pellicola vintage sulle lucine fioche che illuminano gli alberi, a cui sono sospese luci circolari come le ‘pizze’ cinematografiche,  e un grande lampadario dalla stessa forma sospeso sulla Alte Postdamerstrasse, tra il Cinemaxx e il centro commerciale delle Arkaden, dove si passa la pausa pranzo con tutte le cucine del mondo e l’Italia è rappresentata in questa settimana da uno scintillante bar Campari che ricorda la Via Veneto della Dolce Vita. Questo è il cuore e il centro del Festival, con l’Hotel Hyatt che ospita gli artisti e la stampa, nella piazza intitolata a Marlene Dietrich. Sotto, i fan aspettano affacciati alle transenne che passi qualche divo. Ma il festival è diffuso per tutta la città, e anche per i costanti lavori stradali degli ultimi anni Potsdamerplatz ha perso la sua centralità e molto pubblico preferisce il Cubix di Alexanderplatz, dal cui caffè si vede la cupola del Duomo e sembra di toccare la celebre torre della televisione; oppure le tradizionali sale nella zona occidentale, il Delphi Palast o lo Zoo Palast, le cui facciate gridano nostalgia e ricordi.  

La prima sede del Festival, nel 1951, era sei chilometri lontano da Potsdamerplatz, nel quartiere borghese di Steglitz, più vicino ai laghi e ai boschi berlinesi che al centro, nel cinema che allora valeva come il più moderno della città: il Titania. Il Festival fu aperto da Rebecca di Alfred Hitchcock, fuori concorso, un film ormai vecchio per il mercato americano, addirittura del 1940, ma alla sua ‘prima’ tedesca. Il Festival si propose come una ‘Vetrina sul mondo libero’ (questo fu il primo motto), e perciò, più che riallacciarsi alla nobile tradizione cinematografica tedesca degli anni Venti, offriva una parata di grandi produzioni e stars internazionali, tra cui Gina Lollobrigida, Henry Fonda e Gary Cooper, che vennero in una Berlino guardata con sospetto nell’America del maccartismo. Il muro fu costruito nel 1961, e nella Berlino non ancora divisa Gary Cooper casualmente potette assistere alla rivolta operaia del 17 giugno 1953.

Il primo direttore del festival fino al 1976 fu il giurista e storico del cinema Alfred Bauer: solo nel 2020 è stata resa nota la sua adesione al nazionalsocialismo e fu così soppresso dal Festival un premio che portava il suo nome. Negli anni ‘50 e ’60 la Berlinale si trasferì sullo scintillante Kurfursterdamm, nel palazzo appositamente costruito (Zoo-Palast), aprendosi al cinema internazionale, alla nouvelle vague francese, al neorealismo italiano, dotandosi di una giuria internazionale. Ma nel 1970 non fu assegnato alcun premio, perché la giuria intera, presieduta dall’americano George Stevens, diede le dimissioni per protesta, poiché nel film di Michael Verhoevens sul Vietnam, OK, un soldato americano violentava una donna vietnamita. Dopo quest’episodio, la sopravvivenza stessa del Festival fu in forse: ma si riprese con l’istituzione della sezione Forum, destinata al confronto con le culture del presente, e l’allargamento degli orizzonti: non più solo cinema europeo e americano, ma da tutto il mondo. Sino al 1978 la Berlinale si svolgeva a giugno: poi la vicinanza a Cannes, di cui la Berlinale non voleva costituire l’appendice, impose il trasferimento in una stagione dell’anno più scomoda, in pieno inverno, a febbraio.

Ed eccoci perciò qui, 75 anni dopo l’inizio, tra i fiocchi di neve di Marlene Dietrich-Platz, e ci sembra di trovarci a nostra volta in un set cinematografico. Anche così il cinema riesce a suscitare meraviglia, quella ‘meraviglia’, termine filosoficamente impegnativo, che costituisce il filo conduttore del profondo discorso di ringraziamento pronunciato la prima sera del Festival da Tilda Swinton, Orso d’oro per la carriera 2025. Un festival del cinema che si svolge in una nazione percorsa da gravi inquietudini, un festival che terminerà alla vigilia di inattese elezioni anticipate; una nazione in cui si teme l’affermazione  del partito di estrema destra, che candida come cancelliere una donna, Alice Weidel, decisa ma rassicurante, apparentemente disposta all’ascolto, che nelle tribune televisive si perita di distinguere tra immigrazione illegale, che va respinta a tutti i costi, e l’immigrazione di personale specializzato, di medici e scienziati, ad esempio, che sono ‘benvenuti in Germania’, ripete. Come pure distingue tra ‘famiglia’ e ‘coppia’: quest’ultima può essere anche una coppia gay, come del resto – dice tra gli ironici sorrisi della platea nello studio televisivo – è quella di cui lei fa parte con sua “moglie”; ma perché ci sia una famiglia sono necessari i figli, non c’è altra possibilità di descrivere il termine o di vestirla di colori arcobaleno. Contraddizioni difficili da spiegare (la Weidel, tra l’altro, vive in Svizzera). Davanti alle domande sul caro-casa, che qui in Germania, un paese in cui i ‘piccoli proprietari’ sono un’infima minoranza, è diventato drammatico, Alice Weidel va via, perché il tempo a sua disposizione è finita.  L’anno scorso il Festival fu aperto con la polemica se invitare o meno i rappresentanti di Alternativ für Deutschland all’inaugurazione, e fu chiuso da un dibattito acceso sulle posizioni marcatamente anti-israeliane di alcuni film e sulla libertà di espressione degli artisti. Questioni che rimasero irrisolte.  Anche quest’anno, quel che accade fuori dal Festival non è irrilevante. 

Sullo sfondo, la lunga guerra nella vicina Ucraina, una guerra che doveva essere un’operazione lampo e adesso invece  sta per entrare nel quarto anno, una guerra in cui la Germania ha investito molto, economicamente e culturalmente, ha investito troppo, lasciando  esplodere una latente russofobia, il ricordo doloroso e senza nessuna Ost-algie degli anni della divisione: perché Berlino continua ad essere, anche solo nelle architetture, per metà una città di ispirazione sovietica, e perché ha nel sangue e nella storia l’appartenenza per lungo tempo ai paesi oltre la cortina di ferro. Una guerra, quella in Ucraina,  che ha contribuito al tracollo di quello che un tempo era il motore economico d’Europa, anche perché il gas usato in Germania era quasi tutto di provenienza russa. Alcuni segni della crisi arrivano anche nell’atmosfera rarefatta del festival: la presenza di senzatetto nelle metropolitane è impressionante, molti negozi sono chiusi, i prezzi degli affitti brevi ma anche dei generi alimentari sono alle stelle, è annunciato uno sciopero di due giorni dei mezzi pubblici: i vagoni della linea 2 della metropolitana scricchiolano e sono evidentemente da sostituire, i bus e i treni costantemente in ritardo.  Chi ha vissuto Berlino negli ultimi vent’anni si accorge del cambiamento, nonostante i gruppi di turisti da tutto il mondo che si aggirano infreddoliti per le strade del centro con leì guide che lasciano loro immaginare una città che non c’è più, quella di prima della seconda guerra mondiale.

La neve che cade copiosa, intanto, metaforicamente sembra avere il potere di pacificare i conflitti e le lacerazioni, quelle interne e quelle esterne. Perché in questi giorni il mondo sta ancora col fiato sospeso per la guerra tra Israele e Hamas, una guerra le cui cifre e le cui immagini dilaniano tutte le coscienze. E la guerra fa irruzione nel primo tappeto rosso, dove il regista Tom Twiker e il cast del film d’apertura (Das Licht) mostrano la foto dell’attore israeliano David Cunio, uno degli ostaggi del 7 ottobre, con la scritta: riportatelo a casa. A Cunio, che era stato attore della Berlinale 2013,  è dedicato anche un film documentario, Lettera a David di Tom Shoval. E alla famiglia della prima donna presa in ostaggio il 7 ottobre e liberata, la cittadina israelo-americana Liat Beinin, è  dedicato il documentario a tratti crudo Holding Liat, su cui torneremo. Liat e la sua famiglia sono qui a Berlino, si sono confrontati con il pubblico, hanno espresso, seppur con cautela, il loro dissenso dallo stato israeliano e in generale dalla politica mondiale. Hanno esposto allo sguardo il loro dolore, le cicatrici di una tragedia che non si rimargineranno mai (il marito di Liat è morto durante la prigionia).

Intanto però, con voce ferma, Tilda Swinton si pone dalla parte degli ultimi, dei vulnerabili, di coloro ai quali viene tolta la terra e la casa, di coloro che vengono bombardati e i cui bambini vengono uccisi, qualunque sia lo stato o il regime che fa questo. E auspica che il cinema, creando meraviglia, contribuisca alla riflessione, alla consapevolezza e in fin dei conti alla pace. Però se l’arte è profetica, il colossal di Bong Joon Ho, Mickey 17, presentato in prima mondiale alla Berlinale 75 nella sezione speciale non in concorso, prodotto dalla Warner Bross, non fa ben sperare. Il film, che in molte immagini allude a 2001: A Space Odyssey, racconta di una guerra e della fondazione di una colonia di umani dalla razza pura in un altro pianeta, in un futuro indefinito, con a capo un miliardario che cerca spazio per il suo regno. Ma nel pianeta, che vuole occupare, e in cui giunge in pieno inverno, trova gli autoctoni, un  popolo di insetti repellenti e mostruosi, che però si rivelano più umani degli umani, essendo capaci di provare pietà e incapaci di esercitare una violenza gratuita.

Cosa è un essere umano? E cosa si prova a morire? Con queste due domande si misura il film di Bong Joon Ho (anche su questo torneremo). Un film che è parso commentare lo splendido discorso di ringraziamento di Tilda Swinton.

Il cinema, come l’arte in generale, non lascia questo mondo, ma dalla realtà trae linfa e materia di riflessione; però ha la capacità  di trasportarci in un altro mondo, nato dalla fantasia e dell’immaginazione, che ci travolge con le sue immagini e ci integra nell'irrealtà dove si trasformano in figura le nostre emozioni, positive o negative. Che il festival, dunque, abbia inizio.