Elena Rivoltini definisce la sua performance Nothing deeper, vista nell’ambito del Festival FOG della Triennale di Milano, «un misterioso concerto per organi»: gli organi sono quelli anatomici, interni del corpo umano.
L’artista appare chiusa in una teca di vetro, col volto nascosto dai capelli: la performance consiste nell’ascolto collettivo dei processi e movimenti che avvengono all’interno del suo corpo e che grazie a uno strumento sofisticato possono essere sentiti e proiettati verso l’esterno.
I presupposti filosofici di questa performance sono nella neofenomenologia (Hermann Schmitz), che distingue tra il ‘corpo’ (Körper), che noi vediamo e si può sezionare anatomicamente, e il ‘corpo-proprio’ (Leib), che sentiamo ma non vediamo, di cui siamo consapevoli perché ne avvertiamo i suoni, i moti, le dinamiche: il battere del cuore, lo stringersi dello stomaco, il venir meno delle ginocchia, il nodo alla gola, moti involontari, che percepiamo talora con forza ma non possiamo determinare, e del cui significato non siamo nemmeno consapevoli. Questi flussi o movimenti possono essere sintomi di una malattia o di un malessere, oppure sono emozioni, definibili solo attraverso l’esperienza corporea, di cui non sempre conosciamo la causa. I mal di pancia con i loro gorgoglii talora imbarazzanti sono spesso espressione di un’ansia o addirittura di un’angoscia che ci afferra, in senso concreto e fisico, del tutto inconsapevolmente, solo per fare un esempio; ‘le farfalle nello stomaco’ sono invece l’esperienza corporea dell’amore o del desiderio, un’esperienza che purtroppo non si verifica quando lo vogliamo.
La performance di Elena Rivoltini rende evidente cosa sia il Leib, il corpo-proprio, e quanto ogni esperienza abbia sede dentro di noi in senso fisico, non intellettuale. Noi siamo il corpo che abitiamo, e il corpo, d’altro canto, abita l’idea di noi che ci formiamo attraverso l’esperienza corporea. Uno dei messaggi di questa performance è dunque che il dualismo mente-corpo, così inciso nella nostra tradizione culturale, con una sopravvalutazione del cervello come centro di ogni sensazione e dell’attività cognitiva, non ha più davvero ragione d’essere, sia dal punto di vista filosofico sia medico sia estetico.
Rivoltini, che sta lavorando da anni a questo progetto artistico e teorico, riesce ad esibire quel che non è visibile nemmeno a sé stessa, ossia la propriocezione dei meccanismi fonatori e dei movimenti volontari o meno che avvengono all’interno del suo corpo. La dimensione soggettiva della percezione viene resa pubblica grazie all’amplificazione dei suoni corporei interni, di correnti, di onde, sibili tra fessure, strozzamenti, sussurri e urla. La performer, grazie alla sofisticata strumentazione medica contemporanea, supera la barriera del linguaggio per descrivere la dimensione sonora del suo corpo-paesaggio.
Supponiamo di guardare da una finestra con gli occhi bendati: sarebbero i suoni del vento, della pioggia, oppure di un orologio o di una sirena o di un cantiere, a consegnare alla nostra immaginazione uno spazio che non possiamo vedere. Ugualmente possiamo solo immaginare attraverso i loro suoni le vie, le cavità, i labirinti del corpo per comprendere i messaggi.
Questa esperienza ha un importante risvolto estetico, anche per noi che studiamo i documenti più arcaici della poesia nella cultura europea. La performance di Rivoltini infatti è un tentativo, che si serve di tecnologie contemporanee, di esprimere quel che accade dentro il corpo dell’artista. L’esigenza di raccontare al pubblico cosa prova il corpo del poeta si presenta già agli albori della letteratura occidentale, ossia nei poemi omerici.Come è noto, nella Grecia arcaica non esiste poesia senza voce e senza ascolto.
Come arriva la voce ad esprimersi? Quale percorso compie dall’interno del corpo umano verso l’esterno? Cosa prova, cosa sente, il cantore quando compie la sua performance? Come riesce a trasmettere al pubblico il suo sforzo sia fisico sia emotivo, il suo tormento, il suo sentirsi stanco oppure commosso o in imbarazzo? Ogni poeta che si esprime attraverso la voce, ogni cantore o cantante si è interrogato sulle proprie sensazioni e sulle proprie emozioni; ma come descriverle al pubblico? Come far immaginare il corpo-paesaggio del cantore? Per l’aedo omerico il corpo e la voce sono strumenti attraversati da forze che esistono prima e al di là di lui stesso, a cui si può dare ad esempio il nome di ‘Muse’, forze invisibili, ma tangibili nei loro effetti, che trascinano e condizionano.
Nella voce del corpo si annida Dio, come dicono i pensatori indiani (esempi nel bel libro di Corrado Bologna). Il poeta arcaico greco non era privo di parole né di metafore: l’espressione ‘voce di bronzo’ rinvia forse al tono cupo, ma anche alla forte capacità fonatoria, alla sua resistenza alla stanchezza, alla raucedine, alle intemperie; le ‘cento lingue e le cento bocche’ rappresentano un desiderio e anche la constatazione della necessità di un’amplificazione che la voce umana da sola non ha; le parole sono ‘alate’, sfuggono come frecce dall’arco, come la voce dalla gola, e come frecce colpiscono le orecchie altrui ma prima il petto che risuona nell’articolarle o gridarle. Parole appuntite, che feriscono, oppure morbide come ‘fiocchi di neve’, che avvolgono e coprono. Ma non solo per la voce, per il canto, per le grida e per il silenzio Omero è attento a trovare similitudini o metafore che esprimano quei fenomeni che avvengono nel Leib, nell’invisibile ‘corpo proprio’.
Omero ci restituisce la dimensione fisica, incarnata (embodied) anche delle emozioni che condizionano le decisioni e lo stare al mondo dei suoi personaggi: dice che ‘il cuore si stringe’, ‘le ginocchia si sciolgono’, ‘un soffio esce dal naso’. La vita è per lui movimento, articolazione, il corpo una macchina in cui ogni membro avverte le sue funzioni; nel paesaggio del corpo omerico mani, braccia e gambe sono più importanti della testa, che è anzi il pezzo più fragile, così come le giunture, il collo ad esempio, dove più facilmente si insinua la punta della lancia. Deve essere ancora scritto, e speriamo di farlo, un atlante del corpo omerico, sia di quello interno sia di quello esterno, un atlante come quello tracciato da Atis Fioretos nel suo romanzo Atlas oppure, di recente, da Vittorio Lingiardi nel suo libro Corpo, umano.
Non si può oggi studiare arte, ma nemmeno produrre arte, se non si affronta il tema del rapporto tra mente e corpo (Gallese-Morelli). Difficile liberarsi da secoli di predominio assoluto della mente e di censura del corpo, che adesso invece torna in primo piano. Nessuna attività umana, nemmeno la conoscenza, avviene senza che sia incarnata, embodied, ma abbiamo ancora tantissimo da scoprire sul nostro corpo, sui suoi meccanismi di elaborazione e creazione di immagini, sulle sue relazioni con l’esterno. Dagli studi neuroscientifici stiamo però finalmente imparando che l’arte non è un prodotto intellettuale, non della mente slegata dal corpo e non del solo cervello, ma bisogna tradurre quel che stiamo imparando in concreta esperienza di interpretazione, di conoscenza, di percezione estetica.
Perciò la performance di Elena Rivoltini, che ha esposto il suo paesaggio-corpo attraverso i suoi suoni e rumori, ci aiuta a comprendere il ruolo della propriocezione nell’arte e nella poesia. Attraverso essa capiamo perché la ‘vita’, per Omero, è una psyché, un soffio che attraversa il corpo, che lo muove come vento, che lo tiene insieme in quanto corpo vivo, perché un corpo senza quei movimenti, senza quel che accade dentro di esso ogni volta che respiriamo, è corpo morto. Nel XXIII libro dell’Iliade c’è un passo meraviglioso, il fantasma di Patroclo che appare ad Achille e gli parla, ma scompare quando questo cerca di abbracciarlo. Non è nulla più che un’ombra, eppure Achille lo crede vivo perché ne ascolta la voce, quella voce che, nel momento in cui l’ombra sparisce, si trasforma in acuto stridio.
Questi esempi spero bastino a mostrare quanto antico sia il problema estetico e filosofico di cui si occupa la ricerca di Rivoltini, che porta il titolo L’arte come punto di incontro di voci antiche, corpi teatrali e sonorità contemporanee.
Per concludere, vorrei citare un passo tirato in causa da Lingiardi nel capitolo Polmoni del suo Corpo, umano. Si tratta di un passo di La Prigioniera di Proust, in cui -scrive Lingiardi- «Proust ci propone un’auscultazione che non è medica, ma scientificamente amorosa»: un’auscultazione perciò simile a quella esercitata da Rivoltini sul proprio corpo, volendo l’artista «sottrarre il corpo femminile alla medicalizzazione» (dal foglio di sala). Il narratore guarda Albertine, che sta per addormentarsi: «Il suo respiro, a poco a poco piú profondo, le sollevava regolarmente il petto». Le mani della ragazza, il suo filo di perle, si muovono con lo stesso movimento del respiro «come quelle barche […] che oscillano al moto dell’onda». Allora il narratore, sicuro di non urtare gli «scogli di coscienza ormai ricoperti dall’alto mare del sonno profondo», le si avvicina, le cinge la vita, posa le labbra «sulla sua gota e sul suo cuore; poi, su tutte le parti del suo corpo»; l’altra mano, rimasta libera, segue anch’essa il lieve saliscendi delle perle. «[M]i ero imbarcato sul sonno di Albertine», scrive Proust.[1]
Anche noi dobbiamo cercare, ogni volta, di imbarcarci nel sonno degli artisti.
Bibliografia:
Corrado Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Bologna 1992
Aris Fioretos, Atlas, Residenzverlag 2020
Vittorio Gallese-Ugo Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina 2024
Vittorio Lingiardi, Corpo, umano, Einaudi 2024
Hermann Schmitz, Nuova fenomenologia. Un’introduzione. Traduzione e cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti edizioni 2011.
L'illustrazione in copertina è di Cécile Gariépy, per l'ottava edizione della Triennale di Milano: https://triennale.org/fog-performing-arts-festival-2025
La foto della performance: @Piero Bertora
[1] Lingiardi, Corpo, umano, p. 97.