Il tempo è cambiato, un velo di grigia umidità avvolge il cielo, il ghiaccio residuo si scioglie nelle aiuole, la ghiaia scricchiola sui marciapiedi bagnati; soffi di vento insidioso attraversano la Wilhelmtrasse, l’isolato tra l’ ambasciata inglese e quella americana ci si presenta assediato da camionette della polizia con uno sfarfallio di luci blu.
Si cammina di fretta, in una Berlino a cui mancano gli abituali rumori del traffico dei bus, dei tram, della metropolitana, in sciopero da 48 ore. Mi viene incontro un ragazzo, occhi nerissimi, profondi, giovani, vi leggo rabbia e risentimento, oppure sono io che credo di cogliere queste emozioni. Mi percorre un brivido, una inspiegabile paura.
Lo spiegamento di polizia appare esagerato, anche se siamo alla vigilia di elezioni di cui si teme il risultato, ci sono molte transenne, oltre ai soliti dissuasori mobili lampeggianti che da decenni non permettono si possa transitare in auto davanti all’ambasciata inglese. È accaduto qualcosa?
Gruppi di turisti continuano indifferenti a scattare fotografie alla porta di Brandeburgo e al famoso Hotel Adlon. Più tardi, uscendo da teatro, saprò che una mezz’ora prima che io passassi davanti all’ambasciata inglese, un turista spagnolo era stato accoltellato a qualche centinaia di metri, mentre visitava il Memoriale della Shoah.
Una tensione sottile corre nell’aria del viale sotto i tigli affollato di venerdì sera: la stessa tensione si avverte nel bel film Mit der Faust in die Welt schlagen di Konstanze Claue, quarantenne regista con un passato di cantante jazz, tratto dal romanzo di Lukas Rietzschel dal titolo Battere i pugni sul mondo (tradotto in italiano per Keller editore). Si tratta della storia di due ragazzini, nati dopo la caduta del muro in una remota provincia tedesca che apparteneva alla DDR, sui quali ricade il peso degli errori e degli sviamenti delle generazioni precedenti. Da una parte, per noia e per gioco, i due ragazzi a scuola cominciano ad usare linguaggio neonazista, a disegnare svastiche, a insultare e bullizzare i compagni più deboli con epiteti ritenuti offensivi come ‘ebreo’ oppure ‘gay’. Dall’altra, cresce il loro risentimento per la DDR, quello Stato che doveva realizzare l’utopia socialista ma in realtà era un regime coercitivo e terrorizzante, sulle cui macerie vivono in senso metaforico e letterale: un luogo per i loro giochi è infatti una fabbrica abbandonata, piena di tracce misteriose di quel passato recente.
La fine della DDR ha significato anche la distruzione morale del padre dei due ragazzini, licenziato dalla fabbrica e rimasto disoccupato, ed anche per questo caduto nell’alcolismo, e di un suo amico, Uwe, che aveva anche fatto parte della Stasi, il servizio di spionaggio della DDR. Il padre dei due ragazzi ed Uwe sono pieni di risentimento verso quello Stato che aveva loro promesso benessere e stabilità ma li aveva traditi; con la caduta del muro hanno perso tutto quel che in cui credevano ed anche la dignità, e sono stati subito sostituiti da manodopera estera a costo più basso (i polacchi), contro cui rivolgono tutto il loro odio. I residui del passato, che i ragazzi non riescono a comprendere e che viene in parte mitizzato, si trasformano in un’ eredità di dolore che si esprime nella violenza e nel razzismo. Ma mentre il più grande, Philipp, riuscirà ad evadere da quella prigione sentimentale e ad andare in una grande città, il più giovane dei fratelli, Tobi, non riuscirà a venire fuori dall’ ambiente provinciale asfittico e malato di noia. Ci si può chiedere se l’elettore tipo di Alternative für Deutschland, un partito formatosi nel 2013, abbia una biografia analoga a quella del personaggio Tobi la cui formazione si svolge tra il 2000 e il 2015, ma il romanzo e il film non vogliono certo offrire l’indagine di un fenomeno politico.
L’interrogativo che il film si pone è più generale e universale: ci si chiede perché la violenza impregni la vita della generazione nata dopo la caduta del Muro al punto da poter generare mostri, e questo non solo in Germania. Perciò il film di Constanze Klaue è profondamente tragico e non può essere ridotto ad una vicenda adolescenziale: la catastrofe, il fatto di sangue, l’incidente mortale, sembra sempre essere imminente come lo scoppio di una bomba innescata.
Bisogna tener conto che il razzismo in Germania ha anche un obiettivo specifico: l’odio contro gli stranieri che da generazioni lavorano in Germania, le famiglie di coloro che eufemisticamente negli anni Cinquanta furono chiamati Gastarbeiter (‘lavoratori ospiti’), in particolare la grande comunità di origine turca. Dal 1992 ci sono stati attacchi terroristici contro la popolazione di origine turca, con almeno 219 vittime.
Anche a Berlino si avvertono inquietudini che spaventano: Berlino, lontana dalla provincia, città tollerante e multiculturale per antonomasia, la cui popolazione è per il trenta per cento di origine turca, dove è difficile sentire parlare tedesco per strada, dove ad Alexanderplatz in questo venerdì sera di paure si sta tenendo l’ennesima manifestazione contro l’estrema destra e dove contemporaneamente si sta celebrando, con la Berlinale alla sua 75 esima edizione, l’incontro tra punti di vista e orizzonti culturali da tutto il mondo.
Ma il passato non è mai davvero passato, soprattutto qui a Berlino, la città dei fantasmi e dei vuoti da colmare: e così stasera, nel discusso Memoriale, a un passo dall’ambasciata americana, ma anche di quella russa e inglese, qualcuno ha di nuovo espresso la sua rabbia contro un ignaro e innocente turista. Forse l’attentatore era proprio quel ragazzo dagli occhi scurissimi e profondi che ho incontrato, vestito troppo leggero, occhi che ora ricordo come febbricitanti. Cercare i motivi del gesto, o etichettarli come anti-semitismo, diventa un viaggio nel buio.
Altri film presentati a questa Berlinale scavano nelle conseguenze psicologiche e nel trauma del terrore: Die Möllner Briefe della documentarista pluripremiata Martina Priessner, ripercorre con gli occhi dei parenti delle vittime e degli altri sopravvissuti, la vicenda terribile dell’ incendio di due palazzine abitate da famiglie di origine turca nel novembre 1992 in una tranquilla cittadina dello Schlewig Holstein, Möll. Nell’incendio persero la vita due bambini, fratello e sorella, e la loro nonna mentre cercava di salvarli. La donna era riuscita però ad avvolgere in un lenzuolo l’altro nipote di sette anni e a portarlo fuori dalla camera da letto: il bambino, İbrahim Arslan, fu trovato dai vigili del fuoco terrorizzato sotto il tavolo della cucina. Le altre famiglie si salvarono, ma il trauma ha segnato per sempre le loro vite. Il documentario ricostruisce non tanto la vicenda dell’attentato, che viene si rievocato con dolorosa dignità dalla mamma dei due bambini morti, ma soprattutto la battaglia condotta da İbrahim Arslan per ottenere le migliaia di lettere di solidarietà rivolte alla sua famiglia e alle altre famiglie coinvolte, che inspiegabilmente non furono recapitate ai destinatari, ma sono rimaste archiviate nel municipio della città sino al 2018. Le lettere inoltre furono aperte e quelle che portavano un mittente ricevettero persino una risposta da parte dell’amministrazione comunale, una lettera in cui il sindaco chiedeva un’offerta economica per aiutare le famiglie toccate dall’attentato.
Sono lettere commoventi, che esprimono da parte di cittadini tedeschi rabbia, dolore, compassione e soprattutto vergogna; vi sono disegni di bambini che si chiedono perché, e persino piccoli regali che dovevano portare consolazione alle vittime di tanta orribile violenza. Ma quelle vittime non hanno nemmeno saputo per lunghi anni dell’esistenza delle lettere, scoperte per vaso nell’archivio della cittadina da una dottoranda in storia. Il documentario, racconta dunque l’instancabile battaglia delle famiglie per sottrarre all’oblio la corrispondenza che era destinata a loro, la ricerca di İbrahim Arslan di alcuni dei mittenti, che allora erano bambini come lui, la consegna delle lettere e di alcune reliquie dell’incendio, come gli orecchini indossati quella notte dalla sorella morta nell’attentato, al nascente Museo e centro documentario di Colonia per l’immigrazione (DoMiD) , dove le lettere saranno esposte e digitalizzate (altre informazioni qui: https://domid.org/news/dokumentarfilm-die-moellner-briefe/)
Raccontare il punto di vista dei parenti delle vittime: questo è anche l’intento del film documentario in bianco e nero Das Deutsche Volk di Marcin Wierzchowski, a cinque anni dalla strage di Hanau, dove le vittime furono nove. Nel giro di pochi minuti, la sera del 19 febbraio 2020 un attentatore quarantenne uccise in un bar della città nove giovani a caso, perché non li considerava di ‘razza pura’ tedesca. Da allora le famiglie delle vittime non hanno smesso di chiedere un ruolo attivo nelle commemorazioni dell’attentato, continuano a chiedere che venga eretto un monumento commemorativo per i loro cari sulla piazza principale di Hanau in nome del ‘popolo tedesco’ (a questo allude il titolo), ma soprattutto continuano a chiedere verità e giustizia: come è potuto succedere? Perché all’attentatore è stato dato il tempo di andare via dal luogo dell’attentato con un’arma carica e 800 proiettili nella borsa, nonostante fosse stata allertata subito la polizia e persino le forze speciali? Perché l’uscita di sicurezza del bar dove si trovavano le vittime era chiusa? Perché l’attentatore ha avuto il tempo di tornare a casa, di uccidere la madre e poi di suicidarsi? Le famiglie avanzano esplicitamente il dubbio che ci fosse tra gli uomini della polizia e l’attentatore simpatia ideologica.
Invero i due documentari, concentrandosi sulle vittime, finiscono con l’oscurare domande importanti: chi sono stati gli attentatori e quale la loro cultura politica? Hanno agito da soli o erano parte di gruppi organizzati? Cosa leggevano e da chi traevano ispirazione? Come avevano imparato ad usare le armi o ad appiccare un incendio di quelle dimensioni? Che rapporto avevano con le vittime? Queste stragi sarebbero state evitabili?
Sono le domande che restano sempre sospese, a tormentare la vita dei sopravvissuti, in ogni attacco terroristico: così anche nel documentario Holding Liat di Brandon Kramer, dove si esplora il dolore e il punto di vista dei genitori di un ostaggio del 7 ottobre. Questo a dimostrare che il terrore ha radici comuni, qualunque sia il suo segno politico, radici che affondano nelle deformazioni e nei pregiudizi ereditati dal passato e da un’educazione incapace di dare un centro morale all’individuo e di indicargli modelli e prospettive.
Stasera un vento umido spira forte sulle steli del Memoriale e scuote i rami degli alberi del Tiergarten, sino alla colonna della vittoria. Echeggia il gracchiare dei corvi al tramonto. Speriamo non annunci tempesta.