default_mobilelogo

Newsletter

Vuoi ricevere una notifica quando sono disponibili nuovi contenuti sul nostro blog? clicca qui

Ludwig van Beethoven cambiava continuamente residenza. Solo nella sua patria d’elezione, Vienna, si contano più di trenta indirizzi. Uno di questi: Tiefer Graben 8.

La nota ‘mancanza di dimora’ del compositore diventa il punto di partenza dell’ultima piéce del celebre regista svizzero Christoph Marthaler, che intende elevare un fatto della biografia di Beethoven a condizione umana dell’uomo moderno. Insieme alla scenografa Anna Viebrock e al direttore d’orchestra Sylvain Cambreling, il regista disegna il tragico psicogramma di un gruppo di inquilini. Le storie che si intrecciano ruotano intorno a questioni di abitare, amare e credere, accompagnate dalla musica di Beethoven, che – come scrive Jan Assmann – «più di ogni altra mirava all’umano». Le composizioni da camera, orchestrali e corali, così come schizzi riarrangiati, raccontano di dubbio, rabbia e speranza in tempi di transizione. Trailer ed estratti dallo spettacolo sul sito del Theater Basel (qui).

Tiefen Graben, 8 - Theater Basel - Christoph Marthaler

(La versione tedesca dell'articolo segue a quella italiana - Deutsche Fassung unten)

Tre figure sono in scena: una siede al tavolino di un caffè, una sta su una scala che scende da una facciata di casa, sullo sfondo della scena, e una si trova tra il pianoforte e lo sgabello del pianoforte ai margini della scena. Siamo in un interno o in un esterno? Non si sa. Nella parte posteriore del palco vediamo delle stanze, che però sembrano trovarsi davanti alla facciata della casa. Diverse porte conducono verso l’interno – ma verso dove esattamente? Alcune figure compaiono alle finestre del piano superiore. La struttura di un letto è un rettangolo vuoto, che più tardi si trasforma in una recinzione per tavolini e sedie da caffè - a un certo punto viene portata via; i tappeti, invece, arrotolati e poi srotolati.

La scena di Anna Viebrock, uno spazio di transizione, né interno né esterno, conduce direttamente al tema della ‘mancanza di dimora’ (Unbehaustheit), tema che i quattro ‘spiriti creativi’ attorno al regista Christoph Marthaler pongono al centro del loro confronto con la musica di Beethoven.

«Abita qui?» – «Abitavo qui.» Queste frasi (di Heimito von Doderer, 1896–1966) e altre ancora, vengono ripetute molte volte nel corso della serata.  Da queste espressioni emana qualcosa di abissale, l’essenza stessa, per così dire, della precarietà.  Anche una frase come «Per favore, torni fra venti minuti!» appartiene allo stesso registro. Senza contesto, senza motivo, senza causa, ogni volta suona come un vero e proprio comando, come la fine di un rapporto.

La vera protagonista, però, è la musica. Non solo perché orchestra e coro suonano con energia e vitalità, potenza e delicatezza, ma anche per un’altra ragione. Le figure ‘suonano’  la musica attraverso le loro azioni, ovvero mettono in scena gli stati d’animo e le emozioni che la musica esprime,  traducono la musica in movimenti corporei, mimica, interazioni, rendendola così visibili, incarnandola. In questo principio semplice risiede la forza dello spettacolo. In questo si manifestano la maestria e la creatività dell’ensemble: nasce così uno spazio di risonanza visiva e drammatica per la musica. È letteralmente un Raum-Spiel, spazio per la rappresentazione, uno spazio del tutto particolare per un’interpretazione multimodale.

Quando il coro canta in canone: «Siamo tutti in errore, solo che ognuno sbaglia in modo diverso», i membri del coro procedono in fila indiana sul palco, seguendo forme sempre più labirintiche, quadrate e circolari. Ma all’improvviso la formazione si dissolve, si formano piccoli gruppi, tutti si urtano, si bloccano, si scontrano tra loro. Parallelamente, anche il canone si sfalda, si trasforma in un brusio di voci, in rumore. Vista e udito si intrecciano, si compenetrano al massimo grado. Tanto più grandiosa è la collisione tra vedere e ascoltare in un altro momento della serata, quando direttore e coro continuano a gesticolare e articolare, ma improvvisamente non si sente più alcun suono.

La traduzione della musica in azione può anche risultare didascalica e goffa, ad esempio quando le potenti sonorità della Große Fuge op. 133 vengono accompagnate da un linguaggio corporeo convenzionale della rabbia. I gesti bruschi, i pugni sollevati verso l’alto, replicati da tutte le figure ognuna a modo suo, appaiono scontati. Se qualcosa risulta evidente, è che questo agitarsi impotente non rende giustizia alla musica. Anche questo è un punto di vista che val la pena considerare.

Nessuna emozione viene risparmiata in questa serata che ha come tema la ‘mancanza di dimora’. L’umiliazione di una figura attraverso una risata collettiva e cantata (le note provengono dalle Creature di Prometeo), alla quale tutti partecipano, è del tutto immotivata, spinta da pura cattiveria collettiva e dalla Schadenfreude, la ‘gioia per le disgrazie altrui’.

Più tardi, nel corso della serata, le figure portano dei vasi di fiori sulla scena, li sistemano su tavolini o sedie, forse per rivendicare una sorta di diritto di possesso o semplicemente per creare un’atmosfera di convivialità. Chi rimane senza vaso di fiori inevitabilmente si nota, viene emarginato. Ancora di più, quando gli viene rivolta la domanda: «Abita qui?» Ma prima che la figura possa rispondere, il coro tuona: «L’Europa resiste!» (op. 136.1). Una minaccia? O forse una rivendicazione identitaria?

Che un dettaglio della biografia di Beethoven, ossia il fatto che abbia cambiato casa innumerevoli volte, offra davvero una chiave per comprendere la sua musica, o almeno i brani selezionati per questa serata, in parte poco noti, resta una questione aperta. Una cosa però è certa: l’esperimento di tradurre teatralmente una musica che non era stata concepita per il teatro non si limita a farla risuonare, ma la rende anche un’esperienza.

Tiefen Graben, 8 - Theater Basel - Christoph Marthaler

 

Tiefer Graben 8 – Musiktheater 

 Drei Figuren liegen auf der Bühne: eine an einem Cafétischchen, eine auf einer Treppe, die von einer Hausfassade im Hintergrund auf die Bühne herabführt, und eine zwischen Klavier und Klavierstuhl am Bühnenrand. Sind wir überhaupt drinnen oder draussen? Man weiss es nicht. Wir sehen im hinteren Teil der Bühne in Zimmer hinein, die sich aber vor der Hausfassade zu befinden scheinen. Verschiedene Türen führen ins Innere – doch wohin genau? Figuren tauchen an den Fenstern der oberen Etage auf. Ein Bettgestell ist ein leeres Viereck, verwandelt sich später in eine Umzäunung für Cafétischchen und -stühle, wird irgendwann weggetragen. Teppiche werden aufgerollt und wieder entrollt.

Anna Viebrocks Bühne, ein Zwischen-Raum, weder drinnen noch draussen, führt mitten in die Thematik der “Unbehaustheit”, die die vier kreativen Geister um den Regisseur Christoph Marthaler herum ins Zentrum ihrer Auseinandersetzung mit Beethovens Musik stellen (Musikalische Leitung: Sylvain Cambreling, Dramaturgie: Malte Ubenauf, Musikalische Bearbeitung: Johannes Harneit).

“Wohnen Sie hier?” – “Ich wohnte hier.” Diese Sätze und weitere (sie stammen aus der Feder von Heimito von Doderer) werden viele Male wiederholt an diesem Abend. Der kurze Auszug genügt, um das Abgründige, Prekäre heraufzubeschwören, das von ihnen ausgeht. Auch so ein Satz ist “Bitte kommen Sie in 20 Minuten wieder!” Ohne Zusammenhang, ohne Anlass, ohne Grund, doch jedesmal als reale Anweisung, als Beendung einer Interaktion.

Die wahre Protagonistin aber ist die Musik. Nicht nur, weil Orchester und Chor frisch und lebendig, kraftvoll und zart musizieren, sondern auch noch aus einem anderen Grund. Die Figuren ‘spielen’ durch ihre Handlungen die Musik, d.h. die Stimmungen und Emotionen, die die Musik zum Ausdruck bringt. Sie übersetzen diese in Körperbewegungen, Mimik, Interaktionen, und machen sie dadurch sichtbar, ja verkörpern sie. In diesem einfachen Prinzip liegt die Stärke des Stücks. Hier entfalten sich Können und Kreativität des Ensembles. Hier entsteht ein visueller und dramatischer Resonanzraum für die Musik. Es ist ein Spiel-Raum im besten Sinn des Wortes, ein Raum für eine multimodale Interpretation ganz eigener Art.

Wenn der Chor im Kanon singt: “Wir irren allesamt, nur jeder irret anders”, dann gehen die Mitglieder des Chors im Gänsemarsch in immer labyrinthischer anmutenden Formen, viereckig und rund, auf der Bühne herum. Doch plötzlich löst sich die Formation auf, bilden sich kleine Grüppchen, ecken alle an, kommen nicht weiter, geraten aneinander. Gleichzeitig löst sich auch der Kanon auf, wird zum Stimmengewirr, zu Lärm. Sehen und Hören greifen in einander über, sind maximal verzahnt. Umso grandioser kollidieren Sehen und Hören in einem anderen Moment des Abends, wenn Dirigent und Chor weiter gestikulieren und artikulieren, aber plötzlich kein Ton mehr zu hören ist.

Die Übersetzung der Musik in Handlung kann auch plakativ und unbeholfen daherkommen, so zum Beispiel, wenn die wuchtigen Klänge der Grossen Fuge op. 133 mit einer konventionellen Körpersprache der Wut unterlegt wird. Die abrupten Gesten, die in die Höhe gereckten Fäuste wirken in ihrer Vervielfältigung durch die Figuren, die jede für sich eine Version davon ausführen, abgedroschen. Wenn etwas klar wird, dann, dass dieses hilflose Gefuchtel der Musik nicht gerecht wird. Auch das eine lohnende Einsicht.

Keine Emotion wird ausgespart an diesem Abend, der die Unbehaustheit zum Thema hat. Die Erniedrigung einer Figur durch gemeinsames, gesungenes Gelächter (die Töne stammen aus den Geschöpfen des Prometheus), an dem sich allesamt beteiligen, ist gänzlich unmotiviert, sondern durch reine, kollektive Bosheit und Schadenfreude getrieben.

Später am Abend tragen die Figuren Blumentöpfe auf die Bühne, plazieren sie auf Tischchen oder Stühlen, signalisieren damit vielleicht einen Besitzanspruch oder wollen auch nur Gemütlichkeit herstellen. Wer ohne Blumentopf bleibt, fällt notgedrungen auf. Noch mehr, wenn an ihn die Frage ergeht: “Wohnen Sie hier?” Noch bevor die Figur antworten kann, donnert der Chor “Europa steht!” (op. 136.1). Ist das eine Drohung? Ist es eine inklusive Selbstbehauptung?

Ob ein Detail aus Beethovens Biografie, nämlich die Tatsache, dass er unzählige Male umgezogen ist, tatsächlich einen Schlüssel zu seiner Musik oder auch nur zu den hier ausgewählten, zum Teil unbekannten Stücken bietet, bleibe dahingestellt. Doch eines steht fest: das Experiment, Musik, die nicht für das Theater geschrieben wurde, dramatisch umzusetzen, lässt diese nicht nur erklingen, sondern macht sie erfahrbar.

Tiefen Graben, 8 - Theater Basel - Christoph Marthaler

 

Tiefer Graben 8
di Christoph Marthaler
Direzione musicale: Sylvain Cambreling, Regia: Christoph Marthaler, Rielaborazione musicale: Johannes Harneit, Scene e costumi: Anna Viebrock, Collaborazione alla regia: Joachim Rathke, Collaborazione alle scene: Anna Brotankova, Collaborazione ai costumi: Lasha Iashvili, Light design: Cornelius Hunziker, Maestro del coro: Michael Clark, Drammaturgia: Malte Ubenauf
Con: Kerstin Avemo, Magne Håvard Brekke, Raphael Clamer, Bendix Dethleffsen, Martin Hug, Ueli Jäggi, Andrew Murphy, Lulama Taifasi, Nikola Weisse, il coro del Theater Basel e la
Sinfonieorchester Basel.