Si racconta che un tempo tutto il popolo di Abdera fosse colpito da un’epidemia: dapprincipio si diffuse una febbre, che sin dal primo giorno si manifestò come violenta e ostinata, sino a che, dopo sette giorni, in conseguenza di copiose emorragie dal naso per alcuni, o di una abbondante sudorazione per altri, la febbre calò. Ma la malattia restò ugualmente nelle loro menti, e li rese tutti ridicoli, perché tutti si misero a recitare tragedie:
declamavano giambi ed alzavano alte grida e soprattutto, in assolo, recitavano la tragedia ‘Andromeda’ di Euripide, cantando la tirata di Perseo – e così la città era piena di quei tragedi del settimo giorno, tutti pallidi ed emaciati, che urlavano a gran voce: «O tu signore degli dei e degli uomini, Eros» e così di seguito. Quella situazione durò a lungo, sino a che con l’inverno non sopraggiunse un gran gelo, che pose fine al loro delirio. Pare che all’origine di tutto ci fosse un attore tragico molto celebre, Archelao, che proprio durante l’estate, in piena canicola, durante una tournée aveva interpretato ad Abdera l’ ‘Andromeda’ di Euripide: così gli Abderiti erano usciti febbricitanti da teatro e dopo, una volta guariti, avevano ancora nella memoria Andromeda e Perseo che, con la Medusa, continua a volteggiare nei pensieri di ciascuno.
Quest’aneddoto è raccontato da Luciano di Samosata, uno scrittore del II sec. d.C., all’inizio di un suo opuscolo dal titolo Come si scrive la storia: la parodia di quel che accadde ad Abdera, gli serve come esordio fulminante per prendere in giro la mania a lui contemporanea di scrivere opere storiche, che all’epoca costituì, pare, una vera e propria epidemia intellettuale fra gli uomini di lettere. La parodia è per noi interessante, perché fa capire come, passato il morbo fisico, non passi invece la malattia dell’animo, tanto più pericolosa e duratura. Così la febbre fisica diventa solo il sintomo di una febbre intellettuale preesistente, una febbre inguaribile perché la scienza e la ragione nulla possono contro un morbo che attacca la ragione stessa.
Perché Luciano pone all’origine di tutto una performance teatrale? Non è difficile, proprio oggi, da capire: in questi giorni, in tv passano spesso nostalgiche immagini di ‘concertoni’ e altre manifestazioni di massa; rimpiangiamo i cori ‘bella ciao’ durante i raduni delle Sardine, e i comizi elettorali dell’ultima campagna elettorale. Lo spettacolo teatrale, per Luciano, in una società affetta da spettacolarismo non meno della nostra, è avversato come una delle occasioni di istupidimento della folla: una folla ottusa, acritica, credulona, fanatica, pronta a seguire improvvisati santoni e ciarlatani di ogni genere, una folla contro la quale lo scrittore di Samosata si scaglia spesso. E non si tratta, si badi bene, di una folla di ingenui o di ignoranti, o non solo: al contrario, di una folla che si crede colta, che si vanta di avere un’istruzione filosofica e letteraria, di un’élite, in fondo, che assiste alla riproposizione di passi di antiche tragedie, accorre ad ascoltare conferenze intellettuali, e non si accontenta dei giochi gladiatori o del circo.
Luciano, dunque, non è avverso alle tragedie in sé stesse, e meno che mai a quelle del remotissimo Euripide, vissuto ben sette secoli prima, e che aveva anche fama, alla sua epoca, di essere saggio: ma è avverso a qualsiasi mezzo spettacolare finisca col provocare una psicosi di massa o l’obnubilamento della ragione, che si tratti di canti tragici o dell’assistere al suicidio di un falso profeta come Peregrino Proteo, che si getta vivo in una pira, un horror che aveva richiamato una gran folla, e a cui lo stesso Luciano dedica un pungente pamphlet. E perciò la vera epidemia che colpisce gli Abderiti è quella della stupidità.
Non è ovviamente un caso che Luciano inizi proprio questo opuscolo con il rievocare un’epidemia, perché, come sappiamo, la prima epidemia di cui si stabilisce un ruolo specifico nella storia degli eventi umani, è quella di Atene, e la sua descrizione costituisce un pezzo magistrale delle Storie di Tucidide, quello meglio scritto di tutta la sua opera, secondo i retori dell’età imperiale. E dunque Luciano ironicamente inizia il suo trattato sul ‘come si scrive la storia’, rivolto contro tutti gli scadenti emuli contemporanei proprio di Tucidide, con una apparentemente lieve descrizione di un’epidemia, una specie di contro-epidemia, i cui sintomi fisici smettono dopo una settimana, ma quelli morali restano indelebili.
Ancora non è un caso che Luciano usi l’immagine di un’epidemia, perché con un’epidemia inizia l’ Edipo Re di Sofocle, ossia la tragedia esemplare sin da Aristotele, un classico del genere, ovviamente, anche nelle scuole d’età imperiale: e così l’acuto Luciano a suo modo inizia, facendo il verso anche all’ epidemia dell’ Edipo, la rappresentazione di una tragedia dei suoi giorni.
Ed infine non è un caso perché, come sappiamo e sapevano tutti, con un’epidemia inizia l’ Iliade, ossia il testo base dell’educazione occidentale e quindi della formazione degli uomini colti. E la tragedia di cui Luciano vuol raccontare è la tragedia del decadimento inesorabile della cultura di lingua greca, grazie ai suoi rappresentanti contemporanei, venduti al potere, servili al punto da falsare i fatti per compiacere la propaganda di guerra dei dominatori, divenuti, insomma, pennivendoli dell’Impero.
Luciano sembra scherzare, ma la levità della sua parodia è solo apparente.
Anche per noi, come per Luciano, temibile diventa l’epidemia del vaniloquio, tanto più se tragico, che si accompagna ad ogni catastrofe. Luciano certo non poteva immaginare che sarebbe esistito facebook, ma era tuttavia immerso in una simile realtà non-virtuale, animata dai messaggi di (pseudo)-intellettuali, profeti, storici, filosofi, statistici, e questa realtà gli sembrava in preda ad un’epidemia di follia, di collettivo accecamento, di confusione tra vero e falso. Ora: i poveri abitanti di Abdera non paiono essere stati consapevoli, dopo la febbre, di essere affetti da un morbo della mente; il loro declamare è insensato, suscita quasi tenerezza, poiché in fondo declamano soprattutto versi che parlano della potenza dell’amore. Sono ‘ridicoli’, scrive Luciano. Ed infatti ai medici non resta altro, come si legge poco dopo, che stare a guardare, rassegnati, il dilagare del morbo canterino che induce gli Abderiti a recitare una tragedia di Euripide, un morbo che tutto sommato non uccide nessuno, ma la cui inesorabile diffusione esprime una possibile disincantata visione della storia: contro la follia umana non si può fare nulla, nulla davvero progredisce e nulla regredisce, la storia umana è una stasi di impotenza e imbecillità umana. Abderiti sono tutti gli uomini, attori tragici senza nemmeno saperlo di essere, che giocano un ruolo effimero nel gran teatro del mondo.
Tuttavia i letterati contemporanei a Luciano sembrano, invece, consapevoli d’essere affetti dalla peste metaforica del voler raccontare i fatti, e volerli raccontare coscientemente in maniera deformata. Si tratta dunque, e Luciano lo dice esplicitamente, di una follia ben più grave. Perciò, gli abitanti di Abdera, città della remota Tracia patria di filosofi, avevano fama di essere stupidi. Ma gli storici a servizio del potere, gli storici disonesti, gli storici che falsano i dati e oscurano la realtà, non sono stupidi: sono dei criminali, untori delle menti.
L’analoga, ma ben più pericolosa, epidemia che scoppia tra gli uomini colti ai tempi di Luciano, scuoteva infatti sin dalle fondamenta il senso stesso e il ruolo della letteratura e della storia, dell’educazione e della cultura: era il segno, non secondario, della fine dei tempi. Luciano solo ironicamente pensa di poter curare questa epidemia, e si mette a dare consigli, ai quali ovviamente non crede. Scrive un manuale su come si scrive la storia, sicuro che non servirà a nulla, che non sarà ascoltato, un manuale scolastico, inutile, freddo, a sua volta parodia dei manuali ‘tecnici’. Una specie di ‘la storiografia for dummies’, si potrebbe dire.
A sua volta, invece che un’opera storica, scriverà un'anti-opera storica, un capolavoro dell’antica fiction, scriverà, delle ‘storie vere’ in cui di vero, per sua esplicita ammissione, non c’è proprio nulla, ma ci sono viaggi sulla luna, isole dei beati; c'è un viaggio all'interno del ventre della balena, e un'isola dove non esistono le donne e tante altre vere falsità. Solo il rifugio nella fantasia, pare, può salvare dalla crisi del presente. Che per Luciano come per noi è, mi sembra, la crisi del parlare e dello scrivere, della ricercare meditato e scientifico, ma libero, non asservito ai potenti, che cerca i fatti e non li deforma né li abusa.
Dal sarcasmo di Luciano possiamo ricavare, dunque, che i morbi della mente sono altrettanto epidemici che quelli fisici, ma persino più deleteri, perché il numero delle loro vittime è potenzialmente infinito, e perché in fin dei conti la malattia della mente prepara la decadenza di un’intera epoca storica e prepara, soprattutto, a forme di ‘sovranità’ che si pongono all’antitesi della libertà. Scriveva Pier Paolo Pasolini: Luciano «è un uomo superficiale che parla senza volerlo della fine del mondo». Forse non tanto superficiale, e forse non proprio senza volerlo.
Da questo passo di Luciano prende avvio Henning Trüper, storico, responsabile del progetto Humanitarian Imperatives: Saving Lives from Nautical Distress and Shipwreck in Modern Europe presso il Leibniz-Zentrum für Literatur- und Kulturforschung (ZfL) di Berlino. Questo intervento è stato pubblicato il 24 marzo, https://www.zflprojekte.de/zfl-blog/2020/03/24/henning-trueper-unsouveraenitaet-in-der-pandemie/, ma appare tanto più stringente nella prospettiva di quella che in Italia chiamiamo ‘Fase 2’, che rende ancora più urgente il problema della ‘sovranità’, nei termini di Carl Schmitt, in uno stato di eccezione. Gli interrogativi che questo intervento pone (quali siano lo spazio dell’azione politica in una situazione di emergenza, quali siano i limiti e i fraintendimenti dell’umanitarismo, quale filosofia della storia se ne ricavi e quali indicazioni concrete per il presente), per quanto pertengano in generale alla storiografia d’età contemporanea, ci dovrebbero impegnare tanto più adesso e a partire da adesso. Il saggio sembra prendere le mosse da una messa in discussione della razionalità della politica e dell’umanitarismo, ma alla fine crede di identificare proprio nella ragione critica una possibile ancora di salvezza futura.
Si ringrazia il ZfL per aver dato il permesso della traduzione, che è mia. Le opere che fanno da contrappunto sono di Remo Rachini (http://www.remorachini.it/) e sono già state pubblicate su questo sito come ‘diario della liberazione’ (https://www.visionideltragico.it/blog/covid-19/nell-attesa-diario-per-la-liberazione?highlight=WyJyYWNoaW5pIl0=) . Notizie sul curriculum e le pubblicazioni di Hennig Trüper si trovano qui: https://www.zfl-berlin.org/person/trueper.html
La mancanza di sovranità nella pandemia
di Henning Trüper
ABDERA
Sebbene le scoperte microbiologiche dell’età moderna abbiano sostanzialmente cambiato il concetto di ‘contagio’, la paura di questo fenomeno è antica, e già nell’antichità dette occasione a una rappresentazione satirica. Luciano di Samosata, scrittore greco della tarda antichità, racconta come una volta, nella città di Abdera, patria del filosofo Democrito e di altri atomisti, scoppiasse una febbre epidemica, che obbligava tutti gli abitanti a parlare in versi e a considerarsi personaggi da tragedia. Il teatro non si lasciava più rinchiudere nel teatro. Questo aneddoto sta all’origine della diffusa opinione che Abdera fosse la città dei pazzi.
ABDERITISMO
Christoph Martin Wieland, il più importante intermediario di Luciano nella cultura tedesca del XVIII sec., nella sua Storia degli Abderiti, fece di Abdera la Schilda degli antichi.[1] E riferendosi a quei racconti di alterne vicende di errori umani troppo umani commessi in una comunità di idioti, Kant coniò qualche anno dopo il concetto di ‘abderitismo’. Con ciò definì quella concezione del corso della storia del mondo, secondo la quale negli eventi umani si possono contemplare solo alti e bassi di inutili fatiche e di pazzie senza fondamento. Kant reputava tale idea moralmente insopportabile. La struttura dei fatti storici «progrediente verso il meglio» doveva essere alzata come baluardo contro l’abderitismo. Dalla febbre tragica alla filosofia della storia: una volta che si è annodato il filo di un tropo, questo continua a tessersi da solo. La «metafora dell’esistenza» (Hans Blumenberg) del contagio non ci abbandona e ci accompagnerà anche durante l’attuale pandemia.
ANTIPOLITICA VIRALE
Se si vuole parlare della ‘politica’ del virus, allora bisogna parlare prima della sua antipolitica. Il contesto è analogo a quello di una catastrofe naturale. Le dighe non hanno retto, sin dove arriverà l’acqua? I rappresentant* della politica, intesa come una rete di istituzioni, hanno la possibilità di mettersi in mostra. Si ricordi Helmut Schmidt, che con l’inondazione di Amburgo del 1962 pose le basi per la sua carriera politica nazionale; oppure Gerhard Schröder, che nell’estate del 2002, mostrandosi con gli stivali di gomma sulle dighe bagnate dall’alluvione, salvò la sua rielezione. Mettersi in mostra significa dimostrare energia e «potere d’azione», in una situazione in cui per ambedue le cose è già troppo tardi.
Lo spazio per l’azione politica dev’essere aperto in una preesistente situazione di emergenza. Inoltre, nella concorrenza tra sistemi – o meglio nella narrazione della concorrenza tra sistemi –, ossia tra ‘l’occidente’ e la ‘Cina’, la crisi attuale offre il forum adatto a una sfida. I governi democratici non dovrebbero essere inferiori al governo cinese nel successo nella lotta al virus, se ambiscono a costituire ancora un modello a livello mondiale. Di sicuro, la pressione dovuta a tale situazione geopolitica, li induce a trasformare e rivedere l’elenco delle misure di prevenzione e sicurezza, consigliate dagli esperti, già operative in altri paesi. Sia a livello mondiale che europeo si possono perciò osservare differenti maniere di opporsi al virus; ad esempio, i governi britannico e olandese sono contrari a introdurre le stesse severe norme di chiusura, già in vigore in Italia, Spagna o Francia.
Tutto ciò mostra solo una cosa: la politica della pandemia è soprattutto una ostentazione di potere d’azione, in una situazione di sostanziale impotenza. Nella misura in cui ‘politica’ significa pur sempre creare la possibilità di agire politicamente, il virus spinge all’anti-politica. Ma contro questo, bisogna dapprima elaborare la capacità politica di agire.
NON SOVRANITÀ
Se Carl Schmitt afferma che ‘sovrano’ è colui che decide sullo ‘stato di eccezione’, allora nella situazione attuale sarebbe sovrano il virus, in quanto fattore decisivo. Ma il virus non può ‘decidere’, nel senso di un’azione cognitiva, e i decreti di coloro che detengono le cariche dello stato non cambiano nulla nella sostanziale situazione di emergenza, che si è già instaurata. Perciò si potrebbe concludere che i sistemi politici si trovano in uno stato di ‘non-sovranità’. In questo la pressione antipolitica del virus sembra essere avvertita in maniera così forte che si è pronti, nemmeno dodici anni dopo l’ultima ‘crisi economica del secolo’, ad accettare costi economici enormi, ‘per salvare le vite’, secondo lo slogan attuale. Speriamo che questo riesca.
Ora: su un tale impulso umanitario non avevano più confidato molte delle componenti critiche delle democrazie ‘neoliberali’ del presente - e ancor meno il capitalismo monopartitico cinese, altrimenti rigidamente basato sullo sfruttamento. È dunque la morale umanitaria, nella attuale situazione, una situazione senza sovranità, ad assumere la posizione del ‘sovrano’? Questo non coincide con le diffuse percezioni sulla presente situazione politica. Oppure ci si difende solo contro le conseguenze di costi economici che potrebbero essere ancora più alti, che si originerebbero dall’ incremento senza freni della pandemia, come si deduce da molti modelli epidemiologici? Questa insicurezza sulla natura e i presumibili obiettivi che si celano dietro le misure di prevenzione volute dalla politica, potrebbe essere uno dei motivi per i quali nei giorni scorsi, in ogni sede, ci si è chiesti con meraviglia: ma cosa sta accadendo veramente?
ANGUSTI SPAZI D’AZIONE.
“Il dovere implica il potere” è la variante moderna – formulata da Hans Albert – di un principio kantiano nella filosofia morale: “devi, quindi puoi”. Si può imporre oppure proibire qualcosa, solo se quella cosa si può fare o ostacolare. Si deve creare lo spazio per il giudizio morale, l’‘evento di libertà’ della filosofia morale idealistica, precisamente come si deve creare lo spazio di azione della politica.
L'allargamento degli spazi di azione morale - con l’ausilio della tecnica, delle istituzioni, di movimenti sociali e di nuovi modelli di discorso, nei quali sono intessute le imposizioni – costituisce un segno della modernità. Seguendo un uso linguistico inglese, è divenuto a questo proposito usuale il concetto di umanitarismo. La logica dell’umanitarismo condiziona la situazione attuale, non da ultimo perché al più tardi dalla fondazione della Croce Rossa, negli anni sessanta dell’’800, fa parte della moderna etica della medicina.
ALLA RICERCA DEL DILEMMA
Inerente a questa logica è la pratica del ‘triage’, che presuppone un dilemma morale: il dovere di aiutare un numero di persone che ne hanno bisogno, ma di cui non tutte possono essere aiutate. Questo concetto, che pertiene propriamente alla medicina militare, per palesi motivi, è immanente alle catastrofi. Contraddistingue, tuttavia, anche la prassi dei movimenti umanitari, i quali, sempre, stanno davanti alla decisione e intervengono prima della decisione, di scegliere uno tra una molteplicità di possibili destinatari.
Anche in questo caso le occasioni naturali in cui sia un dovere prestare aiuto, si lasciano definire con chiarezza. Esse insorgono proprio solo dove sia data la possibilità di aiutare, e quando la situazione sia tale che possa essere presa una decisione univoca, anche se si tratta di una decisione dilemmatica. Già il dilemma stesso presuppone ‘agency’. Il triage si applica perciò su due piani: nella situazione dilemmatica di decidere tra due ammalati allettati; ma anche già prima, in ciò che sta all’origine della necessità di prendere questa decisione. Questa pesante duplice struttura corrisponde a ciò che si può osservare nella politica privata di sovranità. Ci deve essere politica, affinché ci possa essere politica. E verosimilmente questa corrispondenza è la conseguenza di una stretta connessione, una specie di double blind, ossia una dipendenza storica reciproca tra umanitarismo e politica moderna.
IMPRECISIONE DELLE PROGNOSI
Più ondate di infezioni virali di nuovo tipo hanno attraversato il mondo nei passati vent’anni. Durante nessuna di queste, sono state emanate norme di quarantena così severe e generalizzate come adesso. Certo il Corona virus è ormai il più diffuso tra i recenti virus, e presto sarà anche quello con il maggior numero di vittime (il 20 marzo questo era ancora relativamente innocuo rispetto alla rispettabile pandemia di H1N1 degli anni 2009/10). Le misure politiche contro l’epidemia sono in misura considerevole sperimentali, in questo caso, come anche negli altri, della storia del contenimento delle pandemie. L’obiettivo di un ‘rallentamento’ della pandemia, per impedire la saturazione delle infrastrutture sanitarie pubbliche, è necessariamente impreciso. Esso è oggetto di prognosi statistiche dettagliate, ma che tuttavia possono pur sempre riservare delle sorprese. Non si sarebbe potuto aspettare l’apparente raggiungimento del completo contenimento della diffusione del virus in Cina, secondo queste prognosi, e nella stampa serpeggia già il sospetto che il conteggio sia piuttosto dovuto all’opportunismo politico.
Molt* espert* si rifiutano perciò di indicare un limite preciso o un termine delle misure precauzionali – che potrebbe già essere, ad esempio, il momento in cui verrà introdotto un vaccino – e sottolineano, invece, che si tratta unicamente di evitare il più a lungo possibile che gli ospedali divengano saturi per lo stato di emergenza. Non si sa nemmeno come si svilupperà la stessa evoluzione del virus. Già ora sono in circolo diverse varianti genetiche. Dalla variabilità evoluzionaria dipende però se l’immunità delle persone guarite sarà duratura oppure se i vaccini saranno sufficientemente efficaci. In sintesi, ci troviamo nel mezzo confuso di un evento, il cui svolgimento è prevedibile solo parzialmente – diversamente di quel che accade in una tragedia. L’imprecisione delle previsioni, la combinazione di misure preventive estremamente tecnologizzate con l’incertezza del confronto politico, la minaccia economica, infine il contrasto quotidiano tra i divieti pubblici e i comportamenti individuali privati – per esempio il non tossire nell’incavo del braccio né mantenere i due metri di distanza, tutti questi aspetti stendono una diffusa incertezza sui fatti, che supera la paura dell’infezione.
FEBBRE DELLA FINE
La febbre lucianea degli Abderiti è forse apparentata con quella di oggi, ossia con la pretesa di dover conoscere assolutamente la strategia d’uscita per poter mantenere una capacità del giudizio o una illusione di sovranità. Nel ‘panico’ di coloro che fanno incetta di ogni bene e cosa nei supermercati, nell’acquisto esorbitante di armi da fuoco, cose che accadono, sappiamo, dappertutto, si manifestano non solo paura e preoccupazione, ma anche una voglia davvero sfrenata di precipitare fino in fondo. E questa voglia è innanzitutto espressione dell’insistenza su un privilegio immaginario, ossia quello di poter prevedere la fine.
Che anche gli universi della fiction siano sottoposti a questa mania, è difficile da contestare. Con mezzi narrativi vengono infatti tracciati scenari, che si sviluppano coerentemente sino ad una fine, felice o infelice che sia. Il racconto invece strutturalmente infinito ricorre più raramente, ed invero solo in quei casi in cui la narrativa seriale-episodica acquista un valore economico particolarmente alto. Il consumo sfrenato, a cui aspirano tali particolari varianti di in-finità nella fiction, vuole attaccare ed estendersi alla realtà. Proprio gli spettatori di questo tipo di teatro desiderano, che il teatro esca fuori dal teatro. La febbre degli Abderiti, presa in giro da Luciano, sembra accompagnarsi alla pandemia.
INSULARITA’ UMANITARIA
Anche l’umanitarismo svolge un ruolo nella figura di pensiero della previsione della fine. Perché esso, quando si tratta della vita umana, è sempre orientato verso la salvezza, al superamento e alla ricostruzione, che lascia di nuovo la vita a sé stessa, non appena l’emergenza esistenziale sia stata superata. Lo scopo della morale umanitaria è sempre il raggiungimento, da parte di una situazione isolata, di una situazione nella quale gli obblighi e imperativi sono così chiari, da rendere impossibile alcuna opposizione. Questa situazione è connotata da uno speciale spazio temporale (del tutto analogo allo ‘stato di eccezione’ della teoria politica). Uno spazio di tempo concepito in maniera tale da sembrare sciolto da qualsiasi altro evento. Questa idea deriva dall’importanza morale attribuita alla situazione umanitaria, che manca del tutto al suo contesto. Ad esempio: navigare non è un atto a cui si potrebbe attribuire un significato umanitario; ma lo è il naufragio.
Tuttavia questo tipo di differenziazione non è sempre facile da farsi. “Proteggere i più deboli” significa, nella pandemia, proteggere dall’infezione i gruppi più vulnerabili, i vecchi e i malati. Ma altri gruppi deboli sociali non rientrano nella percezione pubblica.
Nelle grandi città, ad esempio, durante le misure della quarantena vengono a mancare gran parte delle infrastrutture di soccorso per i senza tetto. La situazione degli immigrati e dei rifugiati ai confini dell’Unione europea è ancora presente sulla stampa, ma quasi nessuno la prende in considerazione. L’evoluzione catastrofica dell’epidemia in Iran sta avvenendo ad una distanza geopolitica troppo grande, per poter generare più di un paio di articoli di giornale con informazioni di seconda mano. E così via. L’umanitarismo può avere delle conseguenze non etiche. Fonda sé stesso, infatti, sul modello della decisione dilemmatica del triage.
IL RESUSCITARSI DI SITUAZIONI-TIPO.
La basilare struttura del triage dell’umanitarismo impone una misura comune a diversi gradi di sofferenza, e attraverso tale misura diviene possibile decidere quale tipo di sofferenza abbia più urgente bisogno di essere curata. Per rendere possibile questa decisione, è necessario un sistema di classificazione che comprenda diversi tipi di dolori, sofferenze, tribolazioni, attribuisca a ciascuno di essi il suo peso e escluda quel tipo di dolore o sofferenza che non sia comprensibile in alcuna categoria. Che ad esempio i migranti africani muoiano in un numero imprecisato, ma certamente grande, mentre attraversano il Sahara, ha causato nell’opinione pubblica europea incomparabilmente meno preoccupazioni umanitarie di quanto sia stato in grado di evocare la situazione-tipo del naufragio nel Mediterraneo.
La situazione tipica dell’epidemia, che può potenzialmente colpire chiunque, è stata riconosciuta subito con la massima facilità, sebbene quasi nessuno degli attuali abitanti in Europa l’abbiano vissuta. È pur vero che si potrebbe nominare, come esempio recente, l’epidemia di ebola del 2014, oppure l’Aids. Ma queste due epidemie hanno in comune di essere state rappresentate, in molti media, come fenomeni distanti nello spazio, oppure distanti metaforicamente perché sembravano riguardare solo precise categorie sociali. Ebola, dunque, è stato sempre inteso come un problema specificamente africano. L'Aids, invece, valse innanzitutto come malattia venerea, sulla scia di più antiche ‘epidemie sessuali’ intese come punizioni morali, un’epidemia che perciò fu rappresentata come un fenomeno specifico degli omosessuali; sino a che, dopo che tale legame passò, per così dire, di moda, l’Aids è stata di recente classificata come una malattia diffusa principalmente, anche in questo caso, in Africa.
La riconoscibilità e identificabilità della situazione-tipo ‘epidemia’, dunque, da una parte sono conseguenze della stabilità storica di quelle categorie, che si basano su classificazioni delle forme di sofferenza e sui corrispondenti doveri di aiuto e di trattamento terapeutico. D’altra parte, tale estrema riconoscibilità è anche conseguenza di un costante lavoro culturale, teso a stabilizzare le categorie e a circoscrivere, delimitare, specificare ciò che provoca un’emergenza sanitaria. Ad esempio, l’inquinamento nelle megalopoli cinesi, per il quale anche quest’anno sono certamente già morte un considerevole numero di persone, non ha avuto come conseguenza nessuna risoluta preoccupazione umanitaria. L’inquinamento non è cioè leggibile come uno stato di emergenza umanitario-morale. Certo in esso ricorrono delle condizioni che si trovano anche nella storia industriale europea, ma queste condizioni non sono state mai definite storicamente come una emergenza, che avrebbe implicato obblighi e doveri umanitari.
Si pensi ad esempio alla combinazione di smog e inusuali condizioni climatiche, che è costata la vita, nel dicembre del 1952, a migliaia di cittadini di Londra. Solo anni dopo il governo britannico si decise a prendere misure per migliorare la qualità dell’aria.
La pandemia odierna, al contrario, sembra ripercorrere le tracce di epidemie rimaste nella memoria culturale, e quindi diventa anche simbolo di un percorso storico, che non riusciamo a interrompere, segnato dal fallimento delle speranze di progresso, la cui paura pare esser sempre stata in sottofondo, insieme ad altre, nelle culture occidentali, sempre pronta perciò a risvegliarsi: insomma l’epidemia parrebbe confermare l’abderitismo nel senso di Kant, ossia la consapevolezza della fragilità e della caducità di tutti gli sforzi umani.
UMANITARISMO COME ORDINE DELLO SPAZIO
L'umanitarismo si trova non solo in un preciso ordine temporale che deriva da significati morali, ma anche in un ordine spaziale, nel momento in cui si espande in nuovi ambiti e genera nuove situazioni-tipo. La ‘distanza’ costituisce sin dall’inizio una categoria principale dei movimenti umanitari. L’umanitarismo ha a che fare, infatti, sempre con una ‘sofferenza a distanza’, souffrance à distance, per esprimerci col sociologo Luc Boltanski, cioè con il dovere di aiutare rispetto a dolori lontani, di cui prima si pensava che proprio la lontananza esimesse dal dovere di aiutare, perché coloro che soffrivano non avrebbero potuto essere raggiunti.
Ma da questo consegue: alcune distanze sono ancora pur sempre troppo grandi; in un punto qualsiasi bisogna pure porre un termine al dovere di portare soccorso, altrimenti l’umanitarismo non può sussistere. Così non c’è da meravigliarsi che nella pandemia la politica nazionale eserciti un comprensibile primato, sebbene per combattere il virus sarebbero (state) presumibilmente più sensate misure internazionali più fortemente coordinate; anzi: le chiusure dei confini, introdotte dappertutto in gran fretta (ma non per il traffico di merci), non sembrano avere una grande funzione epidemiologica.
La situazione umanitaria è da sempre anche nazionale, soprattutto in connessione con la salute pubblica. Non sorprende perciò che almeno dall’inizio della pandemia, in funzione della salute pubblica (nazionale), sono state continuamente ignorate le richieste d’aiuto del governo italiano, così come era accaduto prima, durante la perdurante crisi migratoria.
La categoria del ‘nazionale’ poggia forse persino in larga misura su una struttura umanitaria della regolazione di ‘vicinanza e distanza’ che si basa sullo spazio immediatamente percepibile. ‘Europa’ non significa nulla per l’umanitarismo, solidarietà europea vale poco più che una frase, in ogni caso non è un progetto umanitario. Per la teoria politica dell’unione europea, la pandemia è spiacevolmente illuminante: nonostante tutti i discorsi a tempo perso, l’Unione europea, chiaramente, non è un’ istanza dal potere morale uguale a quello della nazione.
IL PENSARE NON VOLUTO E NON DOVUTO
La logica dell’umanitarismo – logica nel senso dell’insieme di regole che prescrivono in quale sequenza si debbano legare le affermazioni l’una all’altra e quali conclusioni conseguano, in uno specifico contesto, da dati significati – non controlla solo l’attenzione selettiva su alcune situazioni-tipo della sofferenza, nelle quali dovrebbero essere creati ex novo degli spazi d’azione. La stessa logica proibisce anche determinate maniere di pensare, come ad esempio il soppesare una forma di sofferenza con un’altra. Così si crede subito inappropriato, nel mezzo di una pandemia, chiedere quali saranno le conseguenze economiche, sebbene immediatamente – per l’erosione delle basi della vita quotidiana,per le conseguenze sanitarie e le conseguenze al sistema sanitario, che si aggiungono in alcuni paesi ai danni inenarrabili compiuti nello scorso decennio dalle politiche di tagli al settore – l’emergenza economica che sta cominciando costerà comunque numerose vite umane. Costa vite umane, ovviamente, anche il normale funzionamento dell’economia (per lo sfruttamento, gli incidenti su luoghi di lavoro insicuri, i danni ecologici ecc.). In ogni caso questi danni sono stati spostati lontano dai centri principali del benessere, cosa che rende più difficile l’attenzione umanitaria.
I FALSI MEDICI ACCANTO AI VERI.
Un uso anomalo della ragione, nella gravità di una situazione umanitaria, non è né voluto né dovuto: consiste nel distogliere l’attenzione da quel che accade, un fatto talora irrilevante, ma nel peggiore dei casi pericoloso, nell’essere sempre vicini allo scivolare nella teoria del complotto, a giustificare il falso, all’avvocatura del diavolo, alla sovversione degli imperativi morali. Ma nulla di tutto ciò si può completamente impedire. La diagnosi del presente si accompagnano ai test virali, come si può osservare nelle numerose, spesso sbagliate, esternazioni di intellettuali pubblici. Così i falsi medici della critica sociale e della teoria culturale si presentano sempre accanto ai medici veri e propri, e non ci si può sbarazzare di loro.
La realtà della catastrofe si accompagna alla sua irrealtà, ai suoi aspetti che non riguardano i dati di fatto, ma la sua rappresentazione simbolica. La pandemia non può essere scissa dal suo significato come metafora per una catastrofe politica; e contemporaneamente offre occasione per vere catastrofi politiche, ad esempio se il parlamento ungherese è privato dei suoi poteri. Ma non ci si può girare dall’altra parte, rispetto al fatto che l’intreccio tra pandemia e il suo significato simbolico finisca con l’annullare la differenza tra ciò che è vero e ciò che non lo è. L’ autenticità di un’infezione bilaterale dei polmoni, per esempio, ha un peso enorme rispetto all’ inautenticità di una qualsiasi preoccupazione politica, come ad esempio chiedersi se ‘le misure’ della politica siano in generale ‘sensate’ e tutto quel che ne può conseguire. Nelle sale di terapia intensiva non ci si occupa certo di prevedere la ‘fine del capitalismo’, della cui imminenza alcune celebrità della scena intellettuale si mostrano convinti come in ogni altra occasione. Tuttavia la natura (virus, malattia morte) non si distingue mai nettamente dalla non-natura dei rapporti sociali, fatti da uomini. La terapia intensiva di cui disponiamo, è in fin dei conti un aspetto del sistema economico capitalista.
NATURA-CULTURA
Si sarebbe guadagnato qualcosa, se con Bruno Latour, Donna Haraway e molti altri si fosse postulata l’abolizione della distinzione tra ‘naturale’ e ‘culturale’ e si fosse inteso così porre fine a quel legame, che ha effetti infelici, tra ciò che è autentico e ciò che non lo è? Questo avrebbe in fin dei conti reso possibile integrare il virus nel processo del pensare, in un modo a cui ha recentemente alluso Slavoj Žižek, quando ha fatto riferimento alle idee di Tolstoj sulle opere d’arte come ‘infezioni’, i cui effetti si contagiano da una persona all’altra.
Tuttavia Žižek si rifiuta di attribuire al ‘puro parassita’ un livello pari a quello di un’opera d’arte. In effetti, il corso del virus nel mondo non dipende certo dal fatto che gli si attribuisca un ruolo attivo oppure no. La non-autenticità della teoria non riesce a inglobare l’autenticità dell’infezione virale, e questa è una debolezza che mina anche le idee di Tolstoj. Il potere terapeutico del più giusto dei pensieri è solo un’ulteriore finzione di sovranità, si potrebbe dire, come un gesto apotropaico, un incantesimo contro gli spiriti malvagi, per il quale sono ritenute tabù alcune parole ed espressioni (natura, cultura). Come abbiamo detto: falsi medici. L’ostinato persistere del virus nella sua identità, che fa copie di sé stesso attraverso noi, non reagisce a più ampi contesti concettuali.
RINUNCIA ALLA PROLESSI.
E se si potesse rinunciare alla figura della prolessi, alla previsione di una fine, per poter almeno abbandonare alcune sbagliate modalità del pensiero? Una tale rinuncia si potrebbe immaginare come una pura, rassegnata accettazione dei fatti: proprio come l’ ‘abderitismo’, nella definizione di Kant.
Quel che succede, succede. Nel XX secolo, il concetto kantiano contrario, ossia quello del progresso nella storia, si ridusse all’idea di un’ insalvabile, assurda rivolta contro l’inevitabile assurdità, descritta nel 1947 da Albert Camus proprio nel suo romanzo sull’epidemia, La peste. L’assurdità della decisione esistenzialistica si fonda sull’assurdità dei rapporti, ancora un’altra di quelle strane ridondanze, che abbiamo già visto evidenti nell’umanitarismo e nella politica. La logica dell’umanitarismo si lascia infatti compendiare anche sotto questa forma della rivolta assurda, così come è dettagliatamente presentata nel romanzo.
Resta dunque la scelta tra la febbre tragica abderitica, di cui parla Luciano, e l’assurdità abderitica di Kant, il cui rifiuto storico filosofico sembra essere possibile solo nell’atto assurdo-esistenzialistico di Camus. Non si deve perciò pensare che la storia apparentemente assurda del portato metaforico del nome della città di Abdera sia veramente assurda. Perché, anzi, sembra proprio indicare la mappa che orienta le possibili correnti di pensiero dei falsi medici della teoria critica. nel caso di una pandemia.
PANDEMIA, OVVERO: IL MEDICO MALATO
Il medico, che si ammala lui stesso, la cui autorità dunque è messa in discussione, le cui diagnosi sono incerte, i cui farmaci sono solo parzialmente efficaci e le cui visite sono addirittura forse pericolose per il rischio di infezione, è una delle immagini più inquietanti nella Genealogia della morale di Nietzsche. Nietzsche intende come falso medico il critico teorico, dunque sé stesso, e in fin dei conti intende così connotare l’inaffidabilità della ragione in sé e per sé.
La pandemia è una situazione di possibile malattia per tutti i medici. Davanti all’infezione siamo tutti uguali. Come si sa almeno dall’epidemia di Sars del 2002/2003, i medici potrebbero addirittura essere i più pericolosi ‘super-diffusori’ (superspreader) del virus. Forse il continuo ‘si, ma’ della teoria aiuta, nonostante tutto, a tenere un po’ a freno questa non-sovranità egualizzante, ubiquitaria, a non affidarsi troppo facilmente ai racconti eroici e alle azioni eroiche, a non considerare le norme morali come un farmaco universale e non disprezzare esageratamente pensieri inauditi, come il ‘calcolo’ dei ‘costi’. La fragilità e la vulnerabilità non solo del corpo, ma anche del pensiero, emerge nella situazione attuale con maggior chiarezza che altrimenti. Il pensiero diventa tanto più vulnerabile, quanto più si preoccupa di essere stringente. Sarebbe un obbligo ragionevole, indurci a riconoscere questo paradosso.
[1] Luogo fittivo, sede di racconti popolari molto diffusi in Germania, di cui erano protagonisti gli abitanti della città, specie di furfanti e di stupidi che litigavano tra loro. Nel quarto libro del romanzo satirico Storia degli Abderiti, pubblicato nel 1774 e poi in forma rielaborata nel 1781, Christoph Martin Wieland (1733-1813) offre la descrizione di un processo celebratosi nell'antica città greca di Abdera per l'ombra di un asino. Qualcosa che ha rischiato di scatenare la guerra civile in quella che fu la patria del filosofo Democrito e i cui abitanti avevano fama di sciocchi e/o creduloni.