La hybris di Prometeo e Serse
di Sotera Fornaro
UMANO e POST-UMANO.
La celebre asserzione di Protagora che ‘l’uomo è misura di tutte le cose’ (Platone, Teeteto 152a), esemplificata iconicamente nell’uomo di Vitruvio di Leonardo, esprime sinteticamente il principio basilare della visione umanistica della storia, ossia che la ragione umana domina e determina gli eventi umani e il loro progresso. Il modello umanistico tradizionale, che dà appunto all’uomo il ruolo predominante rispetto all’ambiente, alla natura, agli animali, alle cose, è stato determinante non solo per la concezione dell’individuo, ma anche delle culture e delle società. Ma dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale, la fiducia nella ragione umana e nella sua capacità di dominare razionalmente il mondo, nonché l’idea che il soggetto coincida con la sua coscienza razionale, alla quale si credeva subordinata l’emotività, è entrata radicalmente in crisi, sino al punto da essere decisamente messa in discussione o addirittura negata (antiumanesimo).
L’umanesimo tradizionale, dunque, parrebbe ormai insufficiente per comprendere e spiegare il ruolo dell’uomo nella storia e nel mondo: eppure quando cerchiamo non solo di definire cosa sia l’uomo, ma soprattutto cerchiamo di capire quel che si avvia ad essere, difficilmente riusciamo a liberarci dalla categoria dell’umano come espressione della centralità dell’essere umano, dei suoi bisogni, e delle sue esigenze, rispetto a tutti gli altri essere e ai problemi che attanagliano il mondo. Resta paradossalmente inevasa la questione essenziale: chi è l’uomo?
Inutile negare che l’umanesimo tradizionale pensa all’uomo solo in termini Europa-centrici e/o occidentali, e riconosce all’umanità colta, educata ai presunti valori dell’umanesimo antico, una posizione superiore rispetto al resto dell’umanità, anche in termini di responsabilità: questa concezione, palesemente razzista, finisce tra l’altro con lo scontrarsi con il tragico paradosso che ad essere ancora responsabile di oscene violazioni dell’umano, con la guerra, lo scempio della natura, lo sfruttamento economico, è proprio l’uomo così tradizionalmente inteso.
Nuovi scenari sono stati certamente aperti dai progressi della robotica e della cibernetica: perciò è stata da tempo già prodotta una categoria, quella del ‘post-umano’, che sta guadagnando posizioni anche nelle accademie e nelle università, che, come tutte le categorie, cerca di raccogliere elementi diversi e persino contrastanti. ‘Post-umano’ significa naturalmente che viene dopo l’umano, ma in che senso? L’industria robotica e dell’intelligenza artificiale immette sul mercato robot sociali, amici da tenere in casa, da lasciare come badanti dei nostri cari, dotati persino di nomi propri familiari o che sono divenuti familiari, tipo Alexa.
I meccanismi della cognizione umana sono ben lungi dall’essere completamente ricostruiti e i modelli di intelligenza artificiale si mostrano tutt’ora troppo semplici dal punto di vista comportamentale rispetto a quelli umani: tuttavia sono già abbastanza complessi per porre il problema dei modi con cui l’umanità si rapporta, si differenzia o addirittura si ibrida con la macchina. D’altro canto, la robotica apporta degli innegabili vantaggi alla condizione umana, ed anche alla sua sostanziale fragilità e vulnerabilità, basti solo pensare al campo medico. Dunque post-umano significa anche ciò che è meglio dell’umano, che rappresenta un ulteriore tassello nella perfettibilità umana, in fondo un superamento dell’umano teso a infrangere il limite contro cui l’uomo da sempre nulla può, come recita il primo stasimo dell’Antigone, ossia la morte.
Certamente la prospettiva di superare l’umano attraverso la creazione di un’altra umanità è già antica, contenuta nel mito di Prometeo che, nei secoli, è diventato personaggio simbolico della creatività umana e contemporaneamente della sfida nei confronti della divinità: un creatore indipendente dal dio e dalla Natura, cioè, già nella narrazione mitica, non è conciliabile con una divinità creatrice, anche se questa si identifica con la Natura, anzi ne diventa uno dei peggiori antagonisti. Proprio Prometeo diventa dunque l’archetipo della hybris, dell’arroganza contro la divinità, ma di un particolare tipo di hybris, ossia della superbia dell’ inventore che attraverso le sue opere dell’ingegno finisce con il mettere in discussione l’autorità degli dei, e perciò viene terribilmente punito, inchiodato a una roccia e condannato, in ogni singolo istante, a confrontarsi con il dolore della condizione umana (che in realtà è estranea a Prometeo, che è un Titano, dunque anch'egli una divinità).
I miti, come sappiamo, sono narrazioni che esprimono anche paure e angosce che risalgono ai primi stadi della storia e dell’evoluzione umana. Il mito di Prometeo esprime anche il terrore che la tecnica contenga in sé qualcosa di empio, la volontà e la forza di piegare la natura a fini utilitaristici, e quindi di trasgredirla. La paura della tecnica va di pari passo con il pessimismo storico, anch’esso già antico, che non riesce a vedere cioè nella storia alcun progresso, ma un’involuzione.
Già nel più antico testo della letteratura occidentale, l’ Iliade (VIII sec. a.C.), le generazioni passate sono viste come ‘migliori’, nel senso di più forti e più virtuose in guerra rispetto agli uomini del presente di cui racconta Omero: perciò gli eroi omerici hanno come imperativo morale, possiamo dire, essere sempre i ‘migliori’ e non venire meno alla gloria conquistata dai padri. Ma la prima immagine di un’età aurea perduta si ha in Esiodo, di circa un secolo posteriore ad Omero, nel poema intitolato Le opere e i giorni (vv.109-118): per quella stirpe d’oro la vita era in perfetta simbiosi con la Natura, non conoscevano vecchiaia, non conoscevano la necessità di coltivare la terra, la morte era come un abbandono al sonno profondo. Passato quel momento, la storia umana diventa una parabola discendente. Non è qui il caso di ricordare quanto abbiano influito sulle filosofie della storia occidentale, i discorsi che ipotizzavano uno ‘stato di natura’ o ancora una primigenia ‘età dell’oro’. Basti questo per dire che il sospetto nei confronti della tecnica e una visione regressiva della storia vanno di pari passo, e stanno sopiti, per così dire, pronti a risvegliarsi, anche nella cornice di una visione ‘post-umanistica’.
Così, sebbene consapevoli del possibile aiuto offerto dalla robotica, non riesce facile superare quella ‘valle perturbante’ che ci separa dal cyborg; e i meccanismi di identificazione, schedatura e controllo offerti dalla tecnologica ci appaiono non solo sempre più disumanizzanti, ma anche troppo invasivi della nostra vita, capaci di influenzare subdolamente la nostra capacità di giudizio. Insomma, la tecnologia, invece che apparirci mezzo di progresso, diventa uno spettro che possa, e voglia, in qualche maniera distruggerci, ed una porta spalancata verso le ambizioni totalitarie.
Un altro importante aspetto del ‘post-umano’ è la perdita di centralità dell’uomo rispetto all’ambiente, alle altre specie animali, ma anche alle cose. Sicuramente, l’uomo adesso non è più pensabile come una monade, ma solo come un elemento (tra altri) in una rete complessa di relazioni, in cui ogni elemento ha pari dignità degli altri, anche dal punto di vista morale, degli altri. E tuttavia questa linea di pensiero, che dovrebbe in fin dei conti portare ad un maggior rispetto della presenza di tutti gli altri elementi nel mondo, ed è alla base di ogni ecologismo, nasconde ataviche paure: specie animale tra altre specie, si scopre che l’uomo può essere contagiato dagli stessi virus degli animali. Pandemia diventa allora un concetto ancora più generalizzato di quel che etimologicamente vuol dire la parola greca.
Il terrore primitivo per una natura ostile, lo stesso terrore che secondo alcune teorie del XVIII secolo aveva dato origine alle grandi potenze mitologiche della teogonia greca, il terrore verso gli animali feroci, grandi o microscopici come i batteri o virus, questo terrore così ben depositato nell’archivio delle nostre emozioni, torna di nuovo ad animare i nostri sogni inquieti, e a farsi prepotentemente strada nell’immaginario. Accade sempre quando abbiamo a che fare con un ‘nemico’ che non conosciamo o che non si lascia far conoscere: in maniera evidente credo che sia accaduto l’ultima volta dopo l’11 settembre, ma adesso la pandemia in corso ha esasperato paure e timori di tal genere.
IL COVID 19 e LA HYBRIS.
Perciò cerchiamo, anche inconsapevolmente, l’origine del male che sta sconvolgendo le nostre vite proprio nella tecnologia, e crediamo volentieri che il Covid 19 sia nato in laboratorio, magari per gli esperimenti di uno scienziato alla ricerca di un’arma biologica, di sicuro intento a manipolare organismi genetici. Insomma, uno scienziato che diventa così in qualche maniera un erede di Prometeo e di altri personaggi tragici greci, la cui hybris, ‘arroganza’, nei confronti della natura, era punita dalla divinità.
Per dare un altro esempio, pensiamo ai Persiani di Eschilo, la più antica delle tragedie greche che ci sono giunte (472 a.C.), in cui Serse, il re dell’ immenso Impero persiano, paga il fio per aver voluto piegare la Natura ai suoi fini, costruendo un ponte di nave sull’Ellesponto, un’opera, cioè, di alta tecnologia, grazie alla quale aveva potuto trasportare un esercito immenso in Grecia.
Nell’interpretazione greca, questa sfida di Serse alla Natura era avvertita come follia: ad accusare Serse, nella tragedia di Eschilo, è addirittura il fantasma del padre, il grande Dario, che lamenta e piange l’audacia del figlio, il quale «sperò di incatenare, quasi fosse uno schiavo, il sacro Ellesponto, la bosfora corrente del dio, e trasformò il guado in terra e, avvintolo in martellati ceppi, larga via a largo esercito approntò, e lui mortale si illuse nella sua stolidità di dominare Poseidone e tutti i numi. Come non credere che un morbo della mente soggiogasse il figlio mio?» (vv. 744-751; traduzione di Franco Ferrari).
Nella tragedia eschilea la pena non è mai inferiore a tale colpa, ed è descritta a tinte fosche dalla stessa ombra di Dario: la guerra finirà male «e mucchi di cadaveri diranno, con muta testimonianza, agli occhi dei mortali fino alla terza generazione che creatura votata alla morte non deve pensare pensieri al di là della propria natura, perché Dismisura (hybris) se appieno fiorisce fruttifica in spiga di rovina, donde miete messe di pianto» (vv. 818-822). Ed infatti Zeus interviene e punisce terribilmente l’ambizioso Serse e tutta l’élite dei Persiani: la grande armata di Serse finisce, come sappiamo, rovinosamente distrutta, l’impero più grande del mondo allora conosciuto sconfitto da una coalizione di piccole città greche.
L’esempio di Serse è tanto più significativo, perché la sua hybris contro la Natura, e dunque la hybris tecnica, non è finalizzata all’utilità comune, ma alla sete di potere e di dominio: per noi vi è una profonda differenza etica tra chi pensa di poter varcare i limiti dell’umano per ampliare la conoscenza, e chi invece usa questa dismisura a fini politici e per ambizione personale. La punizione divina, tuttavia, nel mito greco, non risparmia né gli uni né gli altri, e l’uomo che si macchia di hybris, anche se inconsapevolmente, come Edipo, non è mai innocente. Il timore di una punizione divina, in realtà, per chi ‘ha osato troppo’, non necessariamente con intenti disdicevoli, aleggia ancor oggi, e soprattutto in questi giorni e nella giornata odierna, 22 Aprile, Earth day: quel che sta accadendo, anche ma non solo nelle parole del Papa, sembra una conseguenza dell’uomo che ha violato troppo a lungo e troppo consistentemente la Natura, e di una scienza che non si è voluta porre necessari limiti, che ha perso perciò il controllo, come in una fiction, di ciò che ha essa stessa creato. Ma è proprio così?
Abbiamo posto una domanda ad uno scienziato, perché ci risponda con un esempio.
Si possono davvero violare le leggi della Natura?
Virus da laboratorio e i sospetti contro la scienza. Il caso OGM.
di Antonio Carta
La scienza piega le leggi della natura. Su questa affermazione che vorrei proporre qualche semplice riflessione, da scienziato, e non filosofo né da umanista,
Tra tutti gli argomenti antiscientifici che da un po’ di anni si diffondono, in maniera “virale” oserei dire, quali quelli che demonizzano i vaccini, gli xenotrapianti, l’alimentazione bilanciata, ecc., vorrei affrontare quello degli Organismi geneticamente modificati (OGM) per scopo alimentare.
Prima di farlo, però, devo affermare un principio: noi non possiamo sovvertire le leggi della natura. Queste leggi condizionano ogni nostra azione, e noi le usiamo allo scopo di ottenere risultati prevedibili e, possibilmente, a noi utili. Quello degli OGM è un esempio calzante. L’opinione pubblica è, con la sola esclusione della maggioranza degli scienziati esperti nel settore, ferocemente contraria al loro studio, al loro sviluppo e, soprattutto, al loro utilizzo. Nell’opinione comune, infatti, gli OGM sono contronatura, sono il frutto di una manipolazione umana che ha come risultato la produzione di specie aberranti, capaci di sconvolgere il naturale equilibrio biologico del nostro pianeta. Ma si tratta, appunto, di opinioni, di quel che i Greci chiamavano doxai, opinioni consolidate e diffuse, qualche volta tradizionali, qualche altra volta rafforzate dalla religione, difficili da confutare, ma lontane dall’ aletheia, dalla ‘verità’, che è invece lo scopo della scienza come della filosofia. Le doxai, perciò, devono essere confutate.
Partiamo dalla seconda affermazione: gli OGM sono specie aberranti, cioè specie che la natura non genererebbe mai spontaneamente proprio perché sconvolgerebbero l’equilibrio che si è instaurato nel corso degli eoni. Ma da dove nasce una così perentoria sicurezza? Niente di ciò che conosciamo supporta questa credenza, anzi è vero il contrario. Nella storia della Terra “la natura” ha sviluppato più e più volte, differenti specie che hanno sconvolto, e spesso rimodellato, l’intero pianeta. A partire dai primi microorganismi produttori di ossigeno (cianobatteri) che ai primordi della vita hanno avvelenato il pianeta uccidendo le specie che non sono riuscite a adattarsi alla loro presenza. Per non parlare del numero infinito di specie che si sono estinte a causa delle mutate condizioni ambientali, comprese, molto probabilmente, la comparsa di nuovi microorganismi per loro patogeni. Ma noi stessi esistiamo grazie a una grande catastrofe. Se un enorme asteroide non avesse prodotto l’estinzione dei dinosauri i mammiferi non si sarebbero evoluti, allora erano dei piccoli animali simili a topolini, e conseguentemente neanche i primati, di cui noi facciamo parte. Come ci ha ben spiegato Jacques Monod nel suo Il caso e la necessità (1970). Solo questi due fattori determinano lo sviluppo della vita e proprio in questo ordine. Come d'altronde diceva Democrito: Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità. Quindi noi esseri viventi, come singoli individui e conseguentemente come specie, reagiamo al caso adattandoci a esso e, se possibile, adattando l’ambiente alle nostre necessità. Il risultato è l’equilibrio metastabile che ci circonda. Metastabile appunto, basta poco per alterarlo. Perciò dimentichiamo l’idea che ciò che cerchiamo di fare per adattarci alle necessità che mutano col tempo sia innaturale, l’intera natura si comporta allo stesso modo. Naturalmente ciò non significa che ogni nostra azione volta a modificare l’ambiente che ci circonda abbia un effetto positivo sull’ecosistema in cui viviamo, tutt’altro. Dobbiamo valutare gli effetti delle nostre azioni, ma non dobbiamo partire dall’asserzione ideologica che modificare l’ambiente che ci circonda sia di per sé un male in assoluto.
Se poi analizziamo l’altra opinione che condanna gli OGM in quanto frutto di una manipolazione umana che, modificando il genoma di specie “naturali”, non ci dà garanzie sulla sicurezza degli alimenti così prodotti, non abbiamo remore ad affermare che si tratta di un’opinione ipocrita. Intanto non è assolutamente vero che sono solo gli OGM che derivano da una manipolazione genetica: lo sono quasi tutti gli alimenti che quotidianamente mangiamo, come hanno ben documentato Dario Bressanini e Beatrice Mautino nel loro Contro natura. Dagli OGM al «bio», falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola (2015).
Di fatto, non esiste cibo che non sia stato geneticamente modificato in passato. Esempi? Un’infinità. Iniziamo dal grano. Le varietà di grano che noi oggi coltiviamo, e quindi mangiamo, sono frutto di numerosi incroci e selezione dei risultati migliori, dal nostro punto di vista. Compresa l’altezza delle spighe in modo da facilitarne il raccolto. Non solo per produzione di nuove specie per ibridazione di alcune selvatiche, ma anche per irradiazione artificiale. Da qui la fake new di alcuni anni fa che affermava che il nostro grano duro è radioattivo, cosa che dimostra che i divulgatori, nonché coloro che ci hanno creduto, non avevano la minima conoscenza di fisica e biologia. Un altro esempio? Le carote. Pensate a questo alimento e al suo bel color carota. Sapete che non è il suo colore originale? Il colore della specie selvatica è intermedio tra il porpora e il viola, e neanche il sapore è paragonabile. Anche l’innocua carota, dunque, è frutto di incroci vari. Potremmo continuare all’infinito e non solo per i vegetali ma anche per gli animali. Magari non tutti siamo a conoscenza degli incroci che hanno portato alle moderne mucche da latte o ai maiali, ma tutti conosciamo la storia del cane e delle sue numerose razze, anche se un lupo certo non lo riconoscerebbe mai come suo discendente.
A questo punto si potrebbe dire che in ogni caso incroci e selezione, anche se artificiali, non differiscono molto dai meccanismi naturali, mentre gli OGM sono frutto dell’ingegneria genetica. Vero, ma qual è la differenza? Il risultato è sempre lo stesso. Una diversa combinazione delle quattro basi nucleari, A, C, T, G, che producono differenti proteine. La vera differenza è nel metodo. Con la selezione per incrocio occorrono numerose generazioni e grandi sforzi prima di ottenere il prodotto desiderato, con l’utilizzo del DNA ricombinante si ottengono risultati più velocemente. Questo perché si inserisce una sequenza del DNA prescelta e non si aspetta di ottenerla per caso. Il paradosso è che in Europa, quindi anche in Italia, quello che si vieta è il metodo non il risultato.
Mi spiego meglio. È vietato produrre e commercializzare nuove specie vegetali ottenute grazie alle tecniche genetiche ma non quelle ottenute per ibridazione di altre specie, indipendentemente dal risultato. Quindi non si bada al fatto se una specie sia utile o potenzialmente pericolosa, ma solo alla procedura con cui la si è ottenuta. Paradossalmente, infatti, noi importiamo dall’estero, attraverso l’acquisto di alimenti, grandi quantità di mais transgenico, che da tanti anni mangiamo tranquillamente, senza però poterlo produrre. Pensate il grande dispiacere della Monsanto! Pensiamo a quanto cibo potremmo produrre in futuro se riuscissimo a progettare e ottenere delle piante in grado di vivere in climi aridi, o comunque difficili per le attuali specie commestibili.
Quindi in definitiva, non è venuto il momento di diventare antifragili? Il Covid19 non ci ha insegnato a prendere in mano il nostro destino e, anziché fare dei generici richiami a una natura perduta, deciderci a vederla per quello che è: il caso e la necessità? La nostra necessità è quella di studiarla a fondo e, per esempio, imparare a sconfiggere i virus così come abbiamo fatto per un altro terribile agente patogeno: il vaiolo. Qualcuno forse ne sente la mancanza?
Antonio Carta è professore di Chimica Farmaceutica e Direttore della Scuola di Specializzazione in Farmacia ospedaliera dell’Università di Sassari, specialista, tra l’altro, di farmaci anti-virali. Oltre alla sua attività scientifica di riconosciuto livello internazionale è scrittore di thriller a fondo scientifico. Il suo ultimo romanzo Il riverbero della setta oscura parla di un complotto internazionale che coinvolge uno scienziato, il professor Piras, ed ha inquietanti tratti di attualità.