Il primo stasimo dell’Antigone di Sofocle è uno dei passi più celebri della letteratura occidentale e un campo secolare di esercizio del pensiero.
In questi giorni bui di pandemia, i versi di questo canto corale, della cui musica siamo purtroppo privi, battono il ritmo delle ore, dei giorni, del tempo.
Nulla di più terribile, meraviglioso, inquietante dell’uomo, canta il coro nel primo stasimo dell’ Antigone; l’uomo che ara la terra, l’uomo che aggioga i cavalli e i tori, cattura le fiere, nell’aria imprigiona il volo degli uccelli, nel mare, invece, il guizzare dei pesci. L’uomo che ha imparato a parlare, ad usare il pensiero veloce come vento, a desiderare una città. L’uomo che si è costruito un riparo per sfuggire il freddo, l’uomo che ha ogni risorsa e il futuro affronta armato di tutto ciò di cui dispone; l’uomo che pur avendo saputo trovare vie di scampo a malattie senza rimedio, solo la morte non può fuggire. Quello stesso uomo che, se aspira a ‘ciò che non è bello’, si priva della vita comune, nella città.
Proprio la polis, la città, si pone al culmine del canto corale: come se tutto l’agire e il pensiero umano abbia una scopo soltanto, il saper vivere insieme. Il rispetto delle leggi e la giustizia sancita dal giuramento divino, sono la condizione del vivere bene politicamente; l’uomo che creda di ignorare questi due elementi di stabilità della città, resta apolide, non può condividere né la casa, né il pensiero del coro che canta, costituito dai vecchi della città di Tebe.
La città, dunque, il bene comune, non può essere superato, ignorato o scempiato dall’ambizione di potere individuale, ma nemmeno dal troppo osare di uno solo che voglia porsi al di sopra delle leggi e della giustizia. La città non è solo un concetto, ma è anche un luogo: un luogo di riunione, di comunità, di riconoscimento, di contatto fisico, che deve essere perciò continuamente epurato da ogni violenza.
Canto che inneggia alla potenza dell’uomo, il primo stasimo dell’ Antigone ne segna però anche i limiti. Ricorda infatti cupamente ciò che l’uomo non potrà mai vincere: la morte; e lamenta ciò che resta indelebile nel cuore umano, quel nocciolo di male, distruttivo di ogni stare insieme, il male dettato dal voler troppo, dal troppo osare, dal voler superare i limiti stessi dell’umano. ‘Ciò che non è bello’ per i Greci significa, come sappiamo, che non è buono.
In una tragedia duale, ambigua, il primo stasimo annuncia proprio tale ambiguità: lo stesso canto può essere cioè inteso come un’esaltazione delle meraviglie della mente e dell’azione umana, o al contrario come una disincantata denuncia di quel che sempre sfuggirà al dominio dell’uomo, ossia la morte e il male. Lo stasimo pone cioè insuperate questioni: come conoscere davvero le conseguenze di quel che facciamo? Come non dubitare che il dominio della Natura sia un atto di hybris, di arroganza? Come non pensare che il vivere comune non ci basti, e che l’egoismo abbia la sempre la meglio, che l’interesse individuale sopravanzi – persino inconsapevolmente o addirittura con l’idea di agire bene – l’interesse di tutti? Chi detiene la posizione più alta nella città può degradarsi nella condizione di chi non ha città? Cosa determina lo stato di emarginazione, isolamento, esilio dalla comunità politica?
Traducendo da una edizione del ‘500 che aveva la punteggiatura sbagliata, Friedrich Hölderlin (1770-1843), quasi ormai sull’orlo della pazzia, tradusse così alcuni versi del primo stasimo: l’uomo «esperto in tutto,/inesperto. Non arriva a nulla./Non sa sfuggire il luogo futuro dei morti,/né sa escogitare come fuggire da morbi senza speranza». E ancora: «Alto nella città, senza la città/ a nulla arriva, quando il bello è con lui e con l’insolenza». Il testo greco dice il contrario. Ecco le stesse parole, tradotte con la punteggiatura giusta dei versi, nella traduzione di Luigi Belloni: «[l’uomo apprese] a fuggire i dardi del gelo, inospitali all’aria aperta, ricco di risorse. Privo di risorse, nulla affronta del futuro; soltanto Ade non gli riuscirà di fuggire, ma ha saputo trovare vie di scampo a malattie senza rimedio». «Se insieme rispetta le leggi della terra e la giustizia giurata sugli dei, ha un alto onore nella città; senza città è colui che per orgoglio frequenta il male» (vv. 355-363; 367-371).
Per lo spostamento di un solo punto, il geniale traduttore trasformò quello che è conosciuto anche come ‘inno all’uomo’ nella più definitiva e inappellabile presa di coscienza che l’uomo non approda a nulla. L’inno al progresso si trasformava così, nella versione di Hölderlin, in inappellabile nichilismo.
Ma forse l’errore di traduzione di Hölderlin coglieva almeno in parte le intenzioni del poeta antico, ossia esprimere con il canto corale non la fiducia nell’uomo, ma la paura dell’uomo, sia in senso oggettivo che soggettivo. Un canto che esprime dunque l’ambiguità di ogni azione e pensiero umano, sospeso tra il bene e il male, tra il potere e il volere troppo, tra l’egoismo e la necessità del vivere insieme. E che perciò si apre con un gioco di parole sull’aggettivo deinos, che vuol dire sia mostruoso, inquietante, pauroso che meraviglioso, stupefacente, sorprendente.
Di quel canto corale, un frammento significativo giunge, in forma paratestuale, nell’ultima raccolta di Marion Poschmann (https://it.wikipedia.org/wiki/Marion_Poschmann), in una poesia la cui traduzione inedita Paola Del Zoppo ha voluto regalare a ‘Visioni del tragico’ con una sua breve, ma densa, interpretazione. (Sotera Fornaro)
Vielgestaltig ist das Ungeheure,
und nichts ist ungeheurer als der Mensch.
Sophokles, Antigone
(Tante forme ha il mostruoso,
e niente è più mostruoso dell’uomo.)
Sofocle, Antigone
E tenevo la neve nelle mani calde
Appena ieri indugiavo tra montagne coperte
di neve. Ora sono spianate, sciolte, pulite
proprio come si sbrina un frigorifero. Ho visto
l’acqua scorrere, ho visto il ghiaccio
staccarsi dalle pareti, cadere tutto
a valle e farsi liquido, farsi valle
e farsi nulla.
Appena ieri adoravo le montagne.
Ho comprato cartoline, spedite a me stessa
per ricordo della distruzione che compivo,
col mio sguardo scaldavo la Groenlandia
scioglievo i ghiacciai, proprio mentre
li scorrevo con la mente. Il desiderio non è
qualcosa di impossibile, si dice, e se si vuole
si può - rendere l’aria sottile ancora adatta,
obbligare il mostruoso a farsi ancora
più mostruoso, più leggero, come se
dormissimo nella nostra poltrona
immersi nel sogno di un lungo volo.
Und hegte Schnee in meinen warmen Händen
Noch gestern hielt ich mich in tiefverschneiten
Bergen auf. Jetzt sind sie eingeebnet,
aufgelöst, ganz schlicht, so wie man einen
Kühlschrank abtaut. Ich sah Wasser rinnen,
sah das Eis in Brocken von den Wänden
brechen, alles fiel zu Tal und wurde
flüssig, wurde Tal und wurde nichts.
Noch gestern betete ich Berge an.
Ich kaufte Ansichtskarten, schickte sie
an mich, nach Hause, zur Erinnerung
an das Zerstörungswerk, das ich hier tat,
ich taute Grönland auf mit meinem Blick,
ich schmolz die Gletscher, während ich sie voll
der Andacht überflog. Dem Wunsch ist nichts
unmöglich, heißt es doch, und wo ein Wille
ist, da ist ein Weg, die dünne Luft noch
dienstbar sich zu machen, das Ungeheure,
Ungeheuerlichste zu bezwingen,
ganz leicht, als schliefe man in seinem Sessel
und träumte nur von einem langen Flug.
Commento
di Paola del Zoppo
Nel percorso lirico e narrativo di Marion Poschmann il mito classico e la sua influenza nella costruzione dell’immaginario filosofico e della memoria culturale è presente fin dal principio, tanto che in una lectio magistralis da poco composta, Animale araldico: Medusa, la poetessa compie un lucido, rigoroso e insieme appassionato percorso illustrando perché si può affermare che l’animale simbolo della sua scrittura sia la Medusa e che connessione c’è tra la Gorgone, le forme naturali e le forme artificiali e artistiche che riproducono la struttura tentacolare (il saggio è stato composto per il conferimento del premio internazionale IL CEPPO Pistoia, ed è accessibile qui).
La compatta e profondissima poetologia di Poschmann si compone di numerose, ma ben riconoscibili isotopie, di cui certamente una linea portante è il rapporto tra l’uomo e la “natura”: la relazione tra ciò che è considerato “naturale” e ciò che invece è considerato, per riflessione o convenzione, “manipolato dall’uomo”. È evidente che la distinzione è legata alla percezione della realtà in un patto sociale, e che il livello del giudizio sulla modificazione della natura e sulla possibilità di azione della specie umana su ciò che non è considerato umano variano anche in base alla formazione dell’immaginario, che agisce sulla Einbildungskraft collettiva.
Immaginare scenari è tra l’altro una delle missioni che si è data la “poetica dell’antropocene”, nel tentativo di comunicare letterariamente la necessità di prendere posizione rispetto alla presenza dell’uomo nel sistema ed è il focus su cui la letteratura, in questo tempo buio, si sta concentrando rivendicando un ruolo nello sviluppo delle filosofie politiche.
Ecco allora che la citazione di Antigone in apertura dell’ultima raccolta di Marion Poschmann, Nimbus (Suhrkamp, 2020) ci appare illuminante.
Poschmann qui ricorre alla classicità assegnando alla tragedia sofoclea lo spazio dell’esergo della prima poesia della raccolta, un minuscolo spazio paratestuale di enorme peso, perché in un gioco di sotto-titolazione della sezione, offre una chiave di lettura, per la prima poesia, per la sezione intera e, per trasposizione, nella circolarità della struttura compositiva del volume, della raccolta intera.
Si tratta, come sempre in Poschmann, di movimenti compositivi molto elaborati, riverbero di richiami intertestuali ricchissimi, di cui Poschmann sceglie ogni volta cosa comunicare in superficie e cosa solo in profondità. La circolarità e il risuonare di Antigone e della tragedia dell’inconciliabilità dei diritti, in questa sezione, è per esempio fortemente richiamata nell’uso ridondante della figura della tigre, che, nella connessione con la tematica della memoria riporta immediatamente alla mente Walter Benjamin, che nella sua tesi XIV diceva: “La moda ha il senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato. Essa è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante” (una tesi peraltro riecheggiata anche nell’Antigone brechtiana). E l’immagine della tigre chiude la sezione aperta dai versi sofoclei, rivelando una personificazione dell’indefinibile, che si identifica con una voce femminile: “Cavalcare la tigre. Le sue strisce mi scivolano sulla gamba come sangue mestruale. Il mio talento era l’ingegno, era il furore.” (Den Tiger reiten. Seine Streifen gleiten an meinem Bein hinab wie Monatsblut. Und ich war mit Brillanz begabt, mit Wut.)
La poesia Und hegte Schnee in meinen warmen Händen, a cui è preposto il richiamo sofocleo, si legge quindi come ciò che un personaggio declama dopo il coro. Nello spazio di un solo componimento, in cui l’io lirico è soggetto e oggetto della scrittura – e in cui troviamo anche un “atto di scrittura della memoria” nelle cartoline che la voce spedisce a se stessa, Poschmann inquadra la complessità del rapporto tra uomo e natura in una serie di movimenti poetici, che formano binomi come “distruzione e storia personale”, “distruzione e amore”, “distruzione e spiritualità”, “distruzione e tensione del desiderio”, per poi procedere per paradosso alla descrizione della vittoria del pensiero annichilente su quello creativo.
Siamo quindi proprio in una riscrittura, una Erläuterung di un unico verso della tragedia sofoclea: i versi della poesia “spiegano”, parodizzano, ri-cantano la mostruosità dell’uomo, a partire dal titolo: la voce lirica “tiene” tra le mani calde la neve, che si scioglie, in un’immagine che ricalca una delle raffigurazioni più diffuse del personaggio Antigone, intenta a far scivolare tra le dita la polvere sul corpo di Polinice (scorrere, rinnen, anche nel testo di Poschmann). E nel rapporto intertestuale, che alla traduzione peraltro si apre subito come problema molteplice, la resa lirica del problema filosofico e antropologico scontorna la questione centrale: la natura dell’uomo.
Poschmann cita infatti una versione in tedesco che si richiama alla traduzione di Friedrich Hölderlin, in cui, nella traduzione del celebre primo stasimo dell’ Antigone, il greco ta deinà (v. 332) è reso con Ungeheuer (per cui qui si è scelto di tenere il tedesco e duplicare l’esergo con una versione interlineare dal tedesco.) Ta deinà è un concetto complesso, e come tale vede molte possibili traduzioni: meraviglioso, tremendo, terribile. Deinos è un termine speculare al latino monstrum, dunque ha a che fare con tutto ciò che è incredibile a vedersi, per questo è in un altro piano percettivo, è meraviglioso, ma è sempre anche un monito e porta l’attenzione su ciò che potrebbe accadere se i piani dell’esistenza e delle idee collidessero.
Quindi nel ta deinà è contenuta anche una definizione della poesia, della capacità creativa umana, di meraviglia, ma anche foriera di “distruzione”, come decostruzione e come annientamento (e non a caso in una traduzione antecedente Hölderlin aveva reso il termine con gewaltig, ‘violento’). Il processo riguarda uno dei punti cardine della poetica di Poschmann, e cioè innanzitutto la Einbildungskraft, la ‘capacità immaginativa’, perché solo sulla distruzione o sulla profonda revisione della capacità immaginativa, di una ridefinizione degli spazi ontologici, si può ricreare e ricostruire il senso.
La riscrittura/parodia e quindi critica poetica, ovviamente contiene anche il richiamo alla tragedia antigoniana tutta, e sta nell’affermare tramite un rigoroso gioco di opposizioni irriducibili l’insondabilità dell’umano e la multivocità del mostruoso. Senza vacillare Poschmann mette in relazione gioia, appagamento e desiderio umani. Il restringimento della visuale e l’abbassamento delle possibilità di comprendere dato dalla riduzione costante e continua delle discorsività (qui ritratto in “volere è potere”: il dominio del luogo comune – l’opposto della poesia) non sono altro che stratagemmi, non si avvicinano alla verità della meraviglia mostruosa.
La scrittura di Poschmann in questo momento storico così difficile da comprendere, pare lanciare con chiarezza alcune invocazioni. La prima è una tensione costante all’utopia, per quanto oscura e difficile possa sembrare. Ma più forte di tutte appare l’invocazione alla poesia. Non è forse data, ormai, la possibilità di congiungere le opposizioni, di conferire nuovamente respirabilità a un’aria non respirabile, ma ancora ci è data la dimensione del sogno, e il sogno è materia del poeta: quello che manca, quello che serve, quello che deve fare una nuova poesia, è il riconoscimento della multiformità della meraviglia umana “compresa” degli elementi naturali, affinché ciò che finora è stato distrutto possa vedere una ri-creazione, a partire innanzitutto dalla riscrittura del nostro immaginario, e quindi dello spazio della memoria culturale. Compito della letteratura è una memoria che non sia una scrittura a se stessi, ma una scrittura sempre anche rivolta all’altro.
Paola Del Zoppo, attualmente Ricercatrice di Letteratura tedesca all'Università della Tuscia e docente a contratto di Cultura tedesca per la LUMSA, Roma, traduce letteratura e poesia contemporanee dal tedesco e dall'inglese per diverse case editrici. Dirige le pubblicazioni di Del Vecchio editore e collabora alla collana di poesia di Elliot editore. Ha avviato con Le Lettere la collana 'Gli specchi di Antigone: scrittrici e engagement nella letteratura tedesca'. http://unitus-public.gomp.it/Docenti/Render.aspx?UID=08e7b798-0351-40e2-9328-c6dd395eebcd
La seconda immagine è di Remo Rachini http://www.remorachini.it/