I primi versi dell’Agamennone eschileo propongono un impietoso ritratto di un’innominabile
donna dai numerosi compagni
strumento della punizione di Zeus che la usa, attraverso le Erinni,
per arrecare ai Danai e ai Troiani molti combattimenti
che gravano le membra, quando il ginocchio
si piega nella polvere e la lancia si spezza
nei preludi della battaglia. (Agam. vv. 61-67)
La donna senza nome è però subito riconoscibile: si tratta di Elena, colei che
osò l’inosabile,
lasciando ai concittadini fragore di scudi e di lance
e armamenti navali,
e recando a Ilio lo sterminio in luogo di dote,
velocemente fuggendo via dalle porte (Agam. vv. 403-408),
di nascosto, come chi sa di essere colpevole. Perché per Eschilo, le colpe più grandi sono di Elena, e perciò diventa persino brutale contro di lei. Eschilo la nomina esplicitamente solo per dire che il suo stesso nome è symbolon di sciagura e distruzione, è un vero e proprio omen:
Chi dava mai un nome così assolutamente esatto
-non forse uno che noi non vediamo
il quale per preveggenza del fato regola con esattezza la lingua?-
ad Elena, sposa per la guerra e oggetto di contesa?
Perché chiaramente come
distruggi-navi
distruggi-uomini
distruggi-città
lasciò molli preziose cortine navigando al
soffio di Zefiro gagliardo
e folte schiere di cacciatori armati di scudi sulla traccia invisibile
dei remi approdarono alle rive dello
Scamandro frondose per
una sanguinosa contesa. (Agam. 681-698)
Come nota Nicole Loraux, l’etimologia è falsa e il tragediografo sta qui solo ‘cratileggiando’ prima di Cratilo, per dimostrare che il personaggio possiede la natura del nome, la cui radice forte è in quel verbo terribile: helein=rapire, sottrarre, distruggere[1]. Ecco Elena trasformata di nuovo nella protagonista di nozze funeste (Agam. v. 712) che, insieme a Paride, è solo causa di distruzioni e pianto (Agam. v. 716; 1156-7).
Eschilo non esita ad assimilare la vicenda di Elena, donna mortifera, a quella della sorella Clitemnestra, l’omicida che prende in una rete sanguinaria il marito appena tornato dalla guerra: donne di caratteri uguali (isopsychon, Agam. v. 1470). Eppure solo lei, la sorella assassina, riesce ad avere una (fugace) parola di commiserazione nei confronti di Elena.
Al Coro che definisce Elena una pazza (paranous, Agam. v. 1455) che
da sola le numerose, tanto numerose vite
ha distrutto sotto Troia,
la folle che ora ha avuto
una perfetta, memorabile corona,
fatta di sangue che non può lavarsi,
sciagura dell’uomo (Agam. Vv. 1456-1461),
Clitemnestra risponde disperata invocando pietà per la sorella e, implicitamente, per sé stessa:
Non augurarti alcun destino di
morte e non volgere il
tuo rancore contro Elena come
distruggitrice di uomini,
come se lei sola,
distruggendo la vita di molti Danai,
avesse causato un insanabile dolore. (Agam. vv. 1462-1467)
No, Eschilo non poteva non assumere questo atteggiamento severo, di durissima condanna nei confronti di Elena, colei che ha osato infrangere le regole dell’assoluta potestà maritale.
Ben diverso nella forma e meno nella sostanza è il comportamento di Euripide che assume Elena come eroina al negativo di tutto ciò che egli condanna: la guerra, la violenza, l’eccesso, la philoploutia che spinge gli uomini a superare i limiti di Dike.
Elena diventa una dark lady della hybris, se è vero che proprio la metriotes, la ‘moderazione’, viene invocata come possibile dimensione dell’amore giusto: nell’Ifigenia in Aulide (vv. 543-544) Euripide definisce beati
coloro che hanno parte alle unioni di Afrodite,
quando la dea è misurata.
Le donne euripidee sono tutte protagoniste della loro vita, ma nessuna di loro ha vita facile, non in quanto persona (definizione impensabile per una donna greca), ma in quanto donna: Alcesti, fiera e più coraggiosa di Admeto, muore tristemente. Fedra è vittima al contempo della misoginia di Ippolito che si specchia nella pochezza di una vecchia nutrice pettegola; Medea, la grande barbara, riprende nelle sue mani i fili di una vita sconvolta dall’egoismo di Giasone, ma a prezzo della vita dei figli. Elena, la sola, deine Elena riesce a ‘scampare’ alla morte e, per una beffarda ironia del destino, grazie all’amore disperato del marito Menelao, pronto a tutto, pronto all’impensabile pur di averla.
In Euripide, insomma, Eros ritorna ad essere protagonista della vicenda umana di una donna e di un uomo, quello stesso Eros che negli stessi anni Gorgia invocava come una delle possibili ragioni del comportamento di Elena.
Elena attraversa molte tragedie euripidee (Andromaca, Ecuba, Oreste, Ifigenia in Aulide, Ciclope), anche se è protagonista a pieno titolo dell’Elena e delle Troiane, sulla scia del tema caro a Saffo dell’adikia, dell’ingiustizia amorosa (fr. 16 Voigt) che può stravolgere fino alla pazzia la vita di chiunque e, soprattutto, quella di una fragile donna.
Con Euripide il teatro per la prima volta osa farsi beffe di Elena, fino a questo momento rimasta tanto deine da essere intoccabile nella sua tragica grandezza. Nel Ciclope il Coro le riserva una parodia volgare:
Dunque, quando avete acciuffato la giovanotta
ve la siete trapanata a turno, spero,
la traditrice che alla vista di un paio di braghe variopinte e di un collare d’oro
sbigottì d’amore abbandonando Menelao, ometto dabbene.
Donne, razza infame … (Cycl. vv. 179-187)
Ritorna l’amore, ma non nei termini positivi di Saffo o di Gorgia, bensì come ragione di pazzia ‘femminile’ tarata sul sesso e sull’avidità: è una prova a carico, non a discolpa.
Nell’Ecuba il giudizio nei confronti di Elena è senza appello: è bella, bellissima, anzi troppo bella per meritare ancora la vita. Lei, straordinaria proprio per la bellezza (kallei…hyper/pheraousan, Ecuba, 267), deve essere sacrificata al posto dell’innocente, giovane Polissena, anche perché la bellezza fisica non è un valore per una moglie, come dichiara Andromaca:
Non con la bellezza, ma con le virtù si conquistano i mariti. (Androm. 207-208).
No, Ecuba non approva nulla del comportamento di Elena che si atteggia come una sfrontata: anche il motivo dello sguardo amoroso, tanto caro a Saffo (fr. 23.3 Voigt), diventa ragione di accusa:
Di norma le donne non guardano in faccia gli uomini. (Ecub. 974)
Naturalmente non sorprende questo tipo di condanna in un secolo nel quale la separatezza fra uomo e donna era stata codificata nella regola aurea del silenzio proclamata pubblicamente da Pericle:
Alle donne si addice il silenzio[2].
Euripide diventa crudele nelle Troiane dove l’intera rhesis di Ecuba è una condanna senza appello di Elena, la quale non ha nessuna scusante, neppure quella della superiorità alla forza divina di Afrodite: il suo comportamento è stato dettato solo dal desiderio di ricchezza e lussuria.
Ancora una volta Menelao è pronto al perdono, felice com’è di averla finalmente ritrovata:
Giorno radioso, finalmente mi vedi
prendere con le mie mani Elena mia sposa.
Eccomi qui dopo tante fatiche io
Menelao e con me è l’esercito acheo.
Io non venni a Troia per amore di una donna,
come credono tutti,
ma contro l’uomo che la rapì dalle mie case:
perfido inganno.
Egli ha certo visto come gli dei fanno giustizia:
la sua patria è orribilmente scomparsa. Ora
vengo a tirar fuori la sciagurata che un giorno fu mia.
… Posso ucciderla o ricondurla in Argo:
questo arbitrio mi lasciano i guerrieri che
duramente han sofferto per conquistarla.
Ma non voglio la sua morte qui a Troia.
Dovrà giungere prima in Ellade e là
morire a vendetta di quanti
han perduto i loro cari a Ilio.
Portatela fuori di peso, trascinatela
per la chioma lorda di sangue:
la condurremo in Ellade al primo soffio di vento propizio. (Tro. 860-883)
Ma Ecuba non si fida, non si fida né della debolezza di Menelao né, tanto meno, delle arti di seduzione di Elena capace sfrontatamente di guardare un uomo negli occhi, là dove ‘siede’ il potere di Eros:
Ti lodo se uccidi la tua sposa, Menelao.
ma fuggine lo sguardo, affinché non ti afferri (helei) con
il desiderio:
ella prende la vista dei maschi,
distrugge città,
incendia le case, lo sappiamo. (Tro. 890-894)
Sono qui più che mai palesi gli echi eschilei che appaiono ancor più evidenti nel gioco di assonanze, già usato nell’Agamennone, fra Helene ed helein.
La scena si fa surreale quando entra in campo Elena che con tono incredibilmente ‘innocente’ proclama:
Menelao, tu sembri nato apposta per farmi paura.
I tuoi servi mi han portato di forza fuori della tenda.
So, credo di sapere che tu mi odi
e tuttavia vorrei conoscere da te quale
decisione avete preso sulla mia vita,
tu e i Greci. (Tro. 890-900)
A questo punto viene introdotto proprio da Menelao un tema caro alla letteratura amorosa da Saffo in poi, quello dell’adikia: egli, infatti, dichiara di aver diritto alla vendetta perché ha subito un’adikia, un’ingiustizia, mentre, dall’altra parte, Elena, come il più raffinato dei sofisti, capovolge la tesi chiedendo di poter dimostrare grazie al logos di essere lei la vittima di un’adikia. Ma Menelao non è abbastanza raffinato da poter affrontare giochi di logoi, così che sulla scena si ritrovano due donne a dover fare i conti con gli enantioi logoi: Elena ed Ecuba, certa quest’ultima che nessun logos potrà cancellare i fatti.
L’argomentazione di Elena è fredda e serrata, degna di Gorgia: le colpe sono di Ecuba che ha generato Paride, poi ancora di Afrodite che accompagnava Paride, della bellezza che aveva scatenato un desiderio invincibile e infine di Menelao che l’aveva incautamente lasciata sola in casa in balia di uno straniero. L’unica incolpevole vittima è, dunque, lei, Elena.
Menelao viene affrontato con violenza da Elena che inizia il suo discorso accusandolo mentre con grande coraggio e lucidità esporre chiaramente le proprie idee:
So indovinare le tue accuse mute e le confronterò con le mie, aperte.
Per prima cosa, costei <Ecuba> generando Paride, generò il principio di ogni male ...
Poi il vecchio provocò la rovina di Troia e la mia non uccidendo Alessandro …
Cipride gli vantò la mia bellezza e a lui la offrì in premio …
Pensa bene alle conseguenze di tanta contesa. Cipride vinse. (Tro. 919-932)
Viene qui esposta direttamente da Elena una tesi di stampo isocrateo: grazie a lei la Grecia non è caduta preda dei barbari, afferma l’oratore nell’Encomio.
Qui Euripide riprende l’argomento e fa dire ad Elena:
Grazie alle mie nozze l’Ellade fu salva:
non siete caduti sotto i barbari,
non avete dovuto prendere le armi a difendervi
né soggiacere alla tirannide. Così
mentre fioriva la buona sorte dell’Ellade io
mi perdevo per la mia bellezza venduta,
maledetta proprio da quelli che avrebbero dovuto incoronarmi. (Tro. 932-939)
Le Troiane sono del 415, un terribile anno di guerra per Atene che non aveva ancora dimenticato il pericolo persiano: la denunzia pseudo-pacifista di Elena non poteva non avere effetto sugli spettatori, anche se assurda. Elena instaura, infatti, con le sue parole una sorta di gerarchia fra le guerre: quella combattuta a Troia per ben dieci anni non sarebbe una vera e propria guerra, se messa a confronto con le guerre combattute per la libertà. L’argomentazione relativa al rapporto libertà-schiavitù slitta su un altro piano: Elena proclama di non aver avuto libertà di scelta perché in realtà era schiava (doulos, v. 950) della potenza di Afrodite che accompagnava e sosteneva Paride. E ancora impotente si proclama Elena di fronte alle guardie che le hanno impedito di fuggire, nonostante i suoi tentativi di calarsi giù dalle mura di Troia con le funi. Lo stolto, insomma, è Menelao che si rifiuta di confrontarsi con i veri termini del problema:
Come potresti tu, mio sposo,
farmi morire giustamente,
se Paride mi volle sua per forza (biai , v. 953),
se la mia bellezza, offertagli in ricompensa da Cipride vittoriosa,
mi costrinse dolorosamente all’amore?
Stolto (amathes, v. 965) consiglio il tuo:
desiderare di essere più forte degli dei. (Tro. 959-965)
Il Coro interviene chiedendo ad Ecuba di far fronte alla terribile e fascinosa eloquenza di Elena ed Ecuba lo fa con incredibile veemenza capovolgendo, come un retore nell’agora, tutte le argomentazioni di Elena, dimostrandone (cfr. deixo, Tro. v. 970) tutta l’infondatezza.
La vera amathia (Tro. 972) sarebbe voler credere che tre dee potenti come Era, Atena e Afrodite avrebbero avuto bisogno di fare tante stupidaggini come vendere città, dal momento che non avevano bisogno di nulla:
Non attribuire stoltezza agli dei per far brillare le tue colpe!
ammonisce Ecuba (Tro. 981-982). La verità, secondo la regina troiana, è un’altra:
Mio figlio era di una bellezza sovrumana
e i tuoi sensi, solo a vederlo, diventarono Afrodite.
Il nome della dea ben corrisponde, nel significato, a quello di follia, frenesia.
Appena lo scorgesti splendente di barbare vesti e d’oro[3],
un desiderio frenetico arse il tuo animo.
Tu vagavi inquieta per Argo fra modeste ricchezze. Lasciando Sparta, speravi di poterti tuffare avida dove
l’oro scorreva a fiumi: nella città dei Frigi.
La dimora di Menelao non ti bastava a sfogare
le tue brame impudiche di una vita lasciva …[4] (Tro. 988-997)
Anche Euripide tenta un gioco di assonanze tra Aphrodite e aphrosyne. Non è un gioco, invece, la denuncia degli eccessi cui ci espone il desiderio che già Prodico aveva dichiarato icasticamente:
il desiderio raddoppiato è amore
l’amore raddoppiato è follia. (Stob. Flor. IV 20.65=DK 84 B 7)
No, per Elena non c’è scampo nell’invettiva di Ecuba: quando Paride l’avrebbe rapita (il che, secondo lei, è falso) nessuno l’ha sentita gridare, chiedere aiuto, altrimenti i suoi forti fratelli, i Dioscuri Castore e Polluce sarebbero corsi in suo aiuto. Falsa è anche la dichiarazione dei tentativi di fuga: nessuno ne ha mai saputo nulla così come nessuno ha mai saputo nulla di un qualche tentativo di suicidio che pure sarebbe stato conveniente ad una donna dabbene per salvare il proprio onore.
Ancora una colpa ricade su Elena: la sua bellezza sfrontata che ella non fa nulla per nascondere o mortificare, ma che anzi esalta in ogni modo:
Ora ti presenti qui più bella e ornata
a respirare l’aria stessa che respira il tuo sposo.
Sfacciata. Dovevi, se mai, venire con le vesti logore, tremante, umile, coi capelli rasi, ricordando le tue colpe. (Tro. 1025-1028)
Menelao accoglie l’invito di Ecuba e del Coro e dichiara di non credere alle parole di Elena, mentre lei sfodera nuove armi, quelle dell’emozione e della compassione: al suo sposo chiede pietà, dichiarandosi ancora una volta vittima e non colpevole. Ma Ecuba continua temere le “reti di Afrodite” che è capace di mettere in campo Elena la bella e chiede a Menelao di non farla salire sulla sua sua stessa nave per non rischiare di rimanere ancora vittima del suo fascino.
Menelao, ancora una volta, palesa tutta la sua debolezza dichiarandosi pronto ad obbedire agli inviti imperiosi di Ecuba: Elena sia portata su un’altra nave per essere condotta ad Argo dove subirà la sorte che meritano le donne folli e dissolute (Tro. v. 1059), e la sua punizione sia di monito alle altre donne. Comunque, Elena parte e parte con lui: è facile immaginare che Menelao si piegherà di nuovo alla bellezza, al fascino di Elena.
E’ questo, del resto, ciò che accade sia nell’Andromaca, sia nell’Elena. Nell’Andromaca ritornano in primo piano tutti i motivi che accompagnano la letteratura su Elena, ma con una variante, già presente sia pure marginalmente nelle Troiane, quella relativa alle colpe di Afrodite. La dea non viene qui decantata per il suo fascino, la sua bellezza, ma solo per la sua capacità di macchinare inganni, grazie a dolioi logoi (Androm. 289). Il Coro, parlando ad Andromaca, regina ormai schiava, descrive in maniera spietata il comportamento frivolo e irresponsabile di Atena, Era e Afrodite allorché si presentarono di fronte a Paride parlando in maniera insensata:
Afrodite vinse con ingannevoli discorsi,
dolci a udirsi,
ma amara rovina per la Frigia
infelice
e la rocca di Troia.
Ah, si fosse liberata di quel male
colei che lo generò,
prima che prendesse dimora sull’Ida,
quando presso il fatidico lauro
Cassandra gridò di ucciderlo,
catastrofe del popolo di Priamo! ….
Sulle Troiane non si sarebbe abbattuta
la schiavitù e tu, donna <Andromaca>
in regale dimora siederesti.
Alla Grecia sarebbero stati risparmiati i crudeli
Dolori, tra i quali intorno a Troia
andarono errando i giovani in armi. Le spose non sarebbero state abbandonate
e privi dei figli
non sarebbero rimasti i vecchi. (Androm. 284-308).
Come si vede, l’Andromaca riprende uno dei motivi esposti da Elena nella sua vibrante autodifesa nelle Troiane: la vera colpa di tutto sarebbe da ricercare nell’aver voluto ciecamente salvare Paride bambino dalla morte che gli era stata destinata dal Fato. Se fossero state ascoltate le parole di Cassandra, Troia e i Frigi e la stessa Elena si sarebbero salvate!
Subito dopo, però, ritorna nell’invettiva di Andromaca contro Menelao il tema delle responsabilità di Elena: Menelao è uno sciocco perché si lascia ‘abbindolare’ dalle parole di una donna, oggi la figlia Ermione, come ieri la fedifraga Elena. Menelao reagisce con indignazione non solo per rivendicare il suo ruolo di padre che deve correre in difesa della figlia Ermione, ma anche il suo ruolo di marito che deve andare in difesa di Elena che non è colpevole di alcunché dal momento che è stata solo vittima di un brutale rapimento da parte del barbaro Troiano. Apparentemente l’interlocutrice di Andromaca è Ermione, la figlia di Elena e Menelao che aveva sposato Neottolemo, figlio di Achille, ma in realtà ancora una volta la protagonista è lei, Elena, madre di Ermione, che con il suo comportamento ha segnato per sempre il destino della figlia: Andromaca, per insultare Ermione, continua a rinfacciarle di essere figlia di una sgualdrina, affamata di sesso (Androm. 229), vera responsabile di tutte le sciagure che ormai travolgono anche la figlia (Androm. 248).
L’altra grande tragedia sul tema è l’Elena, una pièce quasi surreale nella quale Elena mette in campo tutte le sue arti più subdole per farsi beffe di Teoclimeno di cui è prigioniera. Menelao, dopo molte disavventure, arriva nell’isoletta di Faro, in Egitto, per chiedere all’indovina Teonoe notizie della moglie, ma s’imbatte proprio in lei, Elena che lo convince di non essere mai andata a Troia, di essere rimasta sempre ‘casta’ e fedele e lo supplica di portarla via, a Sparta: arriva addirittura a sorprendersi di aver cattiva fama, pur non essendo adikos (Hel. 270). Grazie ad una serie incredibile di inganni, ai quali partecipa la stessa Teonoe, Elena riesce a partire con Menelao, sua unica ancora di salvezza (Hel. 277). Qui, in questa tragedia che parte dalla memoria stesicorea del fantasma andato a Troia al posto della vera Elena, è presente anche il motivo della presenza di Elena in Egitto che sarà poi ripreso da Ghiannis Ritsos.
Elena, infatti, ritorna nella poesia greca del Novecento innanzi tutto con Giorgio Seferis, premio Nobel per la poesia nel 1963,che fin dall’exergo dichiara il suo debito nei confronti dell’Elena euripidea.
La figura presentata nell’Elena di Seferis, pubblicata per la prima volta in Nea Estia (15 ottobre 1955), è evanescente, almeno quanto il fantasma che andò a Troia con Paride:
... Le schiave spartane trassero un lamento: tra loro - chi l’avrebbe detto?- Elena!
Quella cui lunga caccia demmo sullo Scamandro.
Era sugli orli del deserto. La toccai. Mi parlò:
‘Non è vero’ gridava ‘non è vero.
Non andai sulla nave azzurra-prora.
Piede non posi mai sulla gagliarda Troia …
Questo del fantasma che da Stesicoro ad Euripide è motivo moralistico, ragione di difesa della dimensione etica di una donna, qui in Seferis diventa un motivo etico-politico: la guerra, dunque, fu del tutto inutile, vana
E a Troia? Nulla, nulla a Troia – un fantasma.
Volontà degli dèi.
E Paride si giacque con un’ombra
Quasi che fosse cosa salda; e noi
Ci sgozzammo per Elena, dieci anni.
Sulla Grecia piombò grave travaglio.
Tanti corpi gittati
Nelle fauci del mare, nelle fauci
Della terra, e le anime
Consegnate alle mole, come grano.
I fiumi si gonfiavano, tra la melma, di sangue
Per un fluttuare di lino, una nuvola,
per uno scarto di farfalla, una piuma di cigno,
per una spoglia vuota, per un’Elena.
Come si vede, non ci sono rivendicazioni orgogliose, alla maniera di Isocrate, di civiltà salvate né onori vendicati o da vendicare, ma solo la malinconia per tante morti vane, inutili, la stessa malinconia già espressa da Costantino Kavafis nella bella lirica che egli dedica ai Troiani impegnati nello sforzo supremo della salvezza, pur consapevoli del fatto che la loro sorte è già segnata:
Crediamo che la nostra decisione e l’ardire
muteranno una sorte di rovina.
E stiamo fuori in campo per lottare.
Poi, come giunge l’attimo supremo,
ardire e decisione se ne vanno:
l’anima nostra si sconvolge e manca;
e tutt’intorno alle mura corriamo,
cercando nella fuga scampo.
La nostra fine è certa … (Troiani, trad. F. M. Pontani)
Ancora un fantasma, dunque, ma non quello di Elena, bensì quello della speranza di un’impossibile vittoria contro i Greci.
E di nuovo un vuoto ritorna nel triste e miserando monologo Elena di Ghiannis Ritsos, pubblicato nel 1972, quando si allentarono le maglie della censura dei colonnelli che dal 1967 opprimevano la Grecia.
Qui Elena è ormai vecchia.
Vecchia –vecchia- cento, duecento anni.
Lei là, immobile, seduta sul letto, ingobbita.
Soltanto
gli occhi –ancor più grandi, imperiosi, penetranti, vuoti …
Nulla ha più importanza per questa povera donna che gli anni hanno privato del suo unico valore: la bellezza. Ella è sola e riconosce finalmente il non-sense disperante che ha accompagnato tutta la sua vita:
A poco a poco le cose hanno perso d’importanza, si sono svuotate;
d’altronde
ebbero mai importanza alcuna? – flaccide, vuote
noi le riempivamo di paglia e crusca perché assumessero forma
e consistenza, solidità, fermezza …
Nessuna importanza, dunque, agli eventi, alle cose; - così come alle parole, quantunque
con esse denominiamo alla meno peggio ciò che ci manca o ciò
che non abbiamo mai visto –le cose immateriali, come le chiamiamo,
le cose eterne;-
parole innocenti, fuorvianti, consolatrici, equivoche sempre…
Che triste storia
dare il nome a un’ombra …
No, non è bella questa Elena costretta alla solitudine in quella stessa casa di Sparta da cui tanti, troppi anni prima l’aveva strappata Paride. Come scrive Nicola Crocetti «nel suo monologo di fronte al giovane ufficiale dell’esercito, forse l’ultimo dei suoi amanti, che stenta a riconoscere in quella vecchia la donna di cui aveva inciso il volto nello scudo, i temi della solitudine e della decadenza, della vanità della gloria e della morte appaiono sempre presenti e in agguato»[5].
Com’era tutto senza senso,
senza scopo né sostanza –ricchezze, guerre, glorie, invidie
gioielli e la mia stessa bellezza.
Che stupide leggende
cigni e Troie e amori e gesta.
Li rincontrai di nuovo,
durante banchetti funebri e notturni, i miei vecchi amanti ,
le barbe bianche i capelli bianchi, i ventri ingrossati, quasi
fossero già incinti della loro morte …
Lo stesso Ritsos, lo spietato Ritsos si rende conto però che ancora troppo forte è l’eidolon della bellezza di Elena nella memoria collettiva dell’Occidente e, d’improvviso, con uno scatto d’orgoglio tutto greco, le fa dire
chissà
dove qualcuno resiste senza speranza, è là forse che
inizia
la storia umana, come la chiamiamo,
e la bellezza dell’uomo …
Ecco di nuovo, ritornare un tema che oserei dire isocrateo: Elena diventa qui, proprio in Ritsos, vittima per lunghi anni della feroce dittatura dei Colonnelli, simbolo alto della Resistenza, della disperazione della speranza e la sua bellezza corporea, con una metamorfosi, trascorre nella bellezza dell’umanità tutta che combatte per la libertà.
Siamo così ritornati a Elena la bella, la straordinaria Elena vincitrice in ogni caso, l’icona potente che ha attraversato, più di chiunque altra figura dell’immaginario, i millenni.
[1] Il femminile e l’uomo greco, trad. it., Roma-Bari 1991, pag. 222
[2] Cfr. Eurip. Androm. 364-365 dove il Coro così ammonisce Andromaca: “Hai parlato troppo, più di quanto si addice a una donna quando si rivolge a un uomo. La prudenza ti ha abbandonato”.
[3] Vesti variopinte e gioielli erano caratteristiche dell’iconografia orientaleggiante, ma anche di Afrodite, come sottolinea W. Burkert, Griechische Religion der archeischen und klassischen Epoche, Stuttgart 1977, pagg. 238-243. L’amore, insomma, colpisce più facilmente se riesce anche ad abbagliare.
[4] Quello della ‘irrefrenabile’ lussuria femminile è un tema comune della tragedia classica, come ho già scritto in La sexualidad en Platon y Aristoteles, in A. Perez Jimenez-G. Cruz Andreotti, eds., Hijas de Afrodita. La Sexualidad Femenina en los Pueblos del Mediterraneo, Madrid 1995, pagg. 47-86.
[5] Tre poemetti, Milano 1977, p. XI
Terzultima e penultima foto: Elisabetta Vergani e Elisabetta Pozzi interpretano l'Elena di Ritsos.