Pubblichiamo qui un estratto dal capitolo ‘Riscrittura di una tragedia: Aiace, U Tingiutu’
dal libro di Angela Albanese ‘A modo loro. Riscritture, transcodificazioni, dialoghi con i classici’ apparso per la bella collana ‘Studi culturali’ diretta da Michele Cometa per Palermo University Press e disponibile open access qui. Il capitolo si misura con la riscrittura dell’ ‘Aiace’ di Sofocle di Dario De Luca, prodotta da Scena Verticale nel 2009: qui altre informazioni sullo spettacolo e sulla sua accoglienza sulla stampa. La stessa autrice ha scritto di Scena Verticale e di questo dramma nella monografia ‘Identità sotto chiave. Lingua e stile nel teatro di Saverio La Ruina’, Quodlibet 2017 (qui). La ringraziamo per la gentile concessione.
1. Genealogie del maleNel retrobottega di un’agenzia di pompe funebri, quartier generale di un clan della ’ndrangheta, quattro necrofori preparano per il funerale il cadavere del boss Aiace, che è morto suicida per non finire morto ammazzato. Aiace ha peccato di insubordinazione, si è ribellato alle decisioni dei boss del clan, Menelao e Agamennone, che dopo la morte di Achille hanno preferito affidarne il potere, le armi, i territori e gli uomini non a lui, affiliato più valoroso, temibile e rispettabile della cosca, ma al suo rivale Ulisse.
Colpito nell’onore e nell’orgoglio, Aiace decide di lavare con il sangue l’insulto subito, progettando di sterminare il clan e di sequestrare Ulisse per torturarne il corpo. Il disegno di vendetta, attuato solo in parte visto che Menelao e Agamennone riescono a scampare alla sua furia omicida, ne segna in realtà il destino: l’essersi ribellato alle decisioni degli uomini della cosca e averne progettato l’esecuzione ne fanno un morto che cammina, quello che nel gergo della ’ndrangheta è nu tingiutu, uno tinto con il carbone, segnato a morte per lo sgarro fatto, senza possibilità di scampo o di redenzione.
Ma prima che la ferocia infamante dei sicari lo raggiunga, “l’uomo d’onore” Aiace decide di puntare la pistola contro sé stesso e di uccidersi davanti agli occhi trionfanti del torturato Ulisse. Il suicidio non ne preserva comunque il corpo dallo scempio, come del resto prevede il codice dell’onore per i cadaveri dei traditori, che devono essere privati della sepoltura, vilipesi e fatti sparire. Lo stesso oltraggio è riservato perciò al corpo di Aiace, trafugato dall’agenzia funebre in cui Agamennone, Menelao e Ulisse compiono una strage, chiuso in un sacco e portato in pasto ai porci affamati di Ulisse.
Dario De Luca, drammaturgo, regista, attore e anima, con Saverio La Ruina, della compagnia teatrale Scena Verticale, oltre che dell’importante Festival della scena contemporanea Primavera dei Teatri, tenta di far luce sullo stato malavitoso all’interno dello Stato con il suo U Tingiutu. Un Aiace di Calabria (2009) da lui stesso scritto, diretto e interpretato, insieme agli attori Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani. […]
Con U Tingiutu. Un Aiace di Calabria l’affondo nei rapporti di forza che segnano e degradano ogni livello del vivere quotidiano si fa serrato, clinico. L’antica disputa sofoclea per le armi di Achille si riflette nella disputa sanguinaria della criminalità organizzata che ha come posta il potere incontrastato sulle cose e sulle persone; la tragedia greca di Sofocle è riversata nella tragedia contemporanea e quotidiana della lotta fra cosche, dei morti ammazzati, del sangue versato in nome dell’onore in una terra calabrese aggredita dal potere della ’ndrangheta, sfibrata da una politica inerme e spesso complice. […]
2. Dalla tenda di Aiace all’agenzia di pompe funebri
A differenza del dramma sofocleo che, pur eccezionalmente, infrange il principio dell’unità di luogo prevedendo, nel corso del terzo episodio, uno spostamento della scena dalla tenda di Aiace a un boschetto presso la spiaggia, la scena che apre U Tingiutu, raggelante e tetra, rimane identica dall’inizio alla fine.
Il dramma di De Luca si svolge interamente nell’asfittico stanzino di un’agenzia di pompe funebri che, quasi per tutto il tempo dello spettacolo, rimane separato dal pubblico da una fila di veneziane calate sul proscenio, come a voler raffigurare le omertose persiane abbassate di molti paesi del meridione in cui chi vede fa finta di non vedere.
In questo spazio insano – occupato al centro dal grande marmo su cui posa il cadavere e, in fondo, da una piccola bara bianca scoperta nella quale s’impacchetta droga, dal coperchio di una bara più grande destinata ad Aiace su cui poggia un corvo impagliato, da un tavolino con sopra una radio che trasmette canzonette e un alberello di Natale che si accende e si spegne a intermittenza – si snodano i gerarchici rapporti di forza fra i necrofori, gregari dei boss della malavita, che con la stessa urticante indifferenza acconciano la salma di Aiace, preparano panetti di cocaina, si lanciano insulti e battute cariche di pesante ironia, organizzano la festa della Madonna e cantano le canzoni di Pupo e di Cristiano Malgioglio («nu grandissimu ricchiuni»), di cui individuano con virilità sprezzante i riferimenti sessuali.
Da lì a poco i quattro necrofori saranno sterminati dagli uomini del clan, intenzionati a riprendersi il corpo del traditore Aiace per farlo sparire.
E il dramma si chiude proprio sulla strage appena compiuta e sulle note della canzone di Gianni Morandi dall’antifrastico titolo Un mondo d’amore, che beffardamente sembra elencare i comandamenti del codice d’onore della malavita («Uno non tradirli mai, han fede in te… Due non li deludere, credono in te etc…»).
Se la prima e l’ultima scena quasi coincidono, all’interno di quest’architettura circolare l’intreccio rinuncia ad ogni linearità narrativa e procede per salti temporali e con frequenti flashback, pur mantenendo, oltre ai nomi, le situazioni sceniche della tragedia sofoclea: la tortura di Ulisse, il monologo delirante di Aiace in punto di morte, la contesa del cadavere fra Agamennone, Menelao e Teucro e il tema dell’insulto alla salma, che fa intravedere, per tutto il corso del dramma, un «livello Antigone» ben evidenziato da Gerardo Guccini[1].
A questi nuclei drammatici De Luca aggiunge un finale a sorpresa che si discosta da quello sofocleo e d’innegabile effetto cinematografico, con il boss Agamennone che pone fine alla violenta disputa intorno al cadavere di Aiace assecondando solo in apparenza il diritto di sepoltura reclamato da Teucro, mentre in realtà medita su quel corpo morto la più feroce delle vendette, che si consumerà sotto gli occhi degli spettatori solo in parte protetti dalle veneziane socchiuse.
Pur nella difficoltà della visione causata dall’ingombro delle tapparelle, il pubblico di U Tingiutu può dunque assistere al dispiegarsi del male in tutte le sue forme.
Si tratta di un male agito più che detto, essendo quella di De Luca una trascrizione visiva della violenza tragica sofoclea, che privilegia intenzionalmente lo showing a scapito del telling, l’elemento visuale a scapito di quello diegetico e narrativo. Sotto questo specifico aspetto, la riscrittura interviene a smontare la tradizionale configurazione della tragedia classica come dramma di parola, costruito su eventi descritti e narrati che lo spettatore non vede ma che può figurarsi grazie al potere evocativo del racconto affidato a messaggeri, al coro o ad altri testimoni. È ben noto come fosse consuetudine dei poeti tragici greci il sottrarre alla vista del pubblico soprattutto gli eventi di natura violenta come scontri armati, ferimenti e lo stesso atto materiale del morire, che venivano fatti accadere in uno spazio extrascenico o retroscenico per poi affidarne il racconto ai vari personaggi della tragedia. […]
È persino superfluo, del resto, rammentare Antigone che s’impicca fuori scena, o Edipo che compie il gesto feroce di cavarsi gli occhi lontano dalla vista degli spettatori, o lo sparagmòs extrascenico del corpo di Penteo nelle Baccanti. Se dunque nella tragedia greca accade ben poco e tutto è raccontato, essendo essa «imitazione dialogica di situazioni dialogiche, non operativo-corporee, […] rappresentazione non di fatti, ma di confronti e agoni verbali sul già fatto o sul da fare» (Giovanni Cerri), nel dramma di De Luca, al contrario, tutto avviene in scena, senza alcuna narrazione, senza alcun prologo che spieghi l’antefatto della morte di Aiace.
Lo spettatore è catapultato direttamente nell’agire criminale di un clan che traffica intorno ad una salma, per poi risalire senza tregua, in un progressivo esplodere visivo della violenza, alla barbarica tortura di Ulisse, al suicidio di Aiace e all’esecuzione finale in perfetto stile mafioso, che non lascia spazio, in chi assiste al dramma, ad alcun sentimento di empatia o di compassione.
Oltre all’Aiace sofocleo, da cui De Luca ha ricavato evidenti suggestioni nel dipanarsi della trama, pur senza attingere direttamente all’ipotesto nella forma di citazioni o rimandi intertestuali, almeno altre due opere, entrambe narrative, hanno influenzato la genesi e la scrittura di U Tingiutu.
Si tratta del romanzo Anime nere di Gioachino Criaco e del libro-inchiesta Gomorra di Roberto Saviano, dei quali De Luca tenta di replicare, seppure solo indirettamente, l’idea che esista una contiguità radicata fra il potere delle istituzioni e quello mafioso, oltre a desumerne precisi riferimenti testuali. Se da Saviano è tratta per esempio la descrizione, da parte di un fiero Aiace, di quando ancora bambino ha visto per la prima volta dei morti ammazzati, più frequenti risultano gli inserti dal romanzo Anime Nere, che il drammaturgo riprende dopo averli tradotti nel serrato e difficile dialetto calabrese in cui è composto il testo teatrale. Ci si limita qui a citare solo alcuni passaggi, segnalando che proviene dal romanzo l’identificazione dei sequestrati di ’ndrangheta nascosti in
Aspromonte con i porci, e dunque l’assimilazione di Ulisse, rapito da Aiace, a quell’”ignobile” animale; o ancora, il pianto di vergogna e di lutto della madre di Aiace quando, appena quattordicenne, lui le aveva portato a casa i primi guadagni frutto di una rapina; da un preciso riferimento testuale al romanzo è infine tratto il titolo stesso della pièce, nel punto in cui De Luca fa propria la distinzione di Criaco fra «anime nere» e «tingiuti» all’interno della più generale categoria dei latitanti, dei «fujiuti», delle «ombre»:
Le ombre, erano tali per due motivi: conti in sospeso con la legge o da
regolare con altre persone; e in questo caso, quando il sangue era già scorso,
le ombre diventavano anime nere o tingiuti, tinti col carbone, a seconda se
si prevedeva che uscissero vincenti o fossero considerate sicure vittime[2].
Allura i scarazzi hannu cuminciatu a si linghia i chiri ca nua chiamàvamu
mariane: le ombre, i fujuti. Ci nn’era sempe ancunu. U sa ca nu fujutu o
è tingiutu, tintu cu ru carvune, o è n’arma nivura, a seconda ca, isciutu
da macchia, rimana nterra muorto o ci lassa ancun’atru muorto nterra
(Allora gli ovili hanno cominciato a riempirsi di quelli che noi chiamavamo ombre: le ombre, i latitanti. Ce n’era sempre qualcuno. Lo sai che un latitante o è tingiutu, tinto col carbone, o è un’anima nera, a seconda che, uscito allo scoperto, rimane morto per terra o lascia lui stesso per terra un altro morto).
Ma è soprattutto il rapporto con l’Aiace sofocleo a far acquisire al testo del regista calabrese carattere di necessità e spessore civile, proprio perché, lo si diceva all’inizio, il ritorno alle trame mitiche nella loro rielaborazione tragica consente di scavare fino alle origini dei sentimenti che muovono l’animo umano, di sondare gli abissi della violenza e del dolore tentando di comprenderne fenomenologicamente le ragioni.
Il rapporto di U Tingiutu con l’antico testo di Sofocle non intende perciò risolversi, si diceva, in un confronto di cosa c’è e cosa manca (per inciso, manca l’originaria presenza femminile, essendo l’Aiace calabrese un regolamento di conti fra soli uomini), ma vuole accompagnare lo spettatore nella sua risalita fino agli antecedenti mitici che aiutano a rendere intelligibili comportamenti, azioni, sentimenti, situazioni della contemporaneità. […]
[1] G. Guccini, Un Aiace di Calabria ovvero L’ombra capovolta di Antigone: una risposta teatrale all’anti-cultura degli insulti al corpo nemico, in D. De Luca, U Tingiutu. Un Aiace di Calabria, Abramo Editore, Caraffa di Catanzaro 2009, pp. 9, 10, 18-19.
[2] G. Criaco, Anime nere, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, p. 19.
Le prime quattro foto di scena © Pietro Scarcello. Le altre @ Claudio Morelli. La foto di copertina: @ Angelo Maggio