Del Vecchio editore ha ripubblicato nella collana ‘L’anima e le forme' , collana di Teoria della letteratura e Letterature comparate' , i nove saggi di Franco Moretti raccolti col titolo ‘Segni e stili del moderno’,
apparsi tra il 1978 e il 1988 su riviste che, scrive l’autore nella premessa intitolata ‘C’era una volta’, non erano ‘peer-reviewed’. Eppure in quel momento, tra gli anni ’60 e ’80, “un saggio su rivista non era come porre un mattone nella grande cattedrale del sapere; era uno schizzo di tutta la cattedrale; sghembo, e magari troppo microscopico per essere preso sul serio; ma quella cosa lì. In ogni pozzanghera, si provava a vedere il firmamento. Gran fatica, grande libertà”. Da questi saggi, le generazioni più giovani sapranno certamente trarre, oltre che una lezione di stile, anche di libertà e di consapevolezza politica. Tra i saggi, due parlano della tragedia: ‘La grande eclissi. Forma tragica e sconsacrazione della sovranità’ (pp. 75-146) e ‘Il momento della verità. Una conferenza sulla tragedia moderna’ (pp. 331-350); val la pena ricordare che alla tragedia Franco Moretti ha dedicato nel maggio scorso una lezione per il ciclo ‘Extrema ratio. Lezioni per questo tempo’ ,organizzato dal Dipartimento di Filologia e critica delle letterature antiche e moderne dell'Università di Siena, che si può rivedere qui.
Anticipiamo, per gentile concessione dell’editore, solo alcune pagine da ‘Segni e stili del moderno’, significative per il nostro blog, poiché delineano un confronto tra tragedia elisabettiana e tragedia antica, ma ci interrogano anche sul senso della ‘tragedia’ e del ‘tragico’. Ma si tratta solo di un assaggio, un invito a confrontarsi con il libro di Franco Moretti, e con gli altri contenuti di questo capitolo, che si interroga ad esempio sulla politicità della forma tragica, sul ruolo del tiranno e sul senso da attribuire all’eroe tragico. (S.F.)
«Tragedia».
[…] È necessario un rapido sguardo alle modificazioni che, nel volgere di pochi decenni [da Gorboduc a Re Lear], conosce il termine «tragedia». Primo passaggio. Osserva George Steiner, parlando del Prologo del Monk’s Tale di Chaucer, che il significato altomedievale di «tragedia» «non implica una struttura drammatica. Una tragedia è semplicemente il racconto della vita di un antico o eminente personaggio finito miseramente in seguito a un rovescio di fortuna»[1].
Tragedia è in larga misura sinonimo di «sventura» o «morte», e in tale accezione la incontriamo – oltre che nel Myrrour for Magistrates – ancora nell’Arden of Faversham (scritto verso l’inizio dell’ultimo quarto del Cinquecento): «And train thy master to his tragedy» (3.166: «E attira il tuo signore nella sua tragedia») o nella Spanish Tragedy di Kyd (1590?): «This very sword [ ... ] ǀ Shall be the worker of thy tragedy» (2.1.92-93: «Questa stessa spada […] ǀ Sarà l’artefice della tua rovina»).
Ѐ evidente che, in questo quadro, la tragedia privilegia il principe più per quello che «è» che per quello che «fa»: perché la sua caduta sarà la più clamorosa possibile: per motivi, diciamo, «quantitativi», e non inerenti alla sua specifica funzione politica.
Qui il secondo passaggio, Gorboduc. La tragedia vi diventa la storia del tiranno – non più del principe avversato dalla sorte. Questa accezione del termine incontriamo in Elyot: «Leggendo le tragedie (l’uomo) imparerà ad esecrare e aborrire l’insopportabile condotta di vita dei tiranni»; in Sidney: «l’alta e sublime tragedia [...] che rende i re timorosi di trasformarsi in tiranni, e costringe questi ultimi a rivelare la loro tirannica natura»; in Puttenham: «la condotta infame e tirannica dei principi fu resa visibile al mondo, la loro malvagità fu condannata, la loro follia e assurda arroganza derisa, e le loro miserevoli morti furono rappresentate in drammi e scene, per mostrare la mutevolezza della fortuna, e la giusta punizione con cui Dio si vendica di una vita fatta di vizio e di malvagità»[2].
Storia del tiranno; di colui che sottrae l’azione al controllo della Reason. Gorboduc e la trattatistica cinquecentesca privilegiano questo significato, ma allo scopo di farne uscire rafforzata la Reason: non per nulla la tragedia appare loro come la forma estetica sommamente educativa.
L’ultima conferma – oltre a quelle che già si sono viste – ci viene da due funzioni drammatiche che finora non abbiamo preso in considerazione. Ogni atto di Gorboduc si apre con un «dumb show» (breve azione mimica) e si chiude con un coro. Il mimo inscena in forma allegorica (ma è un’allegoria codificata, proverbiale: tutti la capiranno a prima vista) ciò che avverrà nel corso dell’atto seguente; il coro lo riassume, e ne ribadisce il significato.
E allora: la decisione del sovrano ha sì svincolato le azioni dalla Reason – ma le azioni continuano a manifestarsi sempre e solo entro il contesto temporale e semantico previsto e predisposto dalla Reason. La morale precede la favola, il modello generale prevede il caso particolare. Con Gorboduc la tragedia si precisa grazie all’inserzione del sovrano a sua origine – ma tale sviluppo ha luogo solo entro il piano, rigidamente circoscritto, della trama: la struttura drammatica complessiva possiede ancora degli elementi che restano immuni dalla catastrofe, la delimitano, le danno un senso e la risolvono.
Qui il terzo passaggio, il bisturi di King Lear. Che abbatte senza remissione quelle «difese e fortezze della ragione» di cui già dubitava Amleto. Siano «personaggi» o altri elementi drammatici – ripetiamolo – nulla in King Lear riesce più a dare un significato alla vicenda, alla fabula tragica. «…Fortebraccio ha il mio voto, morente. ǀ E dunque digli, con gli eventi, piccoli e grandi, ǀ Che hanno sollecitato – il resto è silenzio» (Hamlet, 5.2.354- 56). «Gli eventi, piccoli e grandi...»: questo, per Amleto, è tutto ciò che si può dire alla fine della sua tragedia: Orazio, con la mediocre diligenza che gli è propria, racconterà a Fortebraccio: «D’atti adulterini, sanguinari e contro natura, ǀ Di giudizi e uccisioni casuali, ǀ Di morti arrecate per astuzia e per necessità, ǀ E, in questo epilogo, di disegni malriusciti ǀ Ricaduti su coloro che li avevano elaborati...» (5.2.379-83).
Racconterà cioè la trama. Ma questa non è tutto: c’è quel «resto», che altro non è se non il significato di quanto è accaduto. Su di esso cade la proibizione di Amleto: il resto è silenzio, ovvero: non osate dare un senso a tutto questo.
Nascita del pubblico dalla struttura della tragedia.
[…]. Dalle ultime osservazioni dovrebbe esser chiaro che il concetto di «tragedia» che si sta poco a poco delineando non può che essere un concetto strutturale. Capace definire simultaneamente asse sintagmatico e asse paradigmatico – trama e valori – chiarendo il rapporto assolutamente peculiare che s’instaura tra di loro nella tragedia.
Questo vuol dire che non esiste «il tragico»: espressione che rimanda sempre a un solo lato del problema – e per lo più (già in Nietzsche) al suo contenuto di azioni. Non esiste il tragico come possibile tua azione – non importa se reale o immaginaria della storia umana: esiste solo la tragedia: una forma peculiare di rappresentazione di quella storia. Una struttura rigorosamente asimmetrica: contraddistinta da una mancanza costitutiva.
Tragedia è la parabola della degenerazione del sovrano inserita in un contesto che non sa più capirla. Ѐ un testo in cui manca una funzione giudicante adeguata: e in cui, anzi, il «giudizio» finale deve essere enormemente al di sotto, più misero, di ciò che l’ha preceduto. Ora, da Hegel in poi, questo scarto è stato attribuito alla «scomparsa del coro», e con esso di quella che appunto Hegel definiva «la coscienza sostanziale, superiore, che distoglie dai falsi conflitti e prepara la soluzione»[3].
Lasciamo perdere la questione (di per sé assai discutibile) se il coro della tragedia antica fosse davvero così come lo descrive Hegel, e teniamoci alla tragedia moderna. Qui, in ogni caso, il coro – che ancora esisteva in Gorboduc, e coincideva alla fine del quinto atto con l’aristocrazia in armi – manca. Con esso scompare un punto di vista universale, «superiore». O più precisamente: questa coscienza scompare da coloro – i «personaggi» – che tengono la scena della tragedia, e che altro non sono se non le varie sfaccettature della classe dominante del tempo.
Ma allora nella tragedia questa classe appare improvvisamente incapace di comprendere il corso e il senso della storia. Non ha più nulla da insegnare a chi guarda. Che si trova così sprovvisto di quella guida spirituale cui era da sempre avvezzo: e proprio quando gli eventi cui ha appena assistito la renderebbero assolutamente necessaria. «Chi guarda», insomma, è letteralmente costretto a pensare con la propria testa: per la prima volta, nulla e nessuno gli indica la via.
Ѐ un fatto epocale: per millenni le «idee» erano state convalidate non da una loro «intrinseca verità» (che è criterio scientifico moderno) ma dalla «autorità» di chi le profferiva. Con la tragedia moderna il principio di autorità si dissolve, e sparisce con esso il principale ostacolo all’esistenza di quel pubblico razionale che altri, e per altre vie, si incaricheranno di formare compiutamente. Giù in platea, faccia a faccia con lo spettacolo della catastrofe, s’è destato il protagonista della nuova epoca.
«Una favola raccontata da un pazzo».
Il luogo del teatro. Per noi, il concetto di teatro rimanda direttamente all’attività estetica. Per gli elisabettiani, viceversa, esso era in primo luogo connesso con il sistema dei rapporti politici. «The world’s a Theater, the earth a Stage, ǀ Which God, and nature doth with Actors fill, ǀ Kings have their entrance in due equipage, ǀ And some their parts play well and others ill ǀ [...] All men have parts, and each man acts his owne»[4].
Quest’idea che il mondo sia un teatro dove gli uomini non fanno che «impersonare un ruolo» ha davvero un senso solo nell’ambito della status society feudale, le cui caratteristiche fondamentali, secondo la classica ricostruzione di Macpherson, consistono nel fatto che «le attività produttive e di controllo della società vengono assegnate d’autorità a gruppi, ceti, classi o persone (e) ciascun gruppo, ceto, classe o persona risulta legato a un tipo di attività»[5].
«Il significato della stratificazione medievale in classi – scrive un altro studioso del pensiero politico medievale – era che un membro di una particolare classe era confinato all’interno di essa senza poterne uscire [...] ogni membro della società doveva adempiere alle funzioni che gli venivano assegnate, perché questa era ritenuta un’emanazione dell’ordine divino delle cose. Si trattava del principio della vocazione [...] secondo il quale ogni individuo era stato chiamato (vocatus) a compiere dei doveri precisi […] Importante non era l’individuo, non era l’uomo, ma [...] la carica che l’individuo ricopriva»[6].
L’individuo dunque «esiste» solo in quanto ha una funzione riconosciuta d’autorità, solo come «attore» di un «ruolo» sociale. La società è pensabile solo come teatro, la vita è una rappresentazione. Bene. Ma allora, a rigor di logica, questa società non dovrebbe avere un teatro…
[1] G. Steiner, Morte della tragedia, 1961, trad. it. Garzanti, Milano 1976, p. 13. Così anche Lily B. Campbell (Tudor Conceptions of History and Tragedy in «A mirror for Magistrales», University of California Press, Berkeley 1936, p. 17): «Si erano scritte tragedie nell’Inghilterra medievale, ma in quella letteratura per tragedia si intendeva la storia di qualcuno che fosse caduto da una posizione elevata; vi si narrava la caduta dei principi dalla felicità alla miseria, dalla prosperità all’ignominia».
[2] Th. Elyot, The Book named The Governor,1531, Dent, London 1970, p. 33; Ph. Sidney, An Apologie for Poetrie, or, The Defence of Poesie, 1585?, Thomas Nelson, London 1965, pp. 117-18; G. Puttenham, The Arte of English Poesie, 1589, Cambridge University Press, Cambridge 1936, pp. 33-34.
[3] G. W. F. Hegel, Estetica, 1820-29, trad. it. Einaudi, Torino 1967, p. 1353.
[4] Thomas Heywood, poesia dedicatoria a An Apology for Actors, 1612: «Il mondo è un Teatro, la terra un Palcoscenico, ǀ Che Dio e la natura riempiono di Attori, ǀ I re fanno il loro ingresso con tutto il loro seguito, ǀ E alcuni recitano bene, e altri male, la propria parte ǀ […] Tutti gli uomini hanno una parte, e ognuno recita la sua».
[5] C. B. Macpherson, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese, 1962, trad. it., Milano 1973, p. 72 (corsivo mio).
[6] W. Ullmann, Individuo e società nel medioevo, 1966, trad. it. Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 35-36, 38.
Le immagini: la prima immagine è tratta dal sito:http://elizabethandrama.org/the-playwrights/plays-of-historical-importance/gorboduc-by-thomas-norton-and-thomas-sackville/; quindi: il frontespizio della prima edizione di Gorboduc; tre immagini dal funerale della regina Elisabetta I, 28 aprile 1618, da un manoscritto della British Library; la versione inglese del primo atlante marino, 1588, British Library; Interno della Wanamaker Playhouse at Shakespeare's Globe, basata su disegni del XVII secolo,
© Pete Le May / The Globe Theatre; infine il disegno dell'interno di un teatro pubblico, redatto da un viaggiatore olandese a Londra nel 1596 © Utrecht, University Library, Ms 842. I.