In occasione della 'Giornata della memoria', ripubblichiamo la post-fazione alla traduzione italiana del racconto Antigone di Berlino di Rolf Hochhuth (1931-2020), apparsa nei Quaderni di Via del Vento edizioni (Pistoia), con qualche minimo aggiornamento e un breve stralcio del racconto.
«La nostra morte deve essere un faro»
Nel 1963 con il dramma Il Vicario [Der Stellvertreter] Rolf Hochhuth (1931-2020) pose con precisione documentaria la questione del silenzio di Pio XII davanti ai crimini nazisti. Tradotto subito per Feltrinelli nel ‘64 con una prefazione di Carlo Bo, il dramma è stato rappresentato in 25 diversi paesi e portato sul grande schermo da Costa-Gavras (Amen, 2002), riaprendo una ferita insanabile nella coscienza dei cattolici. Antigone di Berlino, una novella scritta da Hochhuth sulla scia della grande eco suscitata da Il Vicario, ispirandosi palesemente alla tragedia di Sofocle, racconta di una resistente berlinese mandata a morire dopo un processo farsa per aver sepolto, di nascosto, il fratello giustiziato da Hitler per alto tradimento. Il racconto è inventato, per obbedire alla struttura narrativa della vicenda mitologica, ma si ispira alla biografia di una esponente della resistenza berlinese realmente esistita, come diremo. Nel racconto, si leggono stralci autentici dalle lettere che questa donna scrisse dalla prigionia, in attesa del processo.
L’Antigone di Berlino apparve in forma abbreviata sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» nel 1963 e divenne nel 1968 soggetto di un omonimo, oscuro film televisivo. Come per Il Vicario, Hochhuth usa documenti e rielabora fatti realmente accaduti.
La 'vera' An(tigo)ne (nel racconto il suo nome è Anne) si chiamava Rose Schlösinger, nata a Francoforte nel 1907, figlia di un’importante esponente socialdemocratica, Sophie Ennenbach. Madre e figlia furono duramente osteggiate e perseguitate dal nazismo sin dal 1933. Nel 1939 Rose sposò il cugino Bodo Schlösinger, traduttore dal russo e dal polacco, e con lui si trasferì a Berlino. Bodo fu spedito sul fronte orientale nel ’40: da lì informava la moglie delle atrocità che si commettevano. Rose intanto intensificò la sua attività antinazista: arrestata il 18 settembre 1942, fu condannata a morte il 20 gennaio del 1943 per «spionaggio». Venuto a sapere della condanna, Bodo Schlösinger si uccise in Russia. Nell' immagine sotto, le pietre di inciampo poste al loro indirizzo berlinese, Sebastianstraße 42.
Rose Schlösinger fu ghigliottinata a Berlino il 5 agosto 1943 alle ore 19,21 nel carcere del Plötzensee, insieme ad altre 15 persone, di cui 12 donne. Rose era madre di una bambina di dieci anni, avuta in un primo, breve matrimonio: come ultimo desiderio Rose chiese che la figlia fosse tenuta all’oscuro della sua morte. Le rivolse un’estrema lettera d’addio, che fu consegnata alla ragazza solo al compimento del diciottesimo anno. La figlia di Rose Schlösinger si chiama Marianne Heinemann ed è stata la prima moglie di Rolf Hochhuth; vive oggi a Basel: a lei è dedicata L’Antigone di Berlino.
Rose Schlösinger faceva parte delle 120 persone che tra l’agosto del 1942 e il marzo del 1943 furono arrestate come membri della ‘Orchestra rossa’, nome spregiativo dato dai nazisti al gruppo di opposizione nato a metà degli anni ‘30 a Berlino: ‘rossa’ perché composta di comunisti che telegrafavano notizie in Russia, ‘orchestra’ perché composta di ‘pianisti’, come erano detti in gergo i radio telegrafisti. Il gruppo di opposizione cadde in oblio nella Germania occidentale durante gli anni della Guerra Fredda e fu persino definito dallo storico Gerhard Ritter, nel 1954, un gruppo di «traditori della patria». Nella DDR invece le figure più politicizzate di quei Resistenti furono ricordate in quanto comunisti, ma una valutazione storica dei documenti superstiti è potuta iniziare solo dopo la caduta del Muro. Le memorie dei sopravvissuti sono state raccolte dal regista Stefan Roloff in un documentario (Die Rote Kapelle, 2005), che non è nei circuiti della grande distribuzione cinematografica. Ad una delle esponenti del gruppo è dedicato il bel libro di Nicola Montenz, L' eterna primavera. Libertas Schulze-Boysen e l'«Orchestra rossa», apparso nel 2019 per Archinto editore.
Nel tristemente famoso carcere del Plötzensee furono eseguite durante il nazismo 2891 condanne a morte, ma l’elenco è provvisorio: si trattava di comunisti, socialisti, aderenti a gruppi studenteschi di opposizione, ma anche di gente comune, che aveva spesso peccato solo di umanità o ingenuità. Dal 1938 i corpi dei giustiziati non furono più restituiti alle famiglie, perché la Gestapo temeva manifestazioni di solidarietà durante i funerali. I cadaveri venivano invece trasportati nell’Istituto di Anatomia dell’Università di Berlino. Chi era studente di medicina all’epoca ricorda le autopsie condotte su giovani corpi decapitati. Questa terribile verità storica, il divieto cioè di sepoltura dei ‘traditori’, trova il suo archetipo letterario nell’Antigone di Sofocle, da cui Hochhuth trasse le linee generali del racconto Antigone di Berlino, ed in special modo l’idea della sepoltura segreta del fratello della protagonista.
Ma lo scrittore volle denunciare anche gli abusi compiuti durante il nazismo specificamente sui cadaveri delle donne, come è chiaro dall’ Epitaffio apposto al racconto, che dice:
L'Istituto di Anatomia di Berlino
ricevette tra il 1939 e il 1945
i corpi
di 269 donne giustiziate
Le donne infatti ebbero un ruolo di primissimo piano nella Resistenza tedesca, e nell' Orchestra rossa in particolare, a partire dalle mogli dei fondatori del gruppo, Mildred Harnack e Libertas Schulze-Boysen, che furono giustiziate insieme ai mariti. I cadaveri delle donne in età fertile erano messi a disposizione del direttore dell’Istituto di Anatomia, il ginecologo Hermann Stieve, che fino a dopo la guerra ha continuato a pubblicare i risultati dei suoi esperimenti su ovaie ed uteri ottenuti da quel «materiale» (Werkstoff, come fu definito da Stieve nel 1938, aggiungendo che per i molti cadaveri a disposizione le condizioni di lavoro a Berlino erano favorevolmente uniche: vedi qui). Dopo la guerra la sua grande fama scientifica non fu intaccata: membro di numerose Accademie scientifiche, tra cui quella delle Scienze di Berlino, Stieve fece parte del comitato del Nobel sino alla morte nel 1952, e un suo busto campeggia nell’ospedale Charité di Berlino.
La burocrazia dell’orrore, i documenti che attestano la moltiplicazione delle forche per poter svolgere più esecuzioni contemporaneamente, il compenso dato al boia Röttger (80 marchi per esecuzione più sigarette), le domande di grazia respinte, le fatture con le spese dell’esecuzione che erano recapitate ai parenti, si possono in parte vedere nell’esposizione al carcere del Plötzensee, dal 1952 monumento alla memoria, e nel libretto di Brigitte Oleschinski, Gedenkstätte Plötzensee, 20024 (on-line: www.gedenkstaette-ploetzende.de). Atti dei processi e ‘registri’ delle esecuzioni furono per lo più distrutti prima dell’arrivo degli alleati. Restano però biglietti e lettere che i condannati riuscivano in varia maniera a far uscire dalla prigione e i ricordi dei loro consiglieri spirituali.
Lo stile dell’Antigone di Berlino è il contrario di una prosa d’arte e riprende spesso le intraducibili espressioni burocratiche delle leggi dell’epoca o il gergo dei nazisti; anche i passaggi logici sono talora desultori, quasi a rispecchiare nella sintassi la follia che guidava quegli eventi tragici e le contorsioni del linguaggio di quell’oscuro potere: la scrittura di Hochhuth si muove al confine tra la letteratura e il documento, ma nella sua nudità la lingua riesce ancora più dirompente, raggiunge il cuore del lettore e obbliga ad un esercizio di memoria.
«…Se posso esprimerti un desiderio: – scriveva Libertas Schulze-Boysen alla madre prima di essere ghigliottinata – racconta a tutti, a tutti di me. La nostra morte deve essere un faro». Noi speriamo con questa traduzione di avere un po’ contribuito ad esaudire quel desiderio.
Dall'Antigone di Berlino di Rolf Hochhuth:
[...C'è a Berlino] un antico cimitero pagano, silenzioso da generazioni, intorno alla imponente torre in pietra grezza della Marienkirche, nel quartiere più antico della città, vicinissimo all’Università. I maestosi, reali alberi di Berlino lì si inarcano, alti quanto il duomo, sulle poche pietre tombali sopravvissute ai secoli: quel pomeriggio Anne aveva scelto una di quelle pietre, un robusto scudo della pace eterna, bagnata di lacrime di pioggia e neve, straziata come – come l’ultimo sguardo di sua madre. Avrebbe pregato il parroco Ohm di tradurle quel passo della Bibbia, che faticosamente era riuscita a leggere sulla pietra: Atti degli Apostoli 5, 29 oboedire oportet Deo magis quam hominibus6, – mentre il nome iscritto sulla lapide era ormai perso sia agli occhi che al tatto.
Quanti avevano trovato pace in quel luogo! Per paura Anne non scavò molto profondamente. Aveva tolto con un coltellaccio la spessa coltre di muschio ed erba che copriva la tomba, mentre il suo sguardo guardingo, ogni volta che andava verso il cielo della notte piena di echi e rimbombi, si fermava sui tetti da cui s’alzava il fuoco, come da una fucina. Tutta Berlino si affannava; la gente a frotte cercava di spegnere gli incendi, nel caos si lottava contro le fiamme. Anne si era fatta semplicemente trascinare dalla fiumana umana, quando, subito dopo la fine del bombardamento, aveva attraversato il cortile dell’Università spingendo la carriola con dentro il corpo di suo fratello: proprio lì aveva incontrato – si sovvenne dopo – chi l’aveva denunziata, una sua collega.
La Friedrichstrasse si inalberava in lingue di fosforo contro il cielo, spezzandosi, incandescente nel vento infuocato, bandiera sventolante della devastazione. E lì, come un’ isola di pace separata dall’orgiastica ira del fuoco, ecco il camposanto, buio. Nessuno disturbò Anne. Dalla parte della strada la proteggevano incolti e folti cespugli; alle spalle sembravano ripararla le nicchie gotiche; scavò senza fretta, rovesciando la terra sul telo che aveva coperto il fratello. Non sentì lo sforzo intenso nell’alzare il corpo dalla carriola, nel sollevarlo, tra le braccia, e poi nel posarlo a terra. Ma evitò di guardarlo in volto, di fissare quel viso senza pace.
[...]