Deve dunque evitare la guerra chi è assennato.
(Eur. Troad. 400)
Euripide e le “Troiane”
Le Troiane, rappresentate nel 415 a.C.[1], trattano del misero destino di schiavitù che attende le donne troiane, dopo la caduta della loro città: Ecuba, in scena dall’inizio alla fine del dramma, sarà assegnata ad Odisseo, Cassandra ad Agamennone, Polissena immolata sulla tomba di Achille, Andromaca sarà di Neottolemo. Anche il piccolo Astianatte verrà sacrificato alla causa dei vincitori, facendolo precipitare dalle mura per decisione di Odisseo. Dei Greci compaiono in scena solo l’araldo Taltibio e Menelao, che intende riportare in patria Elena perché sia condannata a morte per il suo tradimento e per i tanti lutti inflitti ai Greci, destinati a subire, benché vittoriosi, un amaro ritorno in patria. La conclusione della tragedia è desolante e senza sbocchi catartici: Troia è data alle fiamme ed Ecuba e il coro delle Troiane si avviano tristemente alle navi greche, verso una meta non conosciuta, dopo aver eseguito un ultimo patetico commo.
È questo un dramma atipico per la carenza di trama, per lo spazio eccezionale dato alle situazioni dolorose, al lamento, agli stati d’animo di impotenza e frustrazione dei personaggi – le donne ridotte in schiavitù[2]. Ma è un dramma che trova la propria cifra stilistica e registica nella coralità, nella variegata polifonia di voci convogliate verso un effetto musicale unitario, nelle diverse forme sceniche del dolore, che si tramutano esse stesse in azione: canto e movimento corporeo diventano anch’essi espressione e denuncia delle atrocità della guerra, nel costante Leitmotiv della dicotomia tra passato felice e triste presente.
La rappresentazione enfatica delle sofferenze causate da una guerra lunga e disastrosa non doveva solo suscitare la sympatheia da parte degli spettatori, doveva altresì veicolare un messaggio antibellicista che si rapportava alla situazione politico-militare contemporanea alla messa in scena delle Troiane.
Quando Euripide partecipa alle Grandi Dionisie (marzo-aprile) del 415 con la trilogia tragica sul ciclo troiano, Atene va maturando la decisione della spedizione in Sicilia, compiuta poi nell’estate di quello stesso anno, mentre nell’inverno precedente era già avvenuta la strage di Melo, la piccola isola che aveva assunto un atteggiamento di indipendenza nei confronti dell’egemonia ateniese[3]. In questo contesto la scelta del poeta, fautore di una politica di pace e critico verso il comportamento assunto da Atene in difformità con gli ideali propri dello spirito greco[4], sembra quasi obbligata: attraverso il mito della guerra di Troia (e i suoi antefatti) mostrare a teatro gli infelici esiti di un conflitto – diretti e indiretti – sia per le vittime sia per i vincitori, rappresentare la follia della guerra e la vacuità della vittoria, in una sorta di predizione ai propri concittadini, confermata poi dalla storia.
Ma come dare forma scenica a questa drammaturgia di guerra? Euripide, che tende sempre a sperimentare e rinnovare le convenzioni teatrali, affida alla protagonista Ecuba con la sua costante presenza sulla scena il ruolo di “catalizzatore” delle vicissitudini dei personaggi che si susseguono nello spazio scenico, scandendo il tempo della performance. In sostanza, una drammaturgia – volta alla ricerca sofisticata di effetti spettacolari – dell’incontro patetico (con Taltibio, Cassandra, Andromaca, il corpo di Astianatte) e dello scontro dialettico (con Menelao ed Elena), dove grande impatto emotivo ha la modalità di presentare al pubblico il personaggio stesso, nel suo primo e – tranne per l’araldo Taltibio – unico arrivo in scena. Tutto ciò «dava l’idea di un’instabile provvisorietà, e in particolare per la protagonista [...] di una profonda frustrazione»[5].
L’inizio del dramma è già la fine: Troia è stata conquistata, rovine fumanti fanno da sfondo all’accampamento greco, davanti alle tende c’è Ecuba, prostrata a terra: la sposa del re Priamo si identifica con la città distrutta «tutto questo non è più Troia, né più noi siamo sovrani di Troia» (vv. 99-100), ne diviene il simbolo della disfatta con il proprio capo rasato, il costume lacero, la straziata fisicità.
Arriva sulla scena Poseidone, ma solo per dare l’addio ai luoghi un tempo a lui cari e poi abbandonarli, disilluso. Appare anche Atena, che chiede al fratello di aiutarla ad annientare i Greci, un tempo a lei cari, ma ora colpevoli di non aver punito Aiace Oileo per l’oltraggio recato a lei e al suo tempio[6]. Il deus ex machina, l’espediente caro alla drammaturgia euripidea, riservato alla lysis della vicenda tragica, trova collocazione e realizzazione inaspettate: non nell’esodo del dramma, ma nel prologo, non una, ma due divinità, non sul theologeion o sulla mechané, ma nell’acting area[7], giunte a riferire il destino degli uomini – la triste schiavitù per le Troiane, l’esiziale castigo per i Greci – per poi allontanarsi dalla scena in due direzioni opposte. Tutto dunque sembra compiuto: gli spettatori sono informati, i personaggi e il coro devono acquisirne man mano consapevolezza.
Dopo il prologo, subito una nuova geniale trovata. Ecuba, la protagonista già sulla scena, intona una straziante monodia (vv. 98-152) prevalentemente in anapesti, la cui varietà performativa accompagna e scandisce i movimenti scenici: il recitativo, in funzione di “ingresso”, mentre giace ancora a terra, ma col capo sollevato, poi il lamento lirico, una volta alzatasi da terra e appoggiatasi al bastone[8]. L’estensione lirica del lamento ingloba la parodo (vv. 153-229), il canto di entrata del Coro che arriva distinto in due semicori, in momenti successivi, dialoga con Ecuba, condividendone pianto e dolore, e poi esegue un intero pezzo (la seconda coppia strofica) senza interruzione dell’attore[9]. In questo inizio di tragedia Euripide utilizza l’ampia gamma delle possibilità esecutive: recitato, recitativo, monodia, amebeo lirico tra coro e attore, corale; riserva, invece, il dialogo lirico-epirrematico di natura astrofica all’incontro tra Ecuba e Taltibio, l’araldo dei Greci, venuto in scena – all’inizio del primo episodio – per informare le Troiane del destino che le attende: alle incalzanti domande di Ecuba in versi lirici fa da contrappunto il lucido e razionale Bericht in trimetri giambici dell’araldo[10].
In forte contrasto con la rappresentazione della sofferenza patita dalle donne troiane si pone la messa in scena del personaggio di Cassandra. La figlia di Ecuba, infatti, arriva correndo, con movimenti convulsi, probabilmente rovesciando anche la testa all’indietro, un gesto tipico delle baccanti (vv. 306-307). Porta con sé le bende sacre di cui si libererà in un nuovo sfogo emotivo; in preda al delirio, come una menade, agita la fiaccola e canta e danza, immaginando di celebrare le proprie nozze con il re di Argo Agamennone e di guidare il festoso corteo nuziale verso il tempio di Apollo. È un pezzo di straordinaria spettacolarità e di grande impatto emozionale: l’esecuzione di un imeneo stravolto nella sua modalità rituale e il ritmo vivace e sostenuto della performance scenica creano un marcato diversivo rispetto alla prima parte della tragedia dominata dal lamento, evitando così che la monotonia dei gemiti e delle lacrime potesse determinare un effetto di saturazione negli spettatori[11]. Proprio alla voce della profetessa delirante viene affidato il compito di dimostrare “razionalmente” che la guerra è assurda e senza effettive motivazioni, ma anche che la gloria più bella è toccata in sorte ai Troiani vinti, non ai Greci vincitori.
Cassandra abbandona la scena con atteggiamento trionfale «vittoriosa arriverò giù tra i morti e dopo aver distrutto la casa degli Atridi, causa della nostra rovina» (vv. 460-461); Ecuba ricade a terra, un gesto col quale si evita ancora l’interlocuzione tra madre e figlia – riflesso delle tensioni presenti nell’Alessandro –, e si esprime in forma visiva il profondo dolore della donna.
È la volta di Andromaca: tutt’altra regia rispetto alla rappresentazione di Cassandra. La vedova di Ettore arriva lentamente sulla scena trasportata da un carro straniero, insieme con il figlio Astianatte e le spoglie frigie, tra cui le armi del marito: ne dà l’annuncio il coro in dolenti anapesti (vv. 568-576). Il carro, che a teatro serviva per ingressi fastosi di personaggi regali, diviene qui veicolo di schiavitù, strumento di costrizione, a ribadire il rovesciamento della sorte di Andromaca[12]. Subito si ha un duetto lirico tra nuora e suocera, con echi di voci e interferenze di gemiti; il ritmo fratto delle frequenti antilabai intensifica il pathos del dialogo, estendendosi persino agli esametri dattilici, la sequenza dell’epos risemantizzata in funzione del lamento tragico[13]. Ma il culmine emozionale della scena si raggiunge con il secondo arrivo di Taltibio (v. 709), stavolta annunciato non dal coro, ma da Ecuba; l’araldo si dimostra incapace di parlare – una novità provocatoria – e appare anche disponibile alla compassione verso le donne troiane. Questo è il messaggio che egli stenta a comunicare: Astianatte deve morire, l’ha deciso Odisseo. Atto atroce uccidere chi è senza colpa, e per di più un bambino; suona allora come un duro monito nei confronti dei Greci l’apostrofe pronunciata dalla “barbara” Andromaca «O Greci inventori di barbare crudeltà, perché uccidete questo bambino che di nulla ha colpa?» (vv. 764-765). Alla tremenda accusa segue, con grande effetto teatrale, il gesto disperato della madre che allontana da sé, dalle proprie braccia il figlioletto, perché sia preso dai soldati e condotto via per una destinazione di morte «trascinate, portate, gettate, se gettare è deciso. Cibatevi delle sue carni» (vv. 774-775); e il bimbo che piange e si stringe ancor di più alla madre conferisce ulteriore emotività all’intero tableau scenico.
Tra rovine fumanti e grida dolorose avanza spavaldo Menelao, unico capo greco in scena, personaggio insulso, quasi ai limiti del comico, ancora molto sensibile al fascino di Elena, che dovrebbe essere proprio da lui punita[14]; a caratterizzarlo basta per gli spettatori la sciocca battuta di esordio «o bagliore del sole che qui splende di bella luce!» (v. 860), e tutto intorno è lutto e miseria. La tensione della scena di addio tra Andromaca e Astianatte dell’episodio precedente viene d’improvviso raffreddata, così da preparare in modo più idoneo l’arrivo di Elena e il successivo agone retorico tra la stessa Elena ed Ecuba, giudice Menelao. È l’unico episodio che non ha parti liriche, neanche per introdurre il personaggio femminile, come invece avviene nel caso di Cassandra e Andromaca. Giacché non può destare emozione – semmai stizza – l’ingresso di Elena, seppur trascinata per i capelli da soldati: ancora affascinante nella sua intatta bellezza e ben vestita di contro ai cenci e al capo rasato di Ecuba (e delle donne del coro). Né può coinvolgere emotivamente, semmai intellettualmente, l’esercizio sofistico dei discorsi di difesa e di accusa (con ordine inverso rispetto alla prassi del tribunale), impostati secondo le regole dell’oratoria giudiziaria[15]. E in più, Euripide era ben consapevole che non dalla condanna di una singola persona – Elena – dovesse scaturire il messaggio pacifista, ma dall’impatto della sofferenza che la guerra aveva provocato. Tuttavia, interrompere con questo episodio l’intensità patetica della rappresentazione significava concedere una pausa agli spettatori prima del finale, in cui il dramma precipita nel dolore assoluto. E questo si connette ancora ai movimenti di entrata e di uscita di Taltibio. Al v. 1123 l’araldo arriva scortato dai soldati che portano lo scudo di Ettore con sopra il cadavere di Astianatte. Stavolta egli riferisce ad Ecuba le richieste di Andromaca: seppellire il bimbo sullo scudo del padre e consegnarlo nelle braccia di Ecuba, perché lo addobbi con pepli e corone. Andrà egli stesso a scavare una fossa profonda, un espediente messo in atto per allontanare dalla scena l’araldo e lasciare Ecuba da sola col corpo di Astianatte per l’esecuzione del rituale funebre, anomalo per la sua “irritualità”[16].
Una nuova – l’ultima – entrata di Taltibio è segnalata da un grido di sorpresa e sgomento da parte del coro «ah, ah» (v. 1256) per l’apparizione delle fiaccole che recano in mano gli uomini armati al séguito dell’araldo. L’ordine è di appiccare il fuoco e di condurre le donne alle navi dei Greci, quando verrà emesso uno squillo di tromba. Ecuba vuole correre per gettarsi nel rogo, ma può solo fare qualche stentato passo con le gambe tremanti verso lo sfondo dello spazio scenico, prima di venire bloccata dai soldati. Il corpo di Ecuba che non risponde, la fisicità lesa dalla sofferenza riconducono al quadro di frustrazione e di desolazione con cui si apriva il dramma; anche il dialogo lirico tra la donna e il coro, con spunti di antifonalità verbale e gestuale, richiama con un’efficace Ringkomposition la parte iniziale della tragedia, come a ribadire che fin dall’inizio tutto era già compiuto. Ma con il primo e definitivo allontanarsi di Ecuba dalla scena insieme al coro e con la scena che si svuota tra fuoco, fumo e crolli[17] si impone il senso di una distruzione totale, di una fine a cui è sottratto persino il conforto del rito: solo morte e desolazione, esiti naturali della guerra.
Franz Werfel e la “Bearbeitung “delle “Troiane”[18]
«Ich freue mich sehr über die guten Nachrichten von den Troerinnen», «Mi rallegro molto sulle buone notizie a proposito delle ‚Troiane‘» Così si esprime l’editore Kurt Wolff in una lettera a Franz Werfel del 15.XI.1913 a proposito del lavoro di “traduzione” iniziato da Werfel nell’estate del 1913; quando esso termina – a marzo del 1914 –, scrive ancora Wolff entusiasta: «Auf die “Troerinnen” freue ich mich ganz unbeschreiblich und hoffe, Sie lassen die Maschinenabschrift recht bald herstellen» (6.III.1914)[19], «Le ‚Troiane‘ mi danno un’inesprimibile gioia e spero che Lei possa al più presto consegnare un manoscritto per la stampa »
Dunque, alla vigilia dello scoppio della Grande Guerra, il giovane scrittore Werfel in modo profetico riprende il mito antico della distruzione di Troia, proponendolo sia attraverso la chiave di lettura politica e drammatica sottesa all’opera euripidea, sia con nuove prospettive: non solo una vibrante denuncia contro ogni genere di atrocità, ma anche manifesto di una salda fede nella sopravvivenza – a tale follia – dello spirito del bene e della giustizia[20]. Come l’autore stesso afferma nella Vorbemerkung alla prima edizione del 1914, «la traduzione (Übersetzung) della presente tragedia è scaturita dalla percezione che la storia dell’umanità nel suo corso circolare attraversi di nuovo la stessa situazione dalla quale ha avuto origine quest’opera»[21].
Benché Werfel in persona parli di Übersetzung, “traduzione”, il suo lavoro viene in realtà considerato come un “adattamento”, una “rielaborazione” del testo euripideo, nel senso che la fedeltà al modello non è, né vuole essere strettamente filologica, ma si riflette nell’impostazione drammatica e nella sequenza delle scene, di cui si rivivifica la potenza della originaria Stimmung attraverso ricercate forme espressive e ritmico-musicali[22]. Questo dato emerge ancora di più nella riscrittura del prologo e nella nuova conclusione dell’episodio di Elena (IX Auftritt) che Werfel predispone per la première del 20 maggio 1920 al Burgtheater di Vienna[23], sotto la spinta di due fattori significativi: l’uno storico-politico – il crollo dell’Impero austro-ungarico dopo la sconfitta nella Guerra mondiale –, l’altro artistico-sociale – l’acme dell’Espressionismo e i primi segnali dell’emancipazione femminile, recepiti nel confronto-scontro tra Ecuba ed Elena, la madre coraggiosa che porta su di sé il dolore dell’umanità e la femme fatale sprezzante e altèra nella sua intatta bellezza[24].
Se nella prima stesura del prologo i personaggi (Poseidone e Atena) e la loro caratterizzazione, le strutture formali (monologo-sticomitia-breve dialogo), le battute, i movimenti scenici degli attori, nonché l’uso di Knittelverse di andamento giambico e in rima baciata testimoniano la stretta aderenza della “traduzione” all’originale euripideo, nella nuova stesura ci troviamo di fronte a radicali modifiche di stile, forma e contenuto, attraverso le quali Werfel sembra al meglio interpretare lo spirito e i cambiamenti socio-culturali del dopoguerra. Non più Poseidone e Atena, ma un dio (Gott), con costume barbaro, e una “contro-divinità” (Gegengöttin), con costume greco arcaico, a suggerire subito una forte antitesi nel mondo divino, la quale si ricompone nell’atteggiamento ostile mostrato da entrambi nei confronti dei Greci, che non meritano la vittoria, e dei Troiani, che hanno meritato la propria fine: da qui la vibrante maledizione – l’unica pericope in rima baciata – che le due divinità all’unisono lanciano contro i vinti e i vincitori, invocando tutti gli elementi della natura. Il linguaggio aspro ed aggressivo degli dèi connota in modo marcato la loro nuova messa in scena e allontana ulteriormente queste due figure dal modello.
Ma la più rilevante novità di questo prologo è l’apparizione di un terzo personaggio, accompagnata da un gioco impressionante di luci e di suoni, alternati a oscurità e silenzi: si tratta di Astianatte, ucciso in modo brutale dai Greci e figura muta nel dramma euripideo. Egli non viene chiamato col nome proprio, ma è semplicemente un fanciullo (Kind) dalle graziose fattezze e dai biondi capelli («Wer bist du, Kind, du holdes, goldenes?», «Chi sei tu, fanciullo, così grazioso e aureo?»), nato dal sogno della città («Ich stieg aus dem Geträum der Stadt empor», «scendo dal sogno della città»). Questo fanciullo rappresenta l’immagine del salvatore, significa la redenzione della nuova epoca: nel suo fermo opporsi alle due divinità arcaiche, che vogliono annientare il genere umano solo per il fatto che esso esista, egli si configura come profeta di riscatto e latore di speranze[25].
Alla fine del prologo gli dèi si inabissano e, pronunciando insieme un significativo «poveri noi» («Weh uns!»), ammettono la propria sconfitta; la luce diffusa intorno al fanciullo si affievolisce, fino a diventare buio completo, e silenzio: una marcata e simbolica cesura tra spazio scenico “divino”, in alto, e spazio scenico “umano”, a livello degli spettatori (“fast ins Publikum gerückt”), attivato dal successivo intervento di Ecuba.
Consideriamo brevemente qualche altro esempio significativo riguardante le scelte drammaturgiche che sono dichiarate nelle indicazioni di regia e che connotano, fin dalla prima stesura, la Bearbeitung di Werfel rispetto al modello euripideo[26].
Come è noto, nel teatro antico le indicazioni di regia per la messa in scena costituivano parte integrante del testo stesso, ovvero delle battute dei personaggi; esse ci consentono di ricostruire anche se solo parzialmente e spesso in via ipotetica una possibile performance dell’opera teatrale. Di segno opposto è, invece, la prassi del teatro moderno dove le didascalie extratestuali non solo indicano il “modo” della resa scenica, ma costituiscono un primo elemento interpretativo dell’azione da rappresentare.
La didascalia iniziale delle Troerinnen fornisce in maniera puntuale le coordinate temporali e spaziali dell’ambientazione del dramma. Il tempo dell’azione è una “ewige Dämmerung”, un tramonto eterno, squarciata solo alla fine della vicenda dal pauroso rosseggiare di Troia in fiamme; lo spazio è la scena divisa su due livelli – uno più elevato, come una collina, l’altro più basso, come una pianura – collegati da un pendio (“schiefe Fläche, Treppen”, “superficie in pendenza, scale”). La parte bassa, prossima al pubblico, rappresenta l’accampamento greco con le prigioniere di guerra, davanti al quale si svolge l’azione della tragedia; questa parte è dominata dalla città di Troia, lo spazio scenico – in prospettiva distante – dove nel prologo agiscono le due divinità (Poseidone e Atena/Gott, Gegengöttin), che appaiono enormi nell’aspetto, così da sovrastare le mura della città: l’una a sinistra, l’altra a destra e nel mezzo, piccola ai loro piedi, Troia. Quest’ultima indicazione si ricava dalla didascalia dell’entrata in scena di Atena; entrambe le divinità sono riconoscibili dai loro specifici emblemi. Nel rifacimento del prologo la didascalia che precede l’arrivo della Gegengöttin è molto più sintetica (“in frühgriechischer Maske auf der anderen Seite der Burg plötzlich da”, “con una maschera greco-arcaica, dall’altra parte della città, appare improvvisamente”); “über der Burg”, “sulla città” si colloca l’apparizione successiva del Kind, del ‘fanciullo’.
Ancora più che in Euripide viene qui mostrata ed enfatizzata la distanza tra lo spazio scenico entro il quale si muovono le donne prigioniere e lo sfondo della rocca, entrambi sotto il controllo dei nemici: uno stato di alienante espropriazione. Distanti e lontani sono ormai anche gli dèi: spariscono o si inabissano dopo il prologo, rendendo inattivo e dunque del tutto abbandonato nelle mani dei Greci lo spazio della città, nuovamente visibile solo nel finale alla luce delle fiaccole. Ed è proprio il gioco di luci, spesso sostenuto da effetti sonori (urla, rumori, musica), che Werfel sfrutta come potenzialità teatrale di forte valore simbolico, per dare rilievo a determinate situazioni sceniche. Sotto questo aspetto risulta di grande impatto la scena originale del fanciullo salvifico, introdotta nel rifacimento del prologo. L’arrivo del Kind, il ‘fanciullo’, è preceduto da crescenti squilli di tromba che raggiungono un’intensità straordinaria; le divinità ne hanno percezione immediata e, velandosi il volto[27], emettono turbate un prolungato grido inumano, preludio alla breve, ma concitata sticomitia. Quindi dall’alto esplode un fragore di lamiere, un fracasso spaventoso, cui segue l’affievolirsi della luce degli dèi e poi il buio: sopra la rocca, sospeso in un’aureola luminosa, ecco il fanciullo ed è profondo silenzio, interrotto da tre accordi d’arpa. Analoga sequenza si ha nel suo congedo dalla scena: affievolirsi della luce intorno al fanciullo – con un raffinato pendant di effetto scenico tra lui e le divinità –, buio completo, silenzio; poi una marcata musica funebre e di nuovo la luce che si irradia lentamente ad illuminare Ecuba distesa sul proscenio.
Se la parte iniziale della tragedia è caratterizzata dalla ricerca dei contrasti (luce/buio, rumore/silenzio) e dalla centralità dei singoli personaggi (gli dèi, il fanciullo, Ecuba), che agiscono separati nei diversi piani della scena (parte alta, destra, sinistra, parte bassa), nel finale l’espandersi della luce fiammeggiante delle fiaccole tra orizzonte e proscenio e l’assembramento di folla (donne, soldati, coro e protagonisti) creano una visione più omogenea dell’apparato teatrale e, insieme con un’assordante e crescente musica di fanfare, flauti, trombe, conducono la rappresentazione al suo culmine drammatico ed emotivo. Solo per un attimo e improvvisamente la musica si interrompe per le ultime parole di Ecuba, che si alza dalla posizione in ginocchio e sale su un piedistallo, dove viene illuminata da una ossimorica e al contempo simbolica «luce nera» (“Sie steht ganz in einem schwarzen Licht”), in una sorta di apoteosi del personaggio; poi una nuova ondata di fiamme e fanfare inghiotte la scena. La patetica allocuzione dell’Ecuba euripidea alle proprie membra tremanti, che devono sostenere il passo per procedere verso la schiavitù, in concomitanza con la prima e ultima uscita di scena della protagonista, sembra perdere di intensità nella scelta di regia operata da Werfel, il quale sposta l’asse emozionale sulla nuova ultima battuta di Ecuba: «so nehme ich mein Leben an die Brust und trag’s zu Ende!! Nun zu den Schiffen!», «così stringo la mia vita al petto e la porto sino in fondo!». Il tableau scenico di Ecuba posta tra le macerie – salda – su un rialzo, intorno al quale affluiscono tutte le donne come verso una scogliera (“wie an einem Riff”, ‘come su una scogliera’), serve così a focalizzare l’attenzione sulla regina di Troia quando pronuncia il suo intervento conclusivo. Come fulcro della vicenda e della storia, la protagonista attira verso di sè e incarna l’umanità sofferente, rappresentata con grande efficacia teatrale dalle donne, vittime indifese della guerra; nell’attesa speranzosa di un riscatto Ecuba si “solleva” e resiste al caos del mondo, dà un senso ai propri patimenti e – malgrado tutto – assolve al “dovere” di vivere, congenito all’essere umano, dimostrando in questo la propria natura eroica[28].
Dal testo alla scena: Berlino e Vienna
Infine, qualche rapido cenno sulle due più importanti rappresentazioni teatrali dell’opera nel primo Novecento.
Le Troerinnen vengono messe in scena per la prima volta il 22 aprile 1916 al Lessing Theater di Berlino, con la regia di Victor Barnowsky; la pièce riscuote grande successo ed è richiesta da molti altri famosi teatri, così che hanno luogo numerose repliche in diverse città della Germania. Lo afferma chiaramente Kurt Wolff nella lettera a Werfel del 2.V.1916: l’editore parla entusiasta di questo successo, ricordando in aggiunta la grande propaganda a tale lavoro che la casa editrice straordinariamente aveva fatto sui più importanti giornali in occasione della sua messa in scena[29].
Per questa performance la scelta registica di eliminare il prologo – forse troppo connotato nella sua grecità – fa sì che l’azione del dramma si svolga solo tra esseri umani, determinando un maggiore coinvolgimento degli spettatori di quell’epoca nella tragica vicenda universale delle vittime di guerra.
La foto dell’ingresso in scena di Andromaca, nella figura sopra, [30] permette di visualizzare parte dello spazio scenico e del suo allestimento: una zona piana limitata da tre gradini che conducono alla sagoma della rocca turrita sullo sfondo, molto vicino all’acting area; in un altro spazio – non ripreso nella foto – dovevano essere raffigurate le tende dei Greci, originale e necessaria ambientazione del dramma. Sui gradini si trova, a ridosso della città e quasi alla sua stessa altezza, un gruppo di donne (il coro?); questa vicinanza tra la città e le donne troiane risulta molto significativa, perché ne sottolinea lo stretto legame e un forte senso di comunità. Le donne indossano un costume di stile antico, come quello di Andromaca e del personaggio barbuto – forse Taltibio – con la lunga asta tenuta dritta in mano di fronte al carro. La moglie di Ettore è in piedi sul carro, appare fiera, sublime nella sua regalità, con il figlioletto Astianatte stretto tra le braccia; nel carro si intravedono ornamenti vari e le armi dell’eroe e tra queste, in evidenza, lo scudo arrotondato, sul quale sarà seppellito Astianatte: il tableau scenico rinvia direttamente all’originale euripideo.
Dalle cronache dell’epoca[31] siamo informati del grande rilievo conferito dal regista alla performance del coro, che agisce sia come gruppo, accovacciandosi, gridando all’unisono, franando a terra, sia come singoli individui, che affidano ad una toccante gestualità l’espressione degli stati emotivi: per esempio, una donna muta si stacca dal coro e si rannicchia in se stessa, presso l’entrata dell’accampamento, mentre le altre eseguono il lamento; due coreute si dirigono verso Ecuba inerte e sostengono lei, anziana, con le loro giovani braccia. La frammentazione del coro avviene anche a livello musicale, per cui il canto è eseguito ora da due gruppi di voci corali, soprano e contralto, ora da singole voci; viene così esaltata la grande musicalità che contraddistingue l’intera opera[32].
Mentre la regia del coro è particolarmente apprezzata («mit großem künstlerischen Geschmack herausgebracht [...] alles gelang vortrefflich»), l’interpretazione dei personaggi suscita alcune perplessità («nicht so ganz harmonisch abgestimmt»): Ecuba (Anna Feldhammer) eccessiva e infaticabile nel lamento, a dispetto dell’anzianità, Cassandra (Sybille Binder), esagerata nei movimenti convulsi e con un eloquio a scatti, ai limiti della comprensibilità; persino la spudorata bellezza di Elena (Mechthildis Thein) nel suo costume variopinto non attira l’attenzione più delle altre donne prigioniere. Solo Andromaca (Lina Lossen) riesce con nobile compostezza ad esprimere il proprio immenso dolore[33].
La messa in scena della première al Burgtheater di Vienna (20 maggio 1920) con la regia di Franz Herterich enfatizza i tratti simbolico-espressionistici dell’opera, senza disdegnare, tuttavia, il ricorso ad una caratterizzazione in senso classico per i ruoli dei personaggi. È lo stesso Herterich che, in una sorta di manifesto dell’Espressionismo teatrale, espone i principi ai quali egli si è ispirato per la propria regia[34].
Lo spazio scenico rappresenta lo spazio interiore, profondo dell’animo umano; luce, colore e linea («Licht, Farbe und Linie») diventano i nuovi strumenti dello spettacolo per coglierne l’infinita ampiezza e coinvolgere al livello emozionale lo spettatore: la luce in contrasto con l’oscurità come indizio della mutevole disposizione d’animo, il colore come valore affettivo connesso con l’esperienza interiore, la linea non più margine dell’oggetto, ma segno per il movimento umano nello spazio. Dunque, grande impiego di effetti scenici, possibili grazie anche ai nuovi supporti teatrali, quali l’illuminotecnica, per interpretare visioni ed emozioni e rendere quella particolare atmosfera che, come un’allucinazione, si può definire con le parole di Ecuba «ein Traum, in dem nur Leiden wirklich sind».
In questa scelta registica anche il coro assume un’importante valenza semantica. Herterich evita una frammentazione in singole voci, perché considera il coro espressione di uno spirito di gruppo, di un popolo, di un’umanità. L’enthysiasmos dionisiaco si traduce prevalentemente nel ritmo e nella risonanza delle parole, meno nel movimento, con la musica strumentale che fa da sottofondo e accompagna il testo, sottolineandone gli scarti emotivi.
A fronte dell’espressione estatica del gruppo corale si distingue la realizzazione più classica dei personaggi, così da creare una sorta di contrappunto formale tra coro e singoli individui: Ecuba (Hedwig Bleibtreu) altèra e solenne nella sua grandezza “biblica”, Andromaca (Maria Mayer) semplice e di commovente bellezza nel suo profondo dolore, Cassandra (Lotte Medelsky) interessante nella sua patologica singolarità[35].
Rielaborata in chiave simbolico-religiosa e rappresentata nello stile estatico-visionario dell’Espressionismo, la tragedia euripidea conserva intatte nel tempo la propria vitalità e la forza della denuncia contro la follia umana della guerra.
Questo articolo è stato pubblicato in Miti antichi e moderni. A cura di Donatella Gavrilovich, Carmelo Occhipinti, Donatella Orecchia, Pamela Parenti, Universitalia, Roma 2013, pp. 57-70 con il titolo Un mito antibellicista a teatro. Le Troiane di Euripide e la Bearbeitung di Franz Werfel. Si ringrazia l'autrice per aver concesso la ripubblicazione. L'immagine di copertina mostra l'attrice ebrea Ida Ehre che nel 1947 impersona Ecuba in una messa in scena delle Troiane di Werfel del regista Ulrich Erfurth (Hamburger Schlüsseldokumente zur deutsch-jüdischen Geschichte, <https://dx.doi.org/10.23691/jgo:source-163.de.v1> ). Le altre due foto sono tratte da una messa in scena delle Troiane di Jean Paul Sartre, regia Tina Lanik, al Münchner Residenztheater (2017 https://nachtkritik.de/index.php?option=com_content&view=article&id=13727:die-troerinnen-des-euripides-tina-lanik-jean-paul-sartre-antike-tragoedienbearbeitung-muenchner-residenztheater&catid=38&Itemid=40) e da Die Troerinnen (Die Rasenden I) di Karin Beier, Ursula Rühle, Deutsches SchauSpielHaus Hamburg (https://www.schauspielhaus.de/de_DE/stuecke/die-troerinnen-die-rasenden-i.1024881)
[1] Insieme con i perduti Alessandro, Palamede e il dramma satiresco Sisifo: si tratta dell’unica tetralogia legata di Euripide di cui abbiamo notizia; essa ottenne il secondo posto. Per il testo e la traduzione ho utilizzato il volume Euripide, Le Troiane, a cura di E. Cerbo (traduzione, note, appendice metrica) e V. Di Benedetto (introduzione e note), Classici greci e latini, BUR, Milano 1998. Il 20 luglio 2013, durante la stesura del presente lavoro, è venuto a mancare Vincenzo Di Benedetto: a lui la mia profonda gratitudine e il mio commosso e affettuoso ricordo.
[2] Le diverse forme del lamento, che caratterizzano quasi tutte le scene di questa tragedia, sono state analizzate da A. Suter, Lament in Euripides’ Trojan Women, in «Mnemosyne», n. 56, 2003, pp. 1-28.
[3] Per questi eventi storici cfr. Thuc. VI 8-26 e V 84-116; più in generale, circa i riflessi della situazione storico-politica sulla scena teatrale cfr. B. Zimmermann, Krieg und Frieden im attischen Drama des 5. Jahrhunderts v. Chr., in «Hellenica», n. 51, 2001, pp. 265-281.
[4] Cfr. V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società, Einaudi, Torino 1971, pp. 186-192.
[5] V. Di Benedetto, Introduzione a Euripide, Le Troiane, cit., p. 80.
[6] Aiace aveva trascinato via dal tempio di Atena Cassandra e insieme anche il simulacro della dea, senza poi subire alcuna punizione da parte dei Greci (vv. 69-71). Qui Euripide, per mettere ancora più in cattiva luce i Greci, respinge la versione tràdita (Distruzione di Ilio, p. 62 Davies), secondo la quale i Greci volevano lapidare l’eroe. Nel corso del dramma il poeta affiderà al personaggio di Ecuba la riflessione critica sull’intervento degli dèi nelle cose umane: cfr. V. Di Benedetto, Introduzione a Euripide, Le Troiane, cit., pp. 38-45.
[7] Già nell’Alcesti (438 a.C.) Euripide aveva presentato nel prologo una divinità a livello dello spazio scenico: il dio Apollo, che usciva dalla skené (la casa di Admeto) e si incrociava nell’orchestra con Thanatos, a sua volta sul punto di entrarvi.
[8] Per una puntuale analisi metrica con commento della monodia si rimanda a E. Cerbo, Appendice metrica in Euripide, Le Troiane, cit., pp. 263-265; cfr. ivi anche pp. 136-137, n. 32.
[9] Mentre gli stasimi si configurano come espressione della ricerca formale, tendente all’immagine bella e lussureggiante, a discapito del patetico, la parodo commatica, invece, evidenzia il rapporto di philia che viene a stabilirsi tra Ecuba e il coro sulla base del dolore comune: su quest’ultimo aspetto cfr. M.P. Pattoni, La sympatheia del coro nella parodo dei tragici greci: motivi e forme di un modello drammatico, in «Studi classici e orientali», n. 39, 1989, pp. 49-53.
[10] Per un approfondimento sul ruolo di Taltibio, anche come messaggero, in questa tragedia cfr. M. Dyson-K.H. Lee, Talthybius in Euripides’ Troades, in «Greek, Roman and Byzantine Studies», n. 41, 2000, pp. 141-173.
[11] Sulla scena di ingresso di Cassandra e sull’interpretazione metrico-ritmica della monodia in rapporto con i moduli tematici cfr. E. Cerbo, La monodia di Cassandra (Eur. Troad. 308-340) fra testo e scena, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», N.S. n. 93, 2009, pp. 85-96.
[12] Andromaca rimane sul carro per tutto l’episodio e col carro verrà portata via dalla eisodos che conduce al mare, dove si trova l’esercito greco in procinto di partire. Sul valore espressivo di questa scena e più in generale sull’uso del carro in tragedia cfr. V. Di Benedetto-E. Medda, La tragedia sulla scena, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1997, p. 74 e pp. 77-78.
[13] Per uno studio specifico sull’esametro nel dramma attico cfr. R. Pretagostini, Scritti di metrica, a cura di M.S. Celentano, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011, pp. 241-261.
[14] La caratterizzazione negativa della figura di Menelao è naturalmente in funzione antigreca. Lo stesso vale per Odisseo, al quale per di più viene negata la “competenza” più importante di un personaggio: quella di apparire in scena. In compenso si avverte diffusamente la sua “presenza”: Ecuba attacca in modo violento Odisseo e la sua «duplice lingua» (vv. 282-287), Cassandra ne enuncia in rapida sintesi e come penose esperienze le peripezie, narrate nei canti IX-XII dell’Odissea, e le difficoltà che l’eroe avrebbe trovato a Itaca, nella sua casa (vv. 427-443), Andromaca lo accusa di «barbare crudeltà» (vv. 764-765).
[15] Per l’analisi dei procedimenti formali utilizzati nei due discorsi di questo agone cfr. V. Di Benedetto, Introduzione a Euripide, Le Troiane, cit., pp. 64-72.
[16] Diversi elementi concorrono a rendere anomala la sepoltura di Astianatte: è presente la nonna e non la madre, il corpo sarà lavato dai Greci e non dai familiari e sarà seppellito in una fossa, scavata dai nemici, su uno scudo e non in una cassa, gli ornamenti destinati al matrimonio sono usati invece per il seppellimento: cfr. L. Battezzato, Il monologo nel teatro di Euripide, Scuola Normale Superiore, Pisa 1995, pp. 153-154. E cfr. anche M. Dyson-K.H. Lee, The Funeral of Astyanax in Euripides’ Troades, in «Journal of Hellenic Studies», n. 120, 2000, pp. 17-33.
[17] Stando alla battuta del v. 1325, divisa tra Ecuba e il coro («Avete appreso, avete sentito? – Sì, il fragore di Pergamo»), è probabile che si sentissero effettivamente dei rumori provenienti dal fondo della scena, per dare risonanza al crollo di Troia, causato dall’incendio: cfr. V. Di Benedetto-E. Medda, La tragedia sulla scena, cit., p. 138. E cfr. anche A. Casanova, L’incendio finale nelle Nuvole di Aristofane (e nelle Troiane di Euripide), in Poikilma: studi in onore di M.R. Cataudella, a cura di S. Bianchetti, Agorà, La Spezia 2001, pp. 279-289.
[18] Della vasta bibliografia sulla vita e le opere di Werfel (1890-1945), scrittore austriaco di origine ebraica, esponente dell’Espressionismo, si segnalano i seguenti saggi: L.B. Foltin, Franz Werfel, J.B. Metzlersche, Stuttgart 1972; N. Abels, Franz Werfel, Rowohlt, Reinbek bei Hamburg 1990; P.S. Jungk, Franz Werfel. Eine Lebensgeschichte, Fischer, Frankfurt am Main 1992. Interessante anche la dissertazione di A. Martin, Franz Werfel. Des Dichters Welt und Weg zwischen Lyrik und Drama. Sein frühes Verhältnis zur Zeit, Universität Freiburg (Schweiz) 1956, pubblicata solo nel 2008 in versione e-book (sulle Troerinnen, pp. 182-190). Per una rassegna critica cfr. J.E. Michaels, Franz Werfel and the Critics, Camden, Columbia 1994 (sulle Troerinnen, pp. 32-33). In particolare, sulla Bearbeitung delle Troiane in rapporto col modello euripideo cfr. A. Jhala, Die poetologische Rekursivität des Mythos, Edition Praesens, Wien 2003, pp. 78-115.
[19] Le due citazioni sono tratte da K. Wolff, Briefwechsel eines Verlegers 1911-1963, hrsg. von B. Zeller-E. Otten, Fischer, Frankfurt am Main 1966, p. 102 e p. 104. Dopo una prima stampa di alcune scene in “Die Weißen Blätter” (maggio 1914), il testo completo della tragedia viene pubblicato nel 1915 a Lipsia per la casa editrice di Kurt Wolff, che curerà la stampa di tutta la produzione poetica di Werfel. Nel 1959 Adolf D. Klarmann pubblica l’edizione integrale dei drammi in due volumi (F. Werfel, Die Dramen, I-II, S. Fischer, Frankfurt); Die Troerinnen sono contenute nel I volume (pp. 41-89 e pp. 538-548), a cui si fa riferimento nel presente lavoro.
[20] La riflessione sul tema della guerra e delle sue conseguenze trova ulteriore spazio nel dialogo drammatico Euripides oder über den Krieg, che Werfel inizia a comporre proprio in questo stesso periodo: nell’Ade le ombre di Euripide e di Alcibiade discutono sul valore della vita e sul suo sacrificio in guerra (cfr. M. Bambozzi, Al di là degli eroi: retorica e drammaturgia della morte eroica dalle Troiane di Euripide alle Bearbeitungen di F. Werfel, in «L’immagine riflessa», N.S. X, 2001, pp. 321-362). Più di Eschilo e Sofocle, il “moderno” Euripide risponde alla sensibilità del poeta e drammaturgo Werfel, che addirittura lo considera «als Vorboten, Verkünder, als frühe Taube des Christentums» (Die Dramen, cit., p. 548).
[21] «Die Übersetzung der vorliegenden Tragödie ist durch das Gefühl veranlaßt worden, daß die menschliche Geschichte in ihrem Kreislauf wiederum den Zustand passiert, aus dem heraus dieses Werk entstanden sein mag» (Die Dramen, cit., p. 546).
[22] I termini usati comunemente dalla critica sono Nachdichtung e – giustappunto – Bearbeitung. Non è questa la sede per trattare approfonditamente tale argomento, già oggetto di dibattito a partire proprio da quegli anni; tra l’altro sul giudizio del lavoro di Werfel doveva pesare molto il confronto con la quasi contemporanea traduzione delle Troiane – questa sì filologica – di Wilamowitz (Griechische Tragödien, 3. Band, Weidmann, Berlin 1906): cfr. E. Hitschmann, Die dramatischen Bearbeitungen des Troerinnenstoffes in der deutschen Literatur, Diss. Universität Wien 1931, pp. 13-14 e soprattutto R. Petsch, ‘Die Troerinnen’ einst und jetzt, in «Neue Jarbücher für das klassische Altertum» n. 39, 1917, pp. 522-550.
[23] Werfel in persona comunica per lettera all’editore Kurt Wolff (September/Oktober? 1919) la notizia che le Troerinnen sarebbero state rappresentate al Burgtheater quattordici giorni dopo e che per questa messa in scena avrebbe composto un nuovo prologo (K. Wolff, Briefwechsel eines Verlegers 1911-1963, cit., p. 334). Rispetto ai quattordici giorni annunciati da Werfel, la rappresentazione ebbe luogo ben più tardi. È sempre Werfel che in una risposta a Wolff del 17.III.1920 si lamenta di aver dovuto ancora una volta spostare la «Aufführung wegen Besetzung, Kostümen und anderen Schweinereien» (ivi, p. 342).
[24] Per questa interpretazione cfr. W. Schmidt-Dengler, Die Bearbeitung der Troerinnen des Euripides durch Franz Werfel, in Jugend in Böhmen. Franz Werfel und die tschechische Kultur – eine literarische Spurensuche, hrsg. von M. Schwidtal-V. Bok, Edition Praesens, Wien 2001, pp. 77-82.
[25] «Il fanciullo (Kind) annuncia e scandisce un contenuto rivelato che lo rende al contempo mediatore divino e figura di Cristo»: così M. Bambozzi, Al di là degli eroi: retorica e drammaturgia della morte eroica dalle Troiane di Euripide alle Bearbeitungen di F. Werfel, cit., p. 361, alla quale si rimanda per un approfondimento su questo personaggio. A prescindere dal particolare significato attribuito a questa figura, l’apparizione del suo phantasma sembra richiamare il medesimo modulo – non comune nel teatro greco – che Euripide utilizza nel prologo dell’Ecuba: qui lo spettro di Polidoro, il figlio di Ecuba proditoriamente ucciso dal re di Tracia Polimestore, recita il monologo iniziale, forse stando in alto sopra la skené (ma questo ultimo dato è molto discusso); il suo cadavere – come quello di Astianatte – sarà poi portato sulla scena (terzo episodio) e compianto da Ecuba nel commo con il coro. Analoga in Werfel è anche la sequenza scenica del passaggio dalla battuta del fanciullo alla monodia di Ecuba; si potrebbe dunque pensare a una sorta di contaminazione tra le due tragedie euripidee, che presentano fra loro molti punti di contatto.
[26] Non è possibile nel presente lavoro esaminare le numerose varianti apportate da Werfel; basti solo citare la realizzazione del coro e dei corali, l’accentuato “dionisismo” della pièce e non solo del personaggio di Cassandra, l’intrigante figura di Elena, il ricorso a grandi scene di massa, tipiche dell’opera lirica (riflesso della grande passione dell’autore per Verdi), la varietà di registri stilistici e musicali, con effetti di risonanze verbali e ritmiche; per una panoramica generale si rimanda a C. Horn, Remythisierung und Entmythisierung. Deutschsprachige Antikendramen der klassischen Moderne, Universitätverlag, Karlsruhe 2007 (sulle Troerinnen, pp. 207-232).
[27] Questo stesso gesto – di grande valenza simbolica – è compiuto anche da Ecuba, secondo una novità di Werfel, poco prima dell’arrivo di Elena; significativo anche il ritrarsi quasi improvviso di Elena, quando vedrà Ecuba scoprire lentamente il viso, per ristabilire la comunicazione con Menelao.
[28] «Die Pflicht des Menschen ist, zu leben! Und das Leben des Menschen ist die Pflicht»: così Werfel nella Vorbemerkung alla prima edizione (Die Dramen, cit., p. 548). Per questa lettura in chiave religiosa del personaggio di Ecuba, cfr. A. Jhala, Die poetologische Rekursivität des Mythos, cit., pp. 97-103.
[29] Cfr. K. Wolff, Briefwechsel eines Verlegers 1911-1963, cit., p. 109; in un’altra lettera immediatamente successiva (5.V.1916) l’editore annuncia a Werfel tutte le città e i teatri dove saranno rappresentate le Troerinnen (ivi, pp. 110-111). Per maggiori notizie sulle diverse messe in scena di questa tragedia (e dell’intera produzione teatrale) di Werfel nella prima metà del Novecento, si rimanda a H. Meister, Franz Werfel und ihre Inszenierungen auf der deutschsprachigen Bühne, Diss. Universität Köln 1964 (per le Troerinnen, cfr. pp. 55-93, mentre alle pp. 263-264 si trova un elenco cronologico con data, luogo, regista, scenografo e numero di repliche delle più importanti rappresentazioni).
[30] Tratta dal testo 25 Jahre Berliner Theater unter Victor Barnowsky, hrsg. von J. Berstl, Gustav Kiepenheur, Berlin 1930, p. 40.
[31] Cfr., in particolare, l’anonimo recensore in «Neue Freie Presse», Wien, 28. Mai 1916, p. 18; cfr. anche S. Jacobsohn, Die Troerinnen, in «Die Schaubühne XII», n. 24, 1916, pp. 428-430 e A. Polgar, Die Troerinnen, ibidem, pp. 599-601.
[32] «Die elf Szenen des Schauspieles werden wie elf Strophen eines Heldenliedes vorgetragen; das Drama wird zur ergreifenden Rhapsodie»: così in «Neue Freie Presse», cit., p. 18.
[33] Citazioni e critica da «Neue Freie Presse», cit., p. 18.
[34] Cfr. F. Herterich, Zur Inszenierung der Troerinnen, in «Blätter des Burgtheaters», n. 9, 1920, pp. 12-21; come risulta da una cronaca dello spettacolo teatrale, il regista stesso interpretava il ruolo di Poseidone: cfr. «Neue Freie Presse», Wien, 21 Mai 1920, p. 8.
[35] Cfr. «Neue Freie Presse» (1920), cit., p. 8.