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È appena apparso per i tipi di Edizioni di Pagina il volume «Vi metto in mano il testo perché ne possiate diventare voi gli autori». Scritti per Franco Perrelli, a cura di Simona Brunetti, Armando Petrini, Elena Randi.

Professore Ordinario di Discipline dello Spettacolo all’Università di Torino (e da un paio di anni a Bari), Franco Perrelli (nella foto centrale), di cui in questo libro si festeggiano i settant’anni, ha rivestito impegnativi incarichi istituzionali nell’Accademia e ha pubblicato scritti scientifici di grande rilievo. Le linee-guida del volume sono le quattro tematiche forse prevalenti nella sua ricerca. Ciascuno dei 40 amici-studiosi e uomini di teatro a cui si devono gli interventi ha focalizzato infatti il proprio contributo su uno di questi argomenti: Teatro e letteratura nordiciTeorie e poetiche del teatroRegiaActor. A ciò si aggiungono le Testimonianze su alcuni aspetti dell’attività extra-accademica di Perrelli (vedi sotto l’elenco dei contributori). Riproduciamo qui le prime pagine della testimonianza del regista e amico Walter Pagliaro, che porta il titolo Perrelli sonnambulo.

WALTER PAGLIARO

Perrelli il sonnambulo

C’è un frammento di memoria che da qualche giorno mi assilla: quale spettacolo stesse provando Franco Perrelli, sul finire degli anni Sessanta a Bari. Mi riferisco probabilmente a una sera, o a più sere di cinquanta anni fa, o forse anche di più: parliamo del 1968 o ’69. Eravamo in quegli anni fantastici in cui tutto sembrava possibile, per via della nostra giovinezza naturalmente, ma soprattutto perché nell’aria c’era una energia incontenibile che spingeva al cambiamento e al sovvertimento delle gerarchie. Ci nutrivamo tutti di una linfa imprevedibile che sembrava sollevarci da terra e proiettarci in una sfera poco conosciuta e sperimentata: la creatività. Quei mesi fatidici archiviavano un mondo conservatore e repressivo per sollecitare in tutti noi la scoperta di una dimensione moderna del pensiero e della politica: «La fantasia al potere», espressione-chiave per comprendere il senso di quei giorni, non era soltanto uno slogan ma una vera e propria strategia culturale e sociale. I ragazzi si riunivano continuamente in assemblee e gruppi di studio autodisciplinati per discutere di uguaglianza e libertà.

Era fatale che un giovane aprisse, anche solo per curiosità, la porticina di una sala o di uno scantinato dove altri coetanei azzardavano una qualche simulazione di cerimonia teatrale. Naturalmente anche il teatro, in quei giorni, rompeva gli argini invadendo le strade, come facevano gli eroi del Living Theatre, o sconfinando nell’“anima” come i proseliti del polacco Jerzy Grotowski.

A me pare che Franco Perrelli, fin da quegli anni, sia stato affascinato da una strada più favolistica e popolare: quella leggendaria e antropologica di Eugenio Barba che del Maestro polacco era stato allievo, nei primi tempi della sua migrazione avventurosa dal Salento verso il nord Europa.

Alla fine degli anni Sessanta, si faceva un gran parlare e scrivere, di spettacoli prodigiosi come Ferai, in cui il gruppo dell’Odin Teatret, fondato da Barba, smontava completamente l’impalcatura della tragedia di Euripide, trasformando la vicenda di Alcesti e Admeto: la dialettica vita-morte con tutto l’armamentario escatologico, veniva sostituita da una lotta per il potere fra un’arcaica tirannia e una moderna monarchia, ancora più crudele e iniqua della precedente, perché fondata sull’inganno. Gli spettatori di quella famosa creazione (non più di sessanta) prendevano posto su due file di sedie che delimitavano in senso longitudinale, appena incurvate, lo spazio scenico: trenta persone da una parte e trenta dall’altra. In mezzo era collocato un grande uovo di legno bianco ed una coperta ai cui margini erano stati legati dei sassi. Non vi era illusione scenica; la luce era fissa e lo spazio, così nudo ed essenziale, diveniva ugualmente magico grazie all’energia seducente dei corpi degli attori e all’ambiguità folgorante di pochi simbolici oggetti: quell’uovo di avorio che diveniva il volto del vecchio Re, o il coltello-piffero con cui il nuovo Re, Admeto, conduceva il popolo danzante fuori dalla sala, dopo il suicidio di Alcesti.

Ho voluto citare quello spettacolo perché a me pare che Franco, in quei giorni lontani, stesse allestendo qualcosa di simile, almeno dal punto di vista formale: per ricostruirlo io posso purtroppo contare solo su indistinti frammenti che riaffiorano alla memoria in maniera troppo incerta, per essere attendibili. Le prove si svolgevano sicuramente in un seminterrato della Casa dello studente di Bari, sede del Centro Universitario Teatrale: la sala era lunga e stretta, bassa e angusta come un tunnel. Ricordo Franco aggirarsi, sottile come un’ombra, fra una serie di panche sistemate a ridosso delle pareti, molto attento a definire la posizione di piccole lampadine appese al soffitto, come fossero stelle tremolanti di un misterioso esterno/interno. Una parte del pavimento era coperta da un tappeto frastagliato di colore azzurro intenso: su quel lembo di mare scivolava, a un certo punto, un semplicissimo “praticabile teatrale” che sicuramente simulava una zattera, perché sopra era disteso un uomo attorniato da valigie. Franco si muoveva con leggerezza, dando disposizioni a un elettricista di accendere quelle lampadine che, mantenute a una bassa gradazione, sembravano punteggiare un cielo caldo e tranquillo come accade nei tramonti d’estate. Questa immagine mi è chiara nella mente: è come se la vedessi oggi davanti ai miei occhi. Anche Franco, magrissimo quasi bidimensionale impegnato ad agitare l’aria con i suoi gesti esplicativi, io lo rivedo chiaramente; ma il testo che egli stesse mettendo in scena non riesco proprio a ricordarlo. Ho evitato di fare indagini presso amici comuni per non destare strani allarmi. Così mi sono convinto, probabilmente per mia tranquillità personale, che egli stesse provando L’isola dei morti di Strindberg. In qualche momento ho curiose sensazioni che mi spingono a credere che fosse lui a interpretare il ruolo del Maestro che accoglieva un professore sessantenne sull’isola, dopo “la prima morte” e lo mettesse di fronte ai suoi errori e ai suoi passi falsi. È molto più probabile che Franco non recitasse, non avrebbe mai commesso questo errore pieno di vanità; forse, più realisticamente, egli spiegava all’attore sdraiato sul “praticabile” che il personaggio da studiare stava attraccando su un’isola distante dalla vita ma non ancora del tutto “dimentica della vita”, come avrebbe detto il filosofo Swedenborg. Ho la sensazione, che fin da allora, Franco avesse l’inclinazione a insegnare e fosse molto affascinato da quella favola nordica di Strindberg che rappresentava l’approdo di un professore appena morto su un’isola dove egli sarebbe stato sottoposto a una esperienza ulteriore della vita appena lasciata. Per Strindberg infatti, il “dopo vita”, fluttuava da un arcipelago all’altro, trasformando il male fatto in rimpianto di bene, il brutto incontrato in spinta verso il bello: così di isola in isola, fino alla conquista della purezza assoluta. Io naturalmente non sono certo che Franco raccontasse a quell’attore questi pensieri, anzi certamente gli parlava d’altro. La memoria che ho dei suoi gesti e del suo sorriso che è sempre (ieri come oggi), ironico e dolce insieme, mi fa credere che egli stesse dicendo a quel professore sdraiato sul praticabile che l’educazione, l’insegnamento, la scuola, dovessero essere il significato dell’esistenza: esattamente come sarebbe accaduto a Franco stesso per cinquant’anni. (...)

GLI AUTORI

Testimonianze
Walter Pagliaro, Egidio Pani, Maria Grazia Porcelli, Marco Bernardi, Gabriele Lavia

Teatro e letteratura nordici
Roberto Alonge, Nicola Savarese, Giuliano D’Amico, Maria Pia Pagani, Massimo Ciaravolo, Bent Holm, Carla Tatò, Giuliana Pititu

Teorie e poetiche del teatro
Maristella Trombetta, Leonardo Mancini, Silvia Mei, Paola Degli Esposti, Luigi Allegri, Francesco Cotticelli, Stefano Mazzoni, Marco De Marinis, Eugenio Barba, Antonio Attisani

Regia
Elena Randi, Paolo Quazzolo, Raimondo Guarino, Sonia Bellavia, Maria Ida Biggi, Simona Brunetti, Alessandro Tinterri, Alberto Bentoglio, Lorenzo Mango, Armando Petrini

Actor
Mirella Schino, Anna Maria Testaverde, Gerardo Guccini, Renzo Guardenti, Vito Di Bernardi, Donatella Orecchia, Alessandro Pontremoli

 

La copertina e la prima foto sono del compianto Arturo Cucciolla, dalla mostra "1968/1969 quegli anni – fotografie di Arturo Cucciolla"(Bari, Museo civico, 13 dicembre 2019-19 gennaio 2020), il cui catalogo, edito da Adda editore, si può acquistare qui: https://www.addaeditore.it/products/1968-1969-quegli-anni-fotografie-di-arturo-cucciolla