Il tessuto delle Muse. Musica e mito nel mondo classico di Massimo Raffa (premessa di Mario Lentano dal titolo "Or dov'è il suono di que' popoli antichi?"), 203 pagine, è il primo volume - appena apparso- della raffinata collana ‘La lira di Orfeo’ diretta per Inschibboleth da Graziana Brescia (si può acquistare qui).
Riproduciamo, lievemente adattate per le esigenze del blog e senza le note, alcune pagine dal capitolo Musica che distrugge: Dioniso, sul ruolo della musica nelle Baccanti euripidee, ringraziando l’autore e l'editore per aver permesso questa anticipazione. Le immagini sono tratte da “The Bacchae” dirette da Aris Biniaris (2018) per la Fondazione Onassis (documentazione qui).
Perché Euripide, quasi ottuagenario, abbia scelto proprio il mito di Dioniso per congedarsi dal teatro tragico e dal mondo, non sapremo mai con certezza; quel che è certo però è che Le Baccanti sono una delle opere più potenti e sfuggenti di tutta la letteratura, non solo greca.
Se ne parliamo qui, è perché la musica vi gioca un ruolo profondissimo; tanto che la si potrebbe definire come una tragedia sul potere dell’espressione musicale. Dioniso giunge a Tebe sotto l’aspetto di uno straniero, con un seguito di donne, anch’esse straniere: vengono dallo Tmolo, un monte della Lidia, nell’entroterra di Smirne. Il dio stesso le esorta, alla fine del prologo, a suonare i loro tamburi orientali:
voi […] donne che da genti barbare ho condotto con me […] alti levate i timpani ben in uso nella terra frigia, un’invenzione che appartiene alla madre Rhea e a me. Venite qui, intorno alla casa del sovrano, la dimora di Penteo, e percuotete [ktypeîte] questi tamburi, affinché vi veda [hōs horâi] la città di Cadmo.
I tamburi delle baccanti sono timpani: somigliano un po’ ai nostri tamburelli, ma ben altro è l’orizzonte di esperienza che evocano, come vedremo. L’arrivo di questo coro di donne possedute dal dio è dunque, innanzitutto, un evento sonoro; ma si traduce immediatamente in un’apparizione alla vista.
La coesistenza in un singolo, potentissimo verso, di un verbo della sfera auditiva e uno di quella visiva (ktypeō e horaō) mostra che quel suono di tamburo è il varco da cui la radicale alterità del dionisismo irrompe nell’orizzonte teatrale, che è orizzonte essenzialmente visivo (theatron è da theaomai, «guardare»). Qui non c’è ancora “musica” nel senso che i filosofi greci daranno alla parola, cioè unione di melodia, ritmo e parola: c’è invece un suono originario e indistinto – non a caso Dioniso associa il tympanon a Rhea, la Grande Madre, da identificare forse con la dea Cibele: una potenza primordiale, che viene dalla terra, prima d’ogni distinzione, prima d’ogni Olimpo. Da questo magma timbrico emerge la parola:
Dalla terra d’Asia,
lasciato il sacro Tmolo, accorro:
dolce impegno, per Bromio,
fatica che non affatica;
e Bacco celebro con grida di euoè.
Chi è nella strada? Chi è nella strada?
Chi è in casa? Ognuno si discosti,
e tenga la bocca in religioso silenzio.
Con modi da sempre in uso
canterò Dioniso.
Le baccanti occupano prepotentemente lo spazio fisico («Chi è nella strada? Chi è nella strada? Chi è in casa? Ognuno si discosti») e acustico («e tenga la bocca in religioso silenzio») per levare un inno a Dioniso. La strofa introduttiva del coro finisce appunto con un tempo futuro, hymnēsō, «canterò un inno».
L’inno, che è musica nel senso già ricordato, non è ancora iniziato: quello che abbiamo ascoltato e visto è il dirompente gesto fondativo con cui, dopo aver conquistato il campo dell’udibile e del visibile, si è creato lo spazio per il canto. Questa strofetta, che tecnicamente è un “proodo” (cioè una introduzione alla parodo, il canto d’ingresso del coro), riepiloga in nuce tutta la tragedia: la quale a sua volta non sarà se non sconvolgimento e rifondazione, in grande, dello spazio della città, affinché si possa affermare la divinità del figlio di Semele.
Più avanti, nella parodo, la partitura di Euripide si arricchisce di una nuova voce: quella del soffio degli auloi frigi, che i sacerdoti di Rea «mescolarono» (kerasan) al suono dei tamburi. Della matrice corporea e viscerale che accomuna tamburi e auloi abbiamo già detto; qui converrà notare che l’entrata dei nuovi strumenti non segna, a giudicare dal modo in cui Euripide descrive il suono, alcuna espansione verso regioni più diafane, né, in generale, alcuna forma di distinzione.
Il suono degli auloi è un «soffio di voce che dà piacere» (hēdyboās): il che dice dell’origine del suono e del suo effetto psicologico, ma non della sua collocazione nello spazio sonoro. D’altro canto, l’uso del verbo kerannymi, «mescolare», fa pensare che Euripide abbia in mente un suono che si ispessisce per concrezione di timbri più che differenziarsi per piani sonori. L’impressione è rafforzata dalla conclusione del canto corale, in cui gli elementi costitutivi della performance sono richiamati tutti insieme, come in una sorta di ricapitolazione sinfonica:
Cantate Dioniso al suono cupo dei timpani,
con euoè salutate il dio dell’euoè,
con grida di voci frigie,
quando il sacro dolcesonante aulos
di sacri motivi risuona,
in sintonia con le delire che corrono
verso il monte verso il monte.
Nella traduzione si perde, di necessità, il ricorrere della radice che indica il tremore: i tamburi sono barybromoi, ossia hanno un suono grave (barys) e comunicano una sensazione di tremore o fremito (bromos); il grido lanciato dal dio è espresso con il verbo bremō, connesso a bromos, che non è semplicemente «gridare», ma «gridare in un modo che scuote, che induce al tremore»; bromios è epiteto di Dioniso; anche per indicare il suono degli auloi fatti in legno di loto, evocati alla fine della parodo, Euripide usa il verbo bremō.
Tutto, insomma, porta verso una tessitura grave e densa, che proprio per le basse frequenze e per la potenza del volume viene percepita come un tremito. Per gli iniziati ai riti del dio, questa musica è dolce, hēdys (aggettivo di cui ci è già accaduto di parlare). Per tutti gli altri, e ancor più per chi nega tout court la divinità di Dioniso, essa è disagio, minaccia, sovvertimento.
Dietro la rappresentazione di questa irruzione di una musica “altra” – una vera e propria invasione da oriente – vi è probabilmente un fenomeno storico: l’insediamento in Beozia, tra VIII e VII secolo a.C., di una tradizione auletica proveniente dalla Frigia e dalla Lidia e giunta in Europa sulla scia della diffusione del culto di Cibele; tradizione che attecchisce assai presto e bene, e nel giro di qualche generazione fa di Tebe il centro per eccellenza del virtuosismo auletico in Grecia, forse anche grazie alla presenza, poco più a nord della città di Penteo, del lago Copaide, che offriva un ottimo ambiente per la crescita delle canne da cui si ricavavano le ance dello strumento.
Tebe, la città fondata da Cadmo e Armonia sta quindi per essere travolta da una potenza che attinge profondità acustiche e corporee letteralmente inaudite: un fremito tellurico indistinto di pelli di tamburo, ance di auloi e voci femminili che innesca, potremmo dire per simpatia, analoghe vibrazioni nelle cavità dei corpi e nelle connessure dell’ordine costituito.
Musica che distrugge.
Distrugge, per cominciare, gli stereotipi sociali. Cadmo, fondatore della città e re emerito, e Tiresia, l’indovino, sono due vegliardi. Penteo li vorrebbe seri, gravi, autorevoli, secondo il ruolo che la mentalità greca assegna alla vecchiaia; e invece eccoli, mano nella mano, inghirlandati d’edera, pronti a danzare per il nuovo dio forestiero, dopo che Tiresia è passato a prendere Cadmo a casa, come fanno gli adolescenti di tutti i tempi.
Distrugge, poi, gli stereotipi di genere. Nel mondo di Penteo, il posto delle donne è in casa, ad attendere ai lavori femminili, primo tra tutti il telaio; invece adesso, al suono del corteggio dionisiaco, le tebane lasciano le loro case e a frotte se ne vanno sul Citerone, reggendo in mano i tirsi, coperte anche loro, come Cadmo e Tiresia, d’edera e pelli di cerbiatto.
Un episodio simile è ricordato da Aristosseno, filosofo dai molteplici interessi, formatosi a Taranto, nella Magna Grecia, e poi divenuto brillante allievo di Aristotele. Racconta Aristosseno che a Locri e Reggio, in Magna Grecia, le donne cadevano preda di improvvisi attacchi di frenesia e, lasciate le loro case, come obbedendo a una chiamata udibile soltanto da loro, fuggivano tutte insieme dalla città.
È probabilmente uno degli incubi peggiori dell’uomo greco (o forse dovremmo dire greco e romano; o forse, chissà, dell’uomo tout court): perdere il controllo sulla donna. Padri e mariti allarmati si rivolgono a un oracolo, che prescrive di intonare peani (cioè canti per Apollo), per sessanta giorni consecutivi, in primavera. Così si spiegava, aggiunge Aristosseno, il numero ragguardevole di compositori di peani fioriti da quelle parti.
Nella storia narrata da Aristosseno, sia essa vera o meno, la musica pare essere la soluzione del problema; a Tebe, invece, si verifica l’opposto. La secolare impalcatura di modelli virtuosi, divieti, sanzioni sociali che tiene le donne nel posto loro assegnato dal potere maschile sta sgretolandosi, sotto gli occhi di Penteo, all’irrompere del bromos dionisiaco – quell’amalgama grave e oscuro di tamburi, auloi e voci; e non c’è nessun peana che trattenga la regina Agave, le sue sorelle e tutte le donne di Tebe dal correre verso le cime del Citerone.
Per Penteo tutto ciò è insopportabile. Ai suoi occhi, il culto di questo falso dio è un’occupazione per sfaccendati e ubriaconi – i suoi pregiudizi ricordano quelli espressi da Zeto sulla musica nell’agone dell’Antiope, quando rimprovera al fratello di aver portato a Tebe un’arte «pigra, amante del vino, che allontana dalla cura del patrimonio» (moûsan… argon, philoinon, chrēmatōn atēmelê). Alle sue orecchie, poi, la musica delle baccanti è soltanto un orribile frastuono da far cessare al più presto.
Quando crede di aver imprigionato lo straniero che in realtà è Dioniso, gli annuncia il proposito di catturare anche le donne del coro – dunque non solo le sue suddite tebane, ma anche le donne asiatiche giunte insieme al dio – per poi venderle come schiave oppure tenerle a Tebe a lavorare al telaio, «dopo aver fatto cessare le loro mani da questo strepito e da questo battere di pelli». Penteo, ormai lo si sarà capito, è ossessionato dal controllo, e la sua ossessione si appunta su alcuni dettagli che Euripide evidenzia con prodigioso acume psicologico. Prima di tutto, le mani: mani che levano in alto i tympana, che scuotono i tirsi, che si protendono a cercare nuovi proseliti; e mani nude saranno, alla fine, quelle che lo faranno a pezzi.
Così, Penteo respinge con ribrezzo la mano del nonno che gli si avvicina per offrirgli una corona d’edera, quasi fosse foriera di contagio («Fermo con questa mano!… non pulire su di me la sozzura della tua follia!»).
Nella frase rivolta allo straniero, che abbiamo ricordato, v’è poi un elemento in più. Il desiderio del re che le mani delle donne, lasciati i tamburi, tornino al posto che compete loro, cioè al telaio, dice tutta la sua misoginia. Ripercorrendo a ritroso la vicenda che fa dell’atto del tessere, fin dalle Muse esiodee, uno dei più forti archetipi del canto, Penteo vorrebbe riportare quelle donne al mormorio innocuo e addomesticato della spola, sul limitare del silenzio.
E ancora, nel suo ostinato rifiuto di aprirsi al mistero del rito dionisiaco, egli si riferisce al tympanon senza nominarlo se non per sineddoche, come a negargli dignità di strumento e ridurlo a uno dei suoi elementi costitutivi, la sola pelle d’animale: quello che per le baccanti è «il cerchio che tende una pelle tesa» (byrsotonon kyklōma) per lui è «baccano» (doûpos) e «battere di pelli» (byrsēs ktypos).
Poi vi è l’altra ossessione di Penteo, la sessualità delle baccanti; e anche in questo caso la musica pare giocare un ruolo importante. Nell’Anfione Zeto è convinto che anche una natura nobile (physis… gennaia) come quella del fratello possa essere ridotta a una caricatura effeminata di sé stessa per opera della musica. Penteo sembra spingersi oltre, poiché la sua ira si rivolge alle donne, che non possono neppure vantare, come Anfione, una natura nobile, ma sono di per sé inclini alla depravazione.
La convinzione che la donna sia intrinsecamente infedele e promiscua, e che soltanto un ferreo sistema di regole possa tenere a freno questa sua natura, è antica quanto la civiltà greca stessa e non muta neppure nel mondo romano, dal cosiddetto Giambo contro le donne di Semonide fino alla sesta Satira di Giovenale. Penteo non fa eccezione: secondo lui l’arrivo del dio straniero è per le donne tebane un mero pretesto per andare sul monte a dare sfogo ai loro istinti più bassi, approfittando dell’orgiasmos dionisiaco per «prestare il loro servizio agli amplessi dei maschi; la loro scusa è che sono menadi officianti, solo che anziché a Bacco la precedenza la danno ad Afrodite».
La sfrenatezza sessuale delle baccanti è da lui associata all’ebbrezza indotta dal vino: lo capiamo dal racconto del messaggero, che narra al re come le donne da lui spiate sul monte (tra cui la madre e le due zie di Penteo) si trovassero in una condizione di quiete assoluta e di piena armonia con la natura; e aggiunge che esse, per nulla «ubriache del vino che scorre dai crateri e del suono degli auloi di loto, come tu – cioè, appunto, Penteo – vai dicendo, non ricercavano affatto Cipride nel bosco, appartandosi».
Non possiamo non citare le parole di Euripide: «non… avvinazzate di cratere e di suono di loto» (ouch… ōinōmenās kratêri kai lōtoû psophōi): con un potente zeugma, il poeta esprime il pensiero di Penteo mettendo il suono dell’aulos sullo stesso piano sintattico e concettuale del vino, come se nella mente del re la musica fosse qualcosa di cui ci si potesse ubriacare – insomma, qualcosa che potesse far perdere il controllo di sé. Come vedremo, la lira o la cetra, specialmente se unite alla voce del cantore, possono essere strumenti di edificazione morale per donne e uomini.
Il suono dell’aulos, invece, sembra possedere tutte le qualità per annientare la già fragile virtù muliebre: è cangiante e seducente; è alternativo al logos perché occupa il suo stesso terreno, quello della voce; permette di suonare non solo le note, ma tra le note, cioè di eseguire sensuali portamenti e glissandi.
L’ultimo accenno alla musica nelle Baccanti si trova un po’ prima della metà della tragedia, nel secondo stasimo. Il coro delle donne d’Asia, rivolgendosi al dio, gli chiede:
Dove sei tu? a Nisa, forse,
altrice di fiere, con il tirso attivi i tuoi tiasi, Dioniso?
O forse sulle vette del Parnaso?
O piuttosto per le forre dell’Olimpo
ricche di alberi, dove Orfeo
un tempo, suonando la cetra,
radunava gli alberi con le sue musiche,
radunava le fiere selvagge?
Questo è anche l’unico accenno a uno strumento cordofono in tutta la tragedia; forse non per caso, poiché lo stasimo si chiude con una serie di immagini felici, con il dio che conduce le sue menadi danzanti nelle feconde regioni a nord della Grecia. Non vi è furia qui, non vi è bromos; per un istante, vediamo l’aspetto idillico del dionisismo, in un quadro che appare del tutto coerente con il richiamo al potere pacificatore della cetra di Orfeo.
Ma è, appunto, un istante. Da questo momento in poi tutto corre verso la catastrofe. Lo straniero, messo in catene da Penteo, si libera miracolosamente, distruggendo la casa del re. Le baccanti tebane, attaccate da un gruppo di bovari e pastori sprovveduti che vogliono acquisire meriti agli occhi di Penteo, reagiscono con terribile violenza, devastando la regione, smembrando vivi gli animali domestici e mettendo in fuga gruppi di uomini armati.
Penteo cade nella trappola del dio e si lascia convincere a travestirsi da menade per poter osservare da vicino i riti delle donne, da lui ritenuti lascivi e perversi; fatto salire da Dioniso su un albero, viene individuato, tirato giù e fatto a brani proprio dai tre tiasi di menadi guidati da Agave, Ino e Autonoe. Inaugura lo sparagmos la madre, accecata da Dioniso, che non riconosce il figlio implorante e gli stacca un braccio con tutta la spalla, a mani nude. Soltanto alla fine del massacro, quando l’unica parte riconoscibile di Penteo sarà la testa, che le donne trionfanti porteranno in città conficcata su un tirso, Agave tornerà in sé, guidata dalle domande di Cadmo che la condurranno a comprendere cosa è davvero accaduto sul Citerone. La vendetta di Dioniso è compiuta: tutto è pronto adesso per la sua ultima apparizione, stavolta non sotto l’apparenza di uno straniero, ma ex machina, da vero dio. Cadmo e Armonia saranno mutati in serpenti e lasceranno Tebe; anche Agave, cui spetta l’explicit della tragedia, andrà in esilio con le sorelle:
Voglio andare in qualche parte dove
né il Citerone veda me, l’immondo,
né io il Citerone con questi miei occhi
né dove l’offerta votiva del tirso
sollecita ricordi:
altre facciano le baccanti,
a queste cose ci pensino loro.
E la musica? Nel momento più terribile della vicenda tragica, essa sembra scomparire dai pensieri dei personaggi: dopo l’attacco del terzo stasimo, in cui le donne richiamano genericamente l’idea della danza, neppure il coro ne fa più menzione.
C’è una spiegazione? Forse potremmo azzardarne una. Nelle Baccanti vi sono due gruppi di menadi: quello che arriva dall’Asia con il dio, cioè il coro, e quello delle donne tebane, formato dai tre tiasi capeggiati da Agave, Ino e Autonoe.
Il primo ha abbracciato spontaneamente il culto e crede sinceramente nella nuova divinità; esegue i canti corali e non commette mai atti violenti, né contro esseri umani né contro animali. Il secondo gruppo, invece, comprende le donne che hanno rifiutato e vilipeso la natura divina di Dioniso, il quale le ha invasate soltanto per mandarle in rovina – tanto è vero che alla fine abbandoneranno i riti dionisiaci, come dice Agave. Queste donne non cantano mai, e sono loro a compiere gli atti efferati che abbiamo descritto. I due gruppi rimangono ben distinti in tutta la tragedia. Nell’epilogo cruento della vicenda, le baccanti del coro apostrofano Agave e le altre tebane con amaro sarcasmo, così da un lato marcando la distanza tra sé e le indigene, dall’altro sancendo l’impossibilità per queste ultime di cantare altro che un goos, un compianto funebre, quasi che ad esse sia precluso l’inno dionisiaco vero e proprio, quello che comprende anche le immagini di pace e gioia che invece ricorrono negli stasimi da loro intonati:
O baccanti cadmèe,
insigne inno di vittoria eseguiste,
ma si trasformò in lamento funebre [es goon], in
lacrime [es dakrya].
Un bel successo, bello davvero,
avvolgere la mano gocciolante
nel sangue del proprio figlio!
Insomma, a tragedia finita le donne di Tebe non sono più baccanti; anzi, vorremmo suggerire, non lo sono mai state veramente. La loro rovina sancisce la fine di un rituale ferino, violento e privo di musica, in favore di uno più saggio (“saggio” non – si badi – nel senso della saggezza razionale, ché, come canta il coro, «il sapere non è saggezza», to sophon ou sophia, ma nel senso di una comprensione dei limiti della ragione di fronte al mistero religioso), in cui la violenza dello sparagmos (lo squartare animali vivi a mani nude) e dell’ōmophagia (il mangiar carne cruda) rimane nel canto come stilema e topos, ma scompare dall’agire pratico.
Il discrimine tra questi due culti pare essere, appunto, la presenza dell’espressione musicale; come se, distrutti da un lato il conservatorismo ottuso e misogino di Penteo, travestito da razionalità, e dall’altro la violenza cieca e ancestrale delle donne tebane, travestita da culto bacchico, rimanesse un rito che imbriglia e in qualche modo purifica una originale ferocia attraverso il potere catartico – o, se si preferisce, terapeutico – della musica: il vero culto di Dioniso.
Se queste considerazioni non sono del tutto campate in aria, potremmo lasciare da parte l’interpretazione vulgata delle Baccanti come rappresentazione del conflitto tra razionalismo e irrazionalismo, e con essa l’annosa questione se Euripide parteggi per Penteo o per Dioniso – questione che irrimediabilmente immiserisce il tragico, il quale non è nato per dare risposte, ma per porre gigantesche domande –, e potremmo invece provare a vedere nella nostra tragedia l’ultima tappa di una riflessione sul rapporto tra la musica e il dolore della condizione umana che pare aver accompagnato Euripide fin dalle sue prime opere a noi note – fin da quando, ad esempio, proprio all’inizio della guerra del Peloponneso, aveva posto in bocca alla nutrice di Medea l’augurio che gli uomini trovassero nella musica e nel canto un rimedio alle proprie sofferenze.