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    Nella Ferrara «città delle sorprese», delle «splendide apparizioni di spettralità e bellezza sottile», scenario ideale per l’ombra nobile e bella della Alcesti euripidea, Giorgio de Chirico conobbe una giovane donna (Antonia Bolognesi) e la trasfigurò in Alcesti.

Era il 1918, la guerra appena terminata. Attraverso la memoria della ‘mitica’ moglie ideale, resa celebre da Euripide, de Chirico creò il suo classico: dipinse Alcesti / Alceste, eidolon della sua Antonia. Il pictor classicus scelse non a caso questa figura del mito tragico, e non a caso Euripide, per avviare la riflessione su un concetto cardine nella sua artistica Weltanschauung: l’equazione arte-tragedia. Il percorso di questa scelta diventò più chiaro nel 1922-1923, quando de Chirico dipinse l’Autoritratto (con busto di Euripide) dove risaltava un’epigrafe, tenuta dal pittore fra le mani, un’epigrafe certo eloquente: Nulla sine tragoedia gloria. Euripide appariva «come immagine “metafisica”, allusiva e metaforica del pittore»; questa, a sua volta, poteva intendersi complementare all’immagine euripidea di Alcesti, doppio simbolico di Antonia, ma non solo, perché l’«eroina che vince la morte con la fedeltà» era anche, forse soprattutto, «immagine della passione e della fedeltà all’ideale dell’arte».

La predilezione euripidea del Pictor Optimus era condivisa dal fratello Andrea, alias Alberto Savinio, che considerava Euripide l’artefice della «tragedia come arte», come «espressione mnemonica, intellettuale, ironica, e per tutto dire “artistica” del tragico della vita».

Fra i drammi di Euripide anche Savinio scelse Alcesti e costruì intorno a questo paradossale ed enigmatico personaggio una originale riscrittura. Accadde all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando la storia di Alcesti sembrò assumere valore anche in relazione alle inquietudini dell’uomo contemporaneo, intento nella titanica impresa di costruire una nuova umanità. Fra il 1947 e il 1948, in un’Italia disseminata di rovine, Savinio recuperò alla memoria il racconto, ascoltato a Roma nel 1942, della morte di una moglie, ebrea. Per la recrudescenza delle leggi di Norimberga, questa donna, non volendo essere d’ostacolo al marito – l’editore musicale Alfred Schlee –, si tolse la vita. Un ‘sacrificio al femminile’ che ricordò a Savinio quello di Alcesti e lo ispirò a scrivere una «Alcesti semita, una Alcesti di Samuele». Per questo lavoro, Savinio rilesse l’Alcesti euripidea, nella traduzione di Felice Bellotti, con commento e note di Olindo Guerrini, e consultò la traduzione di Ettore Romagnoli e quella commentata di Louis Humbert.

«Ho la certezza di fare un’opera molto importante», disse a Valentino Bompiani che, nel testo dell’amico, pur consapevole di certe asperità, ammise di vedere un «fiore rarissimo delle lettere». L’Alcesti di Samuele, pubblicata da Bompiani (Pegaso Teatrale, vol. 9, 1949), insignita del premio letterario Re degli Amici – tra i giurati c’era Corrado Alvaro, anche lui autore di una Alcesti –,  fu messa in scena al Piccolo Teatro di Milano nel 1950. Savinio curò anche scene e costumi; Giorgio Strehler firmò la regia dello spettacolo. L’Alcesti di Samuele fu un clamoroso insuccesso di critica e di pubblico.[1]

Altra Milano, altro Piccolo Teatro. Nel 2018, il Piccolo Teatro Melato aveva trasformato parte del suo spazio, rendendolo irriconoscibile, per la performance dei Rimini Protokoll, Nachlass, un itinerario iniziatico sul vivere e sul morire, scandito da otto porte che lo spettatore doveva attraversare. In questo dialogo di voci teso a tessere la trama di una moderna inchiesta sulla morte, sui suoi volti, sul tempo, su chi e cosa si lascia, sul significato che si dà alla vita, sui destini dei corpi separati dal limite della morte, si ritrovavano, disperse, alcune schegge dello ‘specchio’ di Alcesti.   

Ancora Milano, un altro Teatro, un altro tempo, un’altra Alcesti. Al Litta (Manifatture Teatrali Milanesi), il 25 settembre 2021, nell’ambito del Festival La cosa fra le cose. Poesia, azione pubblica, è stato possibile assistere all’installazione e al rito scenico di Fabio Orecchini Alcesti allo specchio, ispirato alla tragedia di  Euripide.

Abbiamo chiesto a Orecchini, che ringraziamo per aver accolto il nostro invito, di raccontare ai lettori di Visioni del Tragico questo suo lavoro, una contaminazione fra arte, scrittura poetica, performance sotto il velo di Alcesti e le sue infinite possibilità di rinascita, disvelamento e abbandono.

 

Raffaella Viccei

 

ALCESTI ALLO SPECCHIO
Installazione | Rito scenico

a cura di Fabio Orecchini

Sonorizzazione

Ivan Macera

 

 

'Improbabile' non è il contrario di 'probabile'.

  1. Ghosh

Alcesti è sulla porta del castello, disarticolata, incompiuta, è stata appena strappata -strattonata via- dall’Ade; è muta, scorporata, informe. Un fantasma di voce, a volto scoperto. Admeto cerca scuse con Eracle, è in lutto, dice, poi, finalmente, si rivolge alla donna: non lo spaventa la differenza, ma l’assoluta somiglianza dell’estranea con Alcesti.  La morte, notava Ernest Bloch, è la prospettiva del ritorno di ciò che ci appartiene e ci è simile e dissimile: regno del simulacro e del doppio. Eracle rompe la stasi, obbliga Admeto ad accogliere la donna, a riconoscerla. Admeto prima si rifiuta, poi la afferra, ma "come se dovesse tagliare la testa alla Gorgone" volge lo sguardo dall’altra parte. 

Nessun velo le copre il volto.

quale la sostanza dei giorni

diseredati, senza più giorni, come voltarsi, verso quale

ricordo ereditare un corpo astratto, fatto morto, sostanza

del ricordo il nostro volto, appeso a un fil di cielo e

d’occhi -inveduto incustodito inesausto- si lasciano

cadere

a mezz’aria, che non si possa più dire non ancora

Alcesti è nello specchio, è e non è più, abita uno spazio interfacciale stravolto, sfigurato dalla forma simbionte, polimerica e al contempo ologrammatica, famigliare ma straniata, perturbante, resistente alla forma, che la ghennaia assume nel corso dell’opera. 

Alcesti è nell’esodo, è dislocazione, diapora, sposizionamento: resiste alla sua continua sparizione, ai tentativi reiterati di ri-velarla; Alcesti è lì, nel tormento metamorfico, nella tanatomorfosi incompiuta, in tutta la sua assenza che si fa presente: inizia a trasparire, sin dall’annuncio del sacrificio nel prologo, e continua a trapassare, di voce in voce, sino al sacrificio, e con la morte, da assente, domina totalmente la scena. E poi il ritorno, l’esodo, il mancato riconoscimento da parte di Admeto.

Il sacrificio è preordinato annuncio di un crollo, di una frana del tempo mitico, di un’infanzia rimossa che cede sotto migliaia di tonnellate di terra, sassi, detriti, che investono un vecchio orto di famiglia, le memorie e i fantasmi che lo attraversano. Questo il movimento tellurico da cui scaturisce questo mio lavoro, l’ossessione poetica che lo alimenta. Un vecchio albicocco scivola in basso, si salva, è uno dei pochi alberi a non essere travolto, ma si indebolisce, termiti e funghi lo colonizzano. Alla comparsa dei primi segni sulla corteccia decido di sacrificarlo: ritrovamenti, tracce  della presenza di Alcesti si amplificano, si moltiplicano a dismisura. Si innesta il meccanismo del riconoscimento -centrale anche in Euripide- quale premessa fondamentale di sopravvivenza. <<L’ossessione poetica produce senso, non conoscenza>>, mi ripeto con Bateson mentre osservo le scavatrici e le pale idrauliche prendere il posto del paesaggio, scavarlo dal di dentro; quando fendono la pietra viva, scorticata, le ere geologiche precipitano all’indietro, si sporgono in avanti, verso una forma innaturale, postumana.

Il rito scenico si ricompone, di stagione in stagione, a partire dalle memorie dei gesti, dal mio lavoro nei campi, da osservazioni, sotterramenti, ritrovamenti casuali e azioni interspecie che ho estratto dal midollo dei boschi, dalle viscere dei vecchi orti in cui opero come coltivatore-raccoglitore. Non si può parlare propriamente di autore, non ci sono attori sul palco: in scena io e Ivan Macera (alla sonorizzazione) siamo specchi, interfaccia - meri intermediari - ad agire in nostra vece sono pietre, metalli, argille, miceti, lombrichi, termiti. Secchi e corde. Acqua con terra, con zolfo, acqua con rame.

Nell’Alcesti allo specchio la materia trascolora, cede, sgocciola, stilla, fuoriesce, vortica; il simbolo tace, non sta mai fermo, crepita, sobbalza; la materia è instabile, la trasmutazione continua, l’universo bolle in un pentolone, come un sogno alchemico di trasformazione, di passaggio intermedio di stadi, di con-fusione.

 

La sua voce è suono che si specchia, è suono amniotico, organico, siliceo, di argilla che si scioglie, s’impasta con acqua, sibilo d’aria nelle fessure di una roccia, abissale canto ipogeo. Dal fondo di un pozzo ascoltare il mondo, dietro l’occhio comprimere uno spazio, il corpo da dentro.

"Il corpo è nella voce, nella voce abbandonata", ha scritto Nancy.

Alcesti come esilio, diaspora dal corpo della voce. Tutto è da dire, tutto da ridire, per la prima volta ancora.

Nella memoria che muore, presentificandosi, il suono raggiunge la voce, ma resta conficcato, quasi imprigionato, nella tensione infinitamente reiterata tra corpo e scrittura, nella lotta tra segno come concrezione organica e silenzio, sospensione del regno della voce.

Come poggiare l’orecchio su un blocco aperto di tufo, su una parete scrostata di memorie, sulla sacca dell’utero, dall’interno. Le pietre risuonano, se avvolte in un liquido.

La sua voce detenga detenuta | diurno il regno dell’ombra

 

Alcesti è  "il vomito che la morte rigetta sui vivi", dirà Savinio, autore che la immaginerà pietrificata nel suo ritratto, e che insieme a Raboni, per restare ad alcune esperienze del contesto italiano, tenterà di traslare il mito nel secolo ventesimo. 

Ma Alcesti va oltre, si fa concrezione antimaterica del nostro tempo, di un esistere umano non più chiamato ad essere, inteso come spettro vocale, anticorpo, ingombrante incorporeo non-esserci-nel-mondo, ologramma: emblema del venire-al-mondo (alla sua sparizione) nel momento di massima esposizione del sé (i rituali narrati da Euripide, il coro tragico, l’attenzione degli dei, i social?).

Eppure è proprio il velo ad averla caratterizzata nel corso di millenni di riproposizioni teatrali e approfondimenti critici, un velo posticcio, maschera colonizzatrice del potere (se solo pensiamo alla viseità di Deleuze); con il velo si nega l’interfaccia: l’epifania del volto è sempre etica (Levinas), in quanto genera in chi lo osserva una reazione duplice, di repulsione e violenza, o di compassione.  

Tra i due volti, posti l’uno dinanzi all’altro (come non pensare all’incontro tra Gesù e Giuda dipinto da Giotto), un terzo volto appare, interno ai due, distorto, sbilenco, trasfigurato, de-genere, come esito della relazione dell’uno e del molteplice.

Nessun velo può coprirlo.

È uno specchio liquido, quello in cui si specchia Alcesti, superficie rotante al mercurio, come quello posizionato sulla Luna e destinato all’osservazione di universi dissimili, riflessi nel nostro, altrimondi di una cosmologia inquieta, distorta, di un futuro incerto ascritto agli astri, nel dis-astro sempre prossimo a-venire.

Alcesti prende - perde - forma del ricordo inesausto, come nebulosa fissa, microcosmo che vortica. Riscrittura continua: processo al giudizio della forma.

Continuare ad interrogare due millenni dopo l’Alcesti significa provare a sposizionarsi, ad operare dall’indistinto, sul ciglio di un’identità labile, franta, che continuamente si riadatta, scalpita e fluisce, in perenne transcodifica; significa porsi all’inseguimento di un’utopia, per una poetica della relazione, della mescolanza e dell’ibrido: verborama dell’abbandono.

 

Conveniamo con Bateson: "In quale punto comincio io?".

 

 

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Gli intermezzi poetici sono tratti da Figura (Oèdipus, 2019).

Le foto sono state scattate in occasione del Festival “La cosa fra le cose. Poesia, azione pubblica” tenutosi al Teatro Litta (Manifatture Teatrali Milanesi) il giorno 25 settembre 2021.

Foto 2: Scena dell’Esodo;  foto 3: Prologo; foto 4: Zoomorfemi | Lombrichi su carta; foto 5: Coro | Suono allo specchio

 

Fabio Orecchini (Roma, 1981).

I suoi lavori sono ‘eco-grafie’ ibride, tese a coniugare ricerca sul campo, scrittura e sperimentazione formale ed intermediale. Ha eseguito installazioni site-specific e performance in spazi quali il Teatro Litta di Milano, il Teatro Argentina, L’Accademia d’Ungheria, il MAXXI e la Biblioteca Nazionale di Roma, l’Ex G.I.L di Campobasso, il Palazzetto dei Nobili de L’Aquila, la Mole Vanvitelliana di Ancona. Con l’installazione-performance TerraeMotus si è aggiudicato il Premio “Elio Pagliarani” 2018. La sua opera più recente è Alcesti allo specchio, installazione e rito scenico ispirato al capolavoro di Euripide.

Ha pubblicato  Dismissione (Luca Sossella Editore, libro+cd, in collaborazione con il gruppo musicale PANE, 2014), Per Os (Sigismundus editrice, 2017), Figura (Oèdipus, 2019), Malbianco (Edizioni Volatili, 2021).

Suoi testi sono apparsi su numerose riviste tra cui Alfabeta2, Tendon, L’Ulisse, Nuovi Argomenti, ed è presente nel documentario “GenerazioneY – Poesia italiana ultima”, prodotto da Rai5. Suoi testi sono tradotti in inglese su Inverse (John Cabot University Press, 2021).

Collabora con la casa editrice “Argolibri”, per la quale dirige la collana “Talee”; ha curato, con A. Franzoni, diverse pubblicazioni, tra cui Tacete, o maschi (Argolibri, 2020), After Lorca di J. Spicer (Gwynplaine/Argo, 2018, Premio “Benno Geiger”) e il volume L’altra voce (Giometti & Antonello, 2019), epistolario della poetessa argentina A. Pizarnik.

Lavora come agricoltore-raccoglitore nelle campagne vicino Paliano, piccolo paese della Ciociaria.

 

 

 

[1] Cfr. Raffaella Viccei, “Sempre caro mi sei” (Al 23). L’Alkestis euripidea tradotta

da Camillo Sbarbaro, in M. Lanzillotta (a cura di), Scrittori che traducono scrittori.Traduzioni “d’autore”

da classici latini e greci nella letteratura italiana del Novecento, Levia Gravia XX, 2018, pp. 69-88