Da Cadmo ad Antigone, il racconto dell’ascesa e della caduta della città di Tebe. Cinque tragedie, alcune evidenti riscritture di testi drammatici antichi, altre frutto d’invenzione mitopoietica sulla base di riferimenti e allusioni al patrimonio della mitologia antica.
Questa è la scommessa del drammaturgo Roland Schimmelpfennig, autore dei testi, e della regista Karin Beier: mettere in scena in cinque diversi capitoli, collegati cronologicamente l’uno all’altro, una sorta di “serie” dedicata alle vicende dei Labdacidi. Il termine “serie” può apparire come un cedimento banalizzante alla contemporaneità, ma il principio della serialità non è affatto lontano dai modelli della mitologia antica, sia nella forma della narrazione epica, sia in quella delle rappresentazioni teatrali (basti pensare alle tetralogie unitarie di Eschilo quali per esempio l’Orestea). Il titolo completo del progetto è Anthropolis. Ungeheuer. Stadt. Theben, laddove il termine chiave è certamente quell’ungeheuer, ‘immane’, ‘mostruoso’, ‘straordinario’ con cui Hölderlin rendeva il greco antico δεινός.
È dal settembre del 2023 che i cinque pezzi di Anthropolis vengono rappresentati a intervalli regolari al Deutsches Schauspielhaus di Amburgo, con un successo straordinario di pubblico e di critica che va oltre ogni previsione. Di regola i drammi vanno in scena autonomamente, ma in alcuni fine-settimana sono proposti uno dopo l’altro in tre giornate, nella forma concentrata della maratona teatrale (Serienmarathon, dice l’opuscolo che accompagna lo spettacolo). Ed è quest’ultima modalità di performance che consente di apprezzare al meglio la qualità del progetto, proprio perché stando a teatro dieci ore in tre giornate si ha la sensazione di riannodare, un dramma dopo l’altro, i fili dell’intreccio, i dettagli della vicenda, i rimandi simbolici interni alla rappresentazione.
Si comincia con un Prologo nel quale la narrazione del mito si raccorda con la vicenda a noi più conosciuta grazie alle rielaborazioni sceniche del teatro attico. Gli inizi della storia di Tebe hanno a che fare con un doppio omicidio. Protagonista qui è Cadmo (interpretato da Ernst Stötzner), originario della città fenicia di Tiro; dopo avere cercato senza successo la sorella Europa, rapita da Zeus, obbedendo alle indicazioni dell’oracolo delfico segue una mucca e non cessa di farlo fino a quando essa non crolla a terra morta. Precisamente lì, nel punto in cui la mucca si è arrestata, nei pressi d’una sorgente, Cadmo è chiamato a fondare la nuova città. Per farlo deve compiere altre imprese: uccide il drago che custodisce la sorgente, semina nel terreno i denti della bestia, assiste alla nascita di guerrieri armati che spuntano da quella semina magica e che si massacrano tra di loro. Coi i cinque sopravvissuti Cadmo fonda la città detta Cadmea, che in seguito prenderà il nome di Tebe.
Non sono conservati testi teatrali antichi che trattino questo segmento della vicenda mitica e qui il drammaturgo Schimmelpfennig e la regista Beier hanno potuto sbizzarrirsi alternando voci narranti a rappresentazioni in scena. L’attrice Lina Beckmann nella parte di una donna tebana che rievoca la vicenda si produce, qui e negli altri pezzi in cui è presente, in una performance di grande qualità, alternando toni rilassati a momenti di esaltata eccitazione; nel raccontare ciò che vede e che sa spesso passa in rassegna diverse possibili varianti, creando col pubblico un’efficace interazione metateatrale. Tra le migliori trovate sceniche va segnalata la presenza costante sul palco della carcassa della mucca morta (elemento simbolico che si ripropone in tutti i pezzi) e la grandiosa sequenza delle nozze di Cadmo e Armonia, in abiti moderni, tra banchetti e musiche. Quelle nozze, alle quali presenziano anche gli dèi dell’Olimpo, sanciscono per l’ultima volta l’alleanza di umanità e divinità. Ma il senso di questo Prologo è che la violenza è iscritta nella storia della civiltà fin dagli albori. La distruzione dell’animale, e dunque la logica feroce del sacrificio, costituisce una sorta di prerequisito necessario perché possa esistere una società nello spazio urbano.
La prima delle cinque tragedie si intitola Dionysos e di fatto è una messinscena delle Baccanti di Euripide. Sono passate due generazioni e Cadmo ha ceduto il trono al nipote Penteo. Dioniso (Carlo Ljubek) ritorna nella sua città natale, ansioso di vendicarsi e ristabilire il suo prestigio in quanto divinità, quel prestigio che il razionalista Penteo gli nega. Anche in questa rappresentazione il gioco metateatrale consiste nel far commentare l’accaduto dalla voce di una donna tebana (sempre Lina Beckmann) la quale ironizza, per esempio, sulla stravagante narrazione che accompagna la seconda nascita di Dioniso (feto cucito nella coscia di Zeus). Non c’è da stupirsi se la gente di Tebe avesse smesso di credere in storie tanto inverosimili. Ma Dioniso non accetta scuse e non esita a far precipitare il cosmo ordinato di Penteo diffondendo invasamento e follia tra le donne della città. Notevole la recitazione di Kristof Van Boven nei panni di Penteo, che entra in scena sopra un vero cavallo bianco e si fa irretire dalle diaboliche strategie di Dioniso accettando il travestimento da donna così da dare sfogo al proprio voyerismo erotico. Lina Beckmann interpreta anche Agave ed è eccezionale nella scena finale in cui lentamente riprende consapevolezza fino a comprendere il terribile omicidio che ha commesso mentre era in trance estatica. Ma la scena più avvincente di Dionysos è certamente quella della lunga rhesis del messaggero che riferisce lo sparagmòs subito da Penteo, scandita da un imponente coro musicale che si avvale di tamburi taiko (giapponesi): dura diversi minuti in un crescendo ritmico che trasmette al pubblico in modo inebriante tutto il furore dell’esaltazione bacchica. Nella lettura del progetto Anthropolis il trionfo di Dioniso non è altro che il ritorno di quella dimensione violenta e distruttrice che è insita nella città di Tebe, ovvero nella nostra civiltà, fin dalle sue origini, anche se era stata repressa dalle istituzioni politiche.
Per Laios non ci sono modelli antichi cui fare riferimento (Eschilo compose un Laio per la sua tetralogia tebana del 472 a.C., Euripide un Crisippo, ma entrambi sono perduti), e la regista ha potuto costruire un testo teatrale originale pescando nella tradizione del mito. Di fatto si tratta di un lungo assolo dell’attrice Lina Beckmann, grande mattatrice dell’intero progetto Anthropolis. Da Freud in poi la nostra cultura è abituata a porre l’accento sulla colpa (vera o presunta) del figlio Edipo nei confronti del padre Laio: il figlio minaccioso che vuole prendere il posto del padre. L’idea qui è di provare a ribaltare la prospettiva. Laio (Lina Beckmann), figlio di Labdaco e nipote di Cadmo, viene chiamato sul trono di Tebe, dopo un lungo periodo di esilio, in quanto ultimo discendente della stirpe reale. Vi fa ritorno accompagnato dal giovane Crisippo (Goya Brunnert). È Crisippo il motivo per cui la nuova coppia reale formata da Laio e Giocasta (Julia Wieninger) non hanno figli? Oppure la causa è l’oracolo della Pizia?
In ogni caso Laio assume la guida della città senza entusiasmo, solo per dovere. È un personaggio tormentato, ossessionato dal senso di colpa, perseguitato da allucinazioni spaventose. La paura lo porta a far mutilare e abbandonare il figlio venuto al mondo per errore. Il monologo di Beckmann ha una forte tensione poetica ed ha carattere polifonico nel senso che dà voce a vari personaggi nell’intento di chiarire per quali ragioni Laio e Giocasta hanno generato un figlio nonostante il divieto religioso. Un fatale errore o una provocazione voluta? Quanta responsabilità hanno i genitori per il destino di Edipo? Quanta colpa si trasmette di generazione in generazione e quanta libertà ha l’individuo di liberarsene? Anche in questo dramma gli autori giocano sulle varianti del mito, le confrontano, le discutono, spesso lasciando gli spettatori in sospeso, in una continua rottura della scansione temporale grazie al dialogo tra scena teatrale e filmati che scorrono sullo schermo.
Sullo sfondo domina la figura della Sfinge, creatura animale composta da un leone, una donna e un uccello, la quale col suo canto misterioso spinge la città alla follia omicida. La mostruosa Sfinge rappresenta l’epitome della dissoluzione dei confini tra mondo animale e umano. Per certi verso incarna quello che veniva mimeticamente praticato nel culto dionisiaco. S’impadronisce della coscienza di Laio, ed è la forza distruttrice che segna il destino di Tebe, una città dell’antica Grecia, ma che vediamo tratteggiata con elementi moderni: chioschi di kebab, giovani che chiacchierano durante un picnic sull’erba, treni che passano etc.
Edipo in Ödipus è interpretato da David Striesow: è una figura sicura di sé, ma estremamente nevrotica e iperattiva, incapace di stare seduta alla scrivania senza saltare sul tavolo; fuma sigarette a ripetizione, e soprattutto scava la terra e predispone dei mucchi, con allusione forse alla sepoltura dei morti per causa dell’epidemia che affligge ora Tebe. La città si è affidata a lui, gli ha conferito il potere, pur essendo egli un estraneo, per il merito di avere salvato la collettività dalla Sfinge. Una decisione senza precedenti che probabilmente non era condivisa da tutti. Nei primi anni Tebe sotto la sua guida ha prosperato, ma ora gli si chiede di intervenire per salvarla dalla pestilenza. Il potere di Edipo si scalfisce, e il sovrano reagisce con rabbia, per esempio quando il vecchio profeta cieco Tiresia (Michael Wittenborn) esita a parlare. Il testo è quello di Sofocle, ma la gestualità è tutta moderna: Edipo afferra Tiresia per la gola, gli spezza il bastone, gli tira la terra addosso.
A suggellare il cambiamento psicologico del protagonista dopo lo scontro con l’indovino, la regista Karin Beier lo fa camminare con la stampella, rievocando l’antica ferita infittagli quando venne deposto dai genitori appena nato. La zoppia diviene la cifra simbolica di Edipo con un crescendo per cui lo si vede zoppicare sempre più vistosamente e appoggiarsi a due stampelle. Alla fine si accieca, come da copione, mentre non si dice nulla della sorte di Giocasta. Diversamente dalla versione sofoclea, quella più celebre, la moglie-madre sopravvive alla scoperta dell’incesto. Due sono gli accorgimenti scenici particolarmente riusciti in questo allestimento. L’idea collocare il coro, diretto da Christoph Jöde, non già sulla scena bensì nei palchi laterali del teatro. Eseguiti da quella posizione i canti corali realizzano un effetto di sorpresa molto efficace costringendo lo spettatore a guardarsi intorno per capire da dove vengano musiche e parole. L’altra novità è la presenza sulla scena di una sacerdotessa delfica (Karin Neuhäuser) che, con parole sussurrate dolcemente e imploranti, incoraggia Edipo a procedere nella sua azione investigativa, ma al tempo stesso invita a dubitare di quello che accade. Impossibile non pensare alla suggestione che viene dal racconto di Friedrich Dürrenmatt La morte della Pizia.
Il quarto dramma della pentalogia è Iokaste e in questo caso si tratta del tratto di vicenda che riguarda il conflitto fratricida di Eteocle e Polinice con la guerra degli Argivi contro Tebe, materia trattata da Eschilo nei Sette contro Tebe e da Euripide nelle Fenicie. L’intuizione di Schimmelpfennig e Beier è di far ruotare la vicenda attorno alla figura di Giocasta, mossa dal sentimento materno di preservare in vita i figli imponendo loro la trattativa diplomatica per risolvere il conflitto. Ma la strada della diplomazia funziona solo se entrambe le parti in lotta sono disponibili a una qualche rinuncia, il che si scontra con l’attitudine all’ostinazione che è propria di quasi tutti gli esponenti della famiglia di Edipo. Né Eteocle né Polinice rinunciano alla pretesa di avere il potere sulla città, e di conseguenza, svanita la conciliazione diplomatica, divampa la guerra fino all’esito catastrofico. Il fratricidio reciproco, mai sulla scena nei testi antichi, è rappresentato qui in una suggestiva forma stilizzata. I due fratelli ci versano sulla testa secchi di sangue per poi affrontarsi testa contro testa in una sorta di abbraccio osmotico che li lega insieme fino alla morte di entrambi. Non ci sono espliciti riferimenti alle guerre moderne e attuali, ma è inevitabile per gli spettatori rapportare l’appello per la pace di Giocasta ai conflitti che insanguinano oggigiorno il pianeta.
Giocasta è interpretata da Julia Wieninger, come in Laios e in Ödipus, ma opportunamente invecchiata (si presenta in scena pressocché calva). Il suo coraggioso tentativo di porre fine alle disgrazie del ghenos tebano si trasforma in tristezza e rassegnazione quando si rende conto della propria impotenza. Alla fine le parole non servono più a nulla e «anche un oracolo non è altro che un mucchio di parole», commenta Polinice di fronte alla madre. Sulla vicenda principale di Giocasta e i suoi figli si sovrappone un altro tormentato rapporto generazionale, quello che lega Meneceo (Daniel Hoevels) al padre Creonte (Ernst Stötzner), con il ragazzo che obbedisce all’ordine di Tiresia e si sacrifica per il bene della collettività.
La parabola che si delinea in Anthropolis è evidente: al principio siamo in un’epoca nella quale gli dèi sono ancora fondamentali. Cadmo è assistito dagli dèi nella fondazione della città e gli Olimpi festeggiano le sue nozze con Armonia, anche se presto il legame di collaborazione si spezza. Quando Dioniso giunge a Tebe per riprendersi la città e ristabilire la sua autorità divina, la crisi è già palese e ineludibile. Alla fine, quando in Antigone la protagonista (Lilith Stangenberg) cerca di seppellire il corpo del fratello morto, nella città gli dèi sembrano essere del tutto spariti. Ecco, se c’è un tema centrale che la regia di Anthropolis recupera dalla tragedia antica e mette al centro è precisamente quella del rapporto tra piano umano e piano divino. Come deve atteggiarsi l’uomo di fronte alla divinità? Come può farne a meno?
L’ultimo dei cinque capitoli della serie, Antigone, mette in scena il tratto più noto e celebrato della vicenda, la ribellione di Antigone contro il divieto di Creonte (Ernst Stötzner) di seppellire il corpo di Polinice. Il nuovo sovrano ce l’ha fatta finalmente a salire al potere e potrebbe gestire una stagione nuova, dopo la vittoria militare della città che ha respinto l’assalto degli argivi. Ma la maledizione che incombe non dà scampo né a lui né alla nipote. Il divieto di sepoltura e la condanna a morte di Antigone sono interpretati come atti di violenza che incrinano il sistema di governo della città. Se Creonte si presenta come un borghese affabile e razionale, che non vorrebbe avere grane, Antigone è una ragazza solo apparentemente forte: alterna riso e pianto, pacatezza e rabbia. La sua dedizione per i morti è concretamente portata in scena con la danza macabra che la ragazza compie abbracciando lo scheletro del fratello. Interessante che il celebre stasimo dell’Antigone sofoclea (vv. 332-375), quello sui limiti del progresso umano che inizia con «molte sono le cose tremende, ma nessuna è più tremenda dell’uomo», non sia collocato nella parte iniziale del dramma, bensì verso la fine, precisamente dopo la scena in cui il vecchio indovino Tiresia preannuncia a Creonte la catastrofe incombente, quasi ad assumere il valore di un riepilogo dell’intera vicenda.
«Questa è la cronaca della nostra famiglia», commenta Ismene (Josefine Israel) di fronte alla sorella, e aggiunge «Non è una storia gloriosa!». Senza dubbio Ismene ha ragione, ma la storia della città di Tebe, da Cadmo ad Antigone, è una parabola illuminante con la quale non a caso il teatro contemporaneo continua a misurarsi per rappresentare il susseguirsi di ingiustizie, violenze e sopraffazioni della nostra civiltà. Del resto, come scrive Sybille Meier, drammaturga del progetto Anthropolis, «la tragedia greca è perturbante. Non si basa sulla riconciliazione, sull’unanimità e neppure sulla ricerca della felicità. Il suo metro di misura è l’orrore, che non è molto popolare nel mondo moderno della bellezza e dell’armonia. La tragedia greca rivela le profonde crepe che si aprono nelle fondamenta della cultura umana»[1].
Anthropolis. Ungeher. Stadt. Theben
Testo: Roland Schimmelpfennig
Regia: Karin Beier
Scenografia: Johannes Schütz
Costumi: Wicke Naujoks
Musica: Jörg Gollasch
Luci: Annette Ter Meulen, Holger Stellwag
Drammaturgia: Sybille Meier
Prologos / Dionysos
Con: Mehmet Ateşçi, Lina Beckmann, Carlo Ljubek, Maximilian Scheidt, Ernst Stötzner, Kristof Van Bove, Michael Wittenborn.
Prima mondiale: Amburgo, Schauspielhaus, 15 settembre 2023
Laios
Con: Lina Beckmann.
Prima mondiale: Amburgo, Schauspielhaus, 29 settembre 2023
Ödipus
Con: Christoph Jöde, Karin Neuhäuser, Ernst Stötzner, David Striesow, Julia Wieninger, Michael Wittenborn, coro.
Prima mondiale: Amburgo, Schauspielhaus, 13 ottobre 2023
Iokaste
Con: Paul Behren, Daniel Hoevels, Josefine Israel, Maximilian Scheidt, Ernst Stötzner, Julia Wieninger, Michael Wittenborn.
Prima mondiale: Amburgo, Schauspielhaus, 27 ottobre 2023
Antigone
Con: Ute Hanning, Josefine Israel, Jan-Peter Kampwirth, Maximilian Scheidt, Lilith Stangenberg, Ernst Stötzner, Michael Wittenborn.
Prima mondiale: Amburgo, Schauspielhaus, 10 novembre 2023
Dopo le prime di Amburgo i drammi di Anthropolis sono rimasti in cartellone allo Schauspielhaus di Amburgo, dove saranno in cartellone anche la prossima stagione, e alcuni di essi sono stati presentati anche in altri teatri tedeschi.
LE IMMAGINI SONO TRATTE DAL SITO DEL DEUTSCHES SCHAUSPIELHAUS DI AMBURGO, DOVE SI POSSONO VEDERE ANCHE I TRAILER DEGLI SPETTACOLI E ACQUISTARE I BIGLIETTI PER LA PROSSIMA STAGIONE: https://schauspielhaus.de/stuecke/anthropolis-marathon
[1] S. Meier, Nachwort in R. Schimmelpfennig, Anthropolis. Ungeheuer. Stadt. Theben, hrsg. von S. von Lieven und B. Walther, Fischer,Frankfurt am Main 2023, pp. 489-503, citazione a p. 491.