La Fedra con la regia di Paul Curran, che ha debuttato a Siracusa l’11 maggio (ne ha parlato qui Gherardo Ugolini), continua la sua tournée. Qui si dà un resoconto dello spettacolo presentato al Teatro Grande di Pompei, nella cornice di una manifestazione (Pompeii Theatrum Mundi) arrivata alla VII edizione, realizzata con il sostegno del Ministero della Cultura, del Comune di Napoli, della Regione Campania, della Città Metropolitana di Napoli.
La prossima tappa (11 settembre) sarà a Verona, al teatro romano, e verrà accompagnata da una Giornata di Studi organizzata dal Centro di ricerca Skené – Ricerche interdisciplinari di teatro e Visioni del tragico. La tragedia sulla scena del XXI secolo. In quell’occasione, ‘Visioni del Tragico’ tornerà ancora su questa messa in scena.
Afrodite (Ilaria Genatiempo), in lungo abito bianco e oro scende leggera dalla scala centrale della cavea del Teatro Grande di Pompei: la dea scruta intorno a lei, in cerca di prede. Si presenta al pubblico, con parole quasi minacciose: Afrodite impersona quella forza invasiva che permea, come legge inevitabile di natura, tutti gli esseri del creato. Perché a lei, Afrodite (quasi) nulla può sfuggire. Una voce nitida e un eloquio lento, ma fermo, risuonano nel silenzio.
L’allegria festante di ragazzi e fanciulle inghirlandate accompagna invece l’ingresso di corsa di Ippolito, un giovane e leggiadro Riccardo Livermore, in una luminosa giacca bianca con paillettes. Si rivolge al volto di donna bianco, gigantesco ed enigmatico, il volto di Artemide.[1]
Nove ancelle accompagnano la nutrice, interpretata con energia da Gaia Aprea, che riesce a stabilire subito una corrente di empatia con gli spettatori. Ecco infine Fedra (Alessandra Salamida) in un vivace abito verde lime, a catalizzare l’attenzione.
Due i temi forti della tragedia subito in primo piano: eros e nosos, amore e malattia, o meglio: l’amore in quanto malattia, che può portare anche al delirio e alla follia, che può distruggere. Così in altre tragedie: ad esempio, la malattia d’amore verso la giovane Iole, che colpisce Eracle nelle Trachinie di Sofocle, portando a esiti nefasti. E di questo suo essere in preda al furor, Fedra, percorsa nelle membra dalla fiamma, ormai divampata, della passione, appare ben consapevole: «Ho deciso di sopportare questa follia cercando di dominarla col senno», dice Fedra nella nuova traduzione di Nicola Crocetti per questa messa in scena (vv. 398-399). Amore e follia, un tema che anche Sofocle valorizzò di certo nella sua Fedra (cfr. fr. 680 R.: «Alla vergogna, o donne, nessun mortale sfugge, se Zeus gli manda il male: non si può che sopportare la malattia inviata dagli dei»[2]).
Ma l’archetipo letterario del tema amore e follia, certamente noto a Euripide, è la celebre ode saffica fr. 31 Voigt, conosciuta talora come ‘Ode della gelosia’: «[…] Si, non appena ti vedo, allora niente mi resta più di voce, ma la lingua si spezza, sottile fuoco subito corre sotto la pelle, e con gli occhi non vedo nulla e rimbombano le orecchie, e sudore freddo mi bagna, e tremore tutta mi afferra, e più verde dell’erba sono, quasi morta appaio a me stessa.[…]»[3]. E perciò il dialogo tra Fedra e la nutrice, uno dei culmini drammatici delle tragedia, si svolge nell’alternarsi tra l’espressione del dolore di Fedra e il punto di vista di chi, come la nutrice, sa che è saggezza non sottrarsi a ciò che la natura impone, ma sa anche bene che il dio è potente e distruttivo – «Chi tra gli dèi ti squassa la mente e ti fa delirare?», chiede la nutrice a Fedra, ancora con parole che alludono a Saffo, una nutrice piena d’angoscia per la follia distruttiva, ma inevitabile, che prende la sua signora. E ancora: «Perché vaneggi di queste cose, figlia mia?» (v. 223) e poi la rassegnata constatazione ai versi 359-361: «Afrodite non è una dea, ma è qualcosa di più grande, Afrodite che ha distrutto lei e me e questa casa» (traduzione di Guido Paduano). Saggio è perciò non peccare di hybris, ossia della perniciosa arroganza umana.
Ma anche Ippolito, nel rifiuto di onorare Afrodite, si macchia della stessa colpa. Il servo, che aveva seguito l’uscita di scena della dea, e che dialoga con il giovane, lo ammonisce a non azzardare troppo, a non negare il saluto alla veneranda divinità (v. 99). Ippolito è tuttavia sordo agli ammonimenti di chi ha più esperienza di lui e sembra quasi volerli eludere con movimenti sinuosi e festanti.
L’eros dà vita a manìa e malattia, mezzi e manifestazione di un sentimento che viene sì istillato per volontà divina, ma che poi, in maniera quasi metamorfica, assume diversi aspetti, pienamente, maledettamente umani. Perché la vendetta degli dèi colpisce in modo inesorabile, servendosi di chi, come Fedra, diviene strumento inconsapevole per punire qualcuno, nello specifico Ippolito, della sua tracotanza. All’uomo non è concessa una difesa né una risposta, se non, probabilmente, nella via indicata dalla nutrice e dal servo: la moderazione.
Due corpi, uno morto, quello di Fedra, uno morente, quello di Ippolito, restituiscono alla scena quella sobrietà tragica che era stata rotta da numerose presenze, spesso in dialogo e in movimento. L’improvviso ingresso ‘a sorpresa’ di operai/pompieri con caschi gialli che corrono in maniera disordinata a esprimere lo sconvolgimento drammatico alla notizia della prima catastrofe, lascia come frastornati, fino a quando i pompieri stessi non portano in scena il letto di morte di Fedra, assemblato come un pannello di un ponteggio, che fa da pendant allo sfondo in cui la testa gigantesca di Artemide è inserita, «una reggia un po’ fatiscente, ancora in costruzione o forse già in declino» (Gherardo Ugolini, qui).
Il corpo di Fedra è coperto e disvelato da un Teseo (Alessandro Albertin) disperatamente innamorato: questo aspetto viene enfatizzato, oltre che dalle parole, dalla ricerca di un continuo contatto fisico che termina con un bacio lieve: Teseo poggia le labbra sul volto esanime di Fedra, dopo averla ripetutamente carezzata. Sulla scena campeggia il cadavere di Fedra e intorno le ancelle meste, che assistono con le mani sugli occhi all’inganno perpetrato ai danni di Teseo. Questi non esita a invocare le maledizioni di Poseidone (vv. 887-890), quando legge la lettera stretta nelle mani del cadavere, perché suo figlio sia punito. La tavoletta su cui è incisa la lettera, «urla: infame» (βοάω è iterato, in Euripide: βοᾷ βοᾷ δέλτος ἄλαστα, Ippolito 877). C’è qui un richiamo ad un’altra tavoletta, latrice di un messaggio mortale, scritta da un marito che crede di essere stato tradito in una variante dello stesso tema mitologico: si tratta della tavoletta che nel VI libro dell’ Iliade il re Preto impone a Bellerofonte di portare al re di Licia, perché questo lo uccida. Bellerofonte, infatti, eroe perfetto, è stato ingiustamente accusato da Antea, moglie di Preto, di averla sedotta. Preto non ha il coraggio di uccidere Bellerofonte, ma lo spedisce lontano con un messaggio scritto in una tavoletta doppia, ripiegata, così che non possa leggerla, piena di segni funesti. Anche in Omero, come in Euripide, la tavoletta è un oggetto non inerte, ma dalle qualità forse magiche, e la scrittura sembra avere il potere di uccidere.[4] Tornerò alla fine del mio contributo su questo famoso passo iliadico.
Nella messa in scena di Paul Curran, sorprende soprattutto il gesto di Teseo che punta improvvisamente una pistola in volto al messo sconvolto che annunzia l’incidente esiziale di Ippolito: un anacronismo, insieme a molti altri, dagli operai/pompieri agli abiti da sera dei protagonisti all’uso dello smartphone, che forse tenta di esprimere, attraverso il ricorso a immagini e strumenti ‘moderni’, l’attualità di vicende come quelle rappresentate sulla scena del teatro di Dioniso nel 428 a.C. Dinanzi alla estremizzazione dei sentimenti e delle reazioni, torna in mente il monito iniziale della nutrice, sulla necessità del limite alle passioni: «Gli affetti che legano gli uomini devono essere moderati».
Il pudore, l’aidôs, la morale e la passione: sono i termini di una etica e di sentimenti in qualche misura conciliabili? Dove sta il confine tra l’affetto e l’onore? «Ha cercato di curare la mia malattia con affetto, ma senza onore»: sono queste le parole di una Fedra che appare più remissiva di quella euripidea (si pensi alle parole durissime che lei rivolge alla nutrice ai versi 682-694 dell’Ippolito). Ora, pur riconoscente verso le premure della sua nutrice, Fedra esprime la consapevolezza che l’onore è legato, nel suo caso, solo alla repressione di un sentimento.
Vergogna, senso del dovere, passione: nodi tematici che emergono dalla regia di Paul Curran. Come un altro binomio che colpisce, soprattutto perché pronunciato dal giovane Ippolito: il rapporto diretto tra l’azione di Afrodite e le donne sapienti, nelle quali Afrodite «istilla» il desiderio. Ippolito percepisce che Fedra non è una donna qualunque.
Del resto, Fedra, pur ossessionata dalla morale e visibilmente sconvolta dalla passione che divora l’animo, ha tuttavia la lucidità che le consente di vendicarsi attraverso un messaggio scritto: nelle sue mani tiene stretta la lettera infamante verso Ippolito, che, insieme alla vicenda tutta, riprende l’antico tema biblico della ‘moglie di Putifarre’, cui è legata anche la vicenda di Antea – poi Stenebea in Euripide – e Bellerofonte, raccontata, come abbiamo detto, nell’Iliade (VI, in particolare vv. 155-170). Ippolito deve imparare l’umiltà: «Morendo sarà male anche per qualcun altro, perché sappia che non deve insuperbire per le mie sciagure. Imparerà l’umiltà.» (frasi che rendono, adattandoli, i versi 730-731 dell’ Ippolito, 730-731).
E in effetti, quest’Ippolito portato morente sulla scena e deturpato dal sangue, sporco di terra, che si intrattiene in un lungo dialogo con il padre, forse viene riscattato dalla sua hybris. La disperazione di Teseo, che ha perso in un attimo moglie e figlio per un inganno crudele, ma anche per la sua avventatezza e per mancanza di fiducia verso il figlio stesso, resta nella tragedia una delle più icastiche espressioni della debolezza dell’uomo. Artemide (Giovanna Di Rauso), che esce dal volto iconico sul fondo della scena, vestita di rosso scuro, cammina imperiosa, spietata e sadicamente soddisfatta nel rivelare a un uomo, già distrutto, i percorsi laceranti di una verità da incubo.
[1] Sul significato del gigantesco volto di donna, che alla fine si rivela contenere la dea Artemide, e sui dubbi sull'effettiva riuscita degli intenti registici di questa messinscena si rinvia alla recensione di Luigi Paolillo, Adeguatezze e inadeguatezze teatrali di Fedra, in Fermata Spettacolo, qui.
[2] Trad. di A. Casanova nel suo saggio I frammenti della Fedra di Sofocle, in R. Degl’Innocenti Pierini, N. Lombardi, E. Magnelli, S. Mattiacci, S. Orlando, M. Pace Pieri ( a cura di), Fedra. Versioni e riscritture di un mito classico. Atti del Convegno AICC, Firenze, 2-3 aprile 2003, Firenze 2007, pp. 5-22).
[3] Saffo, Ode all’amata, a cura di Sotera Fornaro, Modena, Mucchi editore, 2020. Per un commento ai frammenti di Saffo vedi ora Saffo. Testimonianze e frammenti. Introduzione, testo critico, traduzione e commento di C. Neri, Berlin/Boston 2021.
[4] Su questo vedi da ultimo Sotera Fornaro, I segni di Bellerofonte, Archivi delle emozioni, 3, 2, 2023, open-acces qui.