Il film La vita accanto di Marco Tullio Giordana (2024), ispirato dall’omonimo romanzo di Mariapia Veladiano, racconta della famiglia Macula, in latino ‘macchia’. Il cognome è parlante, perché la famiglia è macchiata da un oscuro segreto. La città in cui si svolge la vicenda è Vicenza, città di provincia suggestiva, ricca di storie e di segreti; una città che si affaccia su un fiume che scorre impetuoso e minaccioso.
Nell’antico palazzo di famiglia, al centro della piazza principale della città, vive una famiglia, padre, madre e una bambina, nonché la sorella gemella del padre, bellissima e nota pianista. La famiglia è ricca e conosciuta in città, e il padre della bambina, l’unico personaggio maschile in casa, un ginecologo affermato e molto stimato.
La vicenda inizia con la nascita della bambina, che porta in famiglia una ‘macchia’: la piccola viene alla luce con il volto deturpato da un grande angioma; la madre non accetta questa figlia imperfetta, non la abbraccia, evita di toccarla. A dominare su tutte le azioni dei personaggi c’è la vergogna, sentimento esplorato dal film in tutte le sue sfaccettature: la mamma si vergogna della figlia che vede come un fenomeno da baraccone, e non vuole esporla agli occhi degli altri, perché – dice - «uno sguardo può uccidere». La bambina, crescendo, si vergogna di quella madre costantemente ammalata, di una malattia sconosciuta e inguaribile, che la costringe a letto e alla segregazione. Dall’esterno, la famiglia appare come un grumo di dolore e sofferenza taciuta. L’unico maschio della famiglia conduce una vita claustrale, purissima, nonostante la moglie non dorma più con lui, coltivando una virtù che appare anche difesa contro sguardi indiscreti: per lui, il sentimento di vergogna coincide con il pudore. Anche sua sorella gemella conduce una vita segreta, a riparo dello sguardo altrui, concedendosi amori effimeri lì dove nessuno la conosce, mentre è in tournée lontano da Vicenza. I sentimenti che legano questi tre personaggi, e tra loro una tata che appartiene alla famiglia, cresce la bambina e si fa tacita depositaria dei segreti della casa, non sono mai espressi a parole. I personaggi non sanno e non possono dialogare tra loro, non si spiegano, come se avessero paura delle parole e di quello che potrebbero rivelare.
Dopo dieci anni di sofferenza psicologica, durante i quali di nascosto redige un diario, la mamma della bambina si uccide. Prima di suicidarsi, avviene il confronto muto e pieno di lacrime tra lei e la cognata, apoteosi dell’incomunicabilità e anche del dolore. In una delle scene più intense del film, le due donne piangono senza guardarsi mai in faccia. Lo spettatore pensa che si tratti di un ennesimo episodio di comune sofferenza per il disagio indicibile di una delle due, legato forse anche alla gelosia per la bambina, che la mamma sembra non aver mai accettato, e che è invece vicinissima alla zia la quale, tra l’altro, indirizza il talento musicale della bambina che sin da piccola si avvia ad essere, come lei, una grande pianista. Ma il confronto muto tra le due donne non riguarda la bambina e non riguarda la malattia mentale di una di loro. Il loro pianto sostituisce le parole che non si possono pronunciare e che alzerebbero il velo che copre la verità nascosta. Quella verità che la bambina scoprirà a poco a poco, negli anni successivi, leggendo il diario della mamma di cui è venuta in possesso e decifrandone i simboli; un diario che a una prima lettura sembra frutto di deliri, e in cui la zia, gemella del padre, viene definita ‘il mostro’. La ragazza capirà che la sua deformazione non ha nulla a che vedere con la depressione della madre e con il suo suicidio, e che l’incapacità della donna di toccarla e abbracciarla non corrispondeva affatto alla mancanza di amore nei suoi confronti. Il motivo del disagio psichico della donna stava invece nel rapporto indicibile tra il padre e la sorella gemella. La madre della bambina lo aveva visto: la vergogna causata da quello sguardo la induce a uccidersi privandola della possibilità di urlare quel tradimento, di discutere quell’amore incestuoso con la cognata, che a sua volta cova da sempre quel segreto dentro di sé, celandolo agli occhi di tutti. Quei tutti che, probabilmente, nello spazio ristretto della piccola città dove la famiglia è ‘in vista’, conoscono quella verità, la sussurrano, ma non la gridano.
La vergogna penetra in ogni dove, segna con una macchia rosso sangue il volto della bambina. Il fiume, scorrendo intorno e dentro la città, avvolge la città in un sistema di riflessi e di suoni ed è l’elemento liquido inarrestabile, da cui si sprigiona l’atmosfera emotiva di un desiderio invincibile, che scioglie ogni norma, convenzione, legame di sangue, l’atmosfera della passione inesprimibile che impregna l’aria, ogni respiro, e i suoni del pianoforte, talora ossessivi come le scale, talora irruenti come le sonate.
Eros non conosce confini, sta dappertutto, in ogni istante, in ogni rifrazione di luce; eros è il battito della vita e dell’universo. Eros scorre senza tregua, inarrestabile. Non a caso, la mamma della bambina si suicida gettandosi come in volo nel fiume, gesto simbolico anche di ritorno al liquido amniotico dell’origine della vita. Quel fiume che, in un gioco di apparizioni e illusioni, lascerà poi riemergere il fantasma della donna per rivelare a sua figlia la verità, una verità che la renderà finalmente libera. La macchia sul volto, come per incanto, sparisce e lei abbandona il palazzo, la città e i suoi complessi di colpa spinta stavolta dal desiderio di qualcos’altro, lontana da sguardi che possano uccidere.
Non so se gli sceneggiatori di La vita accanto, nel costruire il film come una tragedia greca, abbiano letto l’Ippolito di Euripide, però i temi del film sono gli stessi della tragedia euripidea: un amore indicibile e insopportabile, un desiderio che si nasconde e tuttavia continua a scorrere impetuoso, lo sguardo degli altri che genera vergogna. Il tema principale, l’amore indicibile, si sviluppa nel film in una trama labirintica come la città in cui ha luogo la vicenda, piena di angoli oscuri e di presenze inquietanti. Nella tragedia greca, lo scenario è il palazzo reale, un labirinto nel quale i personaggi ascoltano le loro voci, ma non si vedono, in cui sembrano inseguirsi, ma non si incontrano. Un palazzo che è tomba e prigione insieme. Sia nel film che nella tragedia i personaggi principali, cioè coloro che vivono o subiscono il desiderio, non riescono a parlare tra loro: le parole, anzi, come gli sguardi, sono letali, uccidono. Nella tragedia di Euripide, Fedra da una parte e Ippolito dall’altra, pur vivendo accanto, sotto lo stesso tetto, non si incontrano mai, non parlano mai tra loro, non incrociano mai i loro sguardi.
Anne Carson ha perciò paragonato Ippolito alla città di Venezia: un sistema di riflessi, di riflessi distorti, di riflessi obliqui. Un sistema di corridoi che la gente percorre senza mai incontrarsi, in cui i rumori riecheggiano e si ha talora l’impressione di essere seguiti da qualcuno, mentre è solo il rimbombo dei propri passi a udirsi. Città di bagliori di luce, aggiungo io, che si spingono dall’acqua sino all’interno dei palazzi, proiettandosi sui soffitti: un gioco di proiezioni e illusioni, che i veneziani personificano chiamando il fenomeno ‘la gibigiana’ o ‘la vecia’, un intreccio di rifrazioni che percorre tutta la città e con cui si entra in tacito contatto soprattutto dall’acqua. Riflessi che portano mistero e trascinano con sé antiche storie, come un «soffio prodigioso che investe ogni cosa» (Ippolito, 563), come eros, come il ritmo del desiderio.
L’Ippolito nasce da un fallimento, quello della prima tragedia che Euripide scrisse sull’argomento e che si intitolava Ippolito velato, e che – come sappiamo dalle Rane di Aristofane – suscitò molto scandalo, al punto da dover essere riscritta. Il tema folklorico è già presente nel sesto libro dell’Iliade: la moglie del re si innamora del giovane figlio di suo marito, ma viene respinta. Per vendetta, la donna accusa di stupro il giovane davanti al padre. Perché Ippolito è ‘velato’, o meglio, come dice il greco, ‘si copre, si nasconde’? Nella prima versione della tragedia, il giovane dovette coprirsi il capo per vergogna ascoltando le parole della matrigna Fedra che gli dichiarava il proprio amore. Viene subito in mente un altro personaggio che si copre il capo ascoltando qualcuno che parla: è Odisseo, che ancora in incognito, alla reggia dei Feaci ascolta un aedo che canta i fatti avvenuti a Troia. Odisseo piange, si commuove, e per non farsi vedere si copre il volto con il mantello:
Queste cose cantava il glorioso cantore; e Ulisse prese / il grande mantello di porpora con le sue mani robuste/ e se lo mise sulla testa nascondendo il bel volto: dei Feaci / sentiva vergogna a versare lacrime da sotto le ciglia. (Odissea, VIII, 83-86, traduzione di Vincenzo Di Benedetto).
Odisseo non vuole farsi vedere profondamente turbato, perciò si vergogna, e contemporaneamente non vuole farsi riconoscere. Quale sia stata la reazione sentimentale di Ippolito alla dichiarazione di amore di Fedra nella prima tragedia di Euripide non sappiamo: però, ascoltando la dichiarazione d’amore, Ippolito si velava nascondendosi davanti al pubblico di spettatori, come Odisseo; si celava poi allo sguardo della donna che gli stava rivelando il suo illecito amore. Ippolito non voleva farsi scoprire debole e vulnerabile davanti all’espressione di un desiderio che non poteva ricambiare. Forse proprio questo nascondersi dovette sembrare vigliacco e scandaloso al pubblico ateniese, più che la dichiarazione di Fedra, dato che il mito e il teatro greco conoscono molte altre eroine che si innamorano dell’uomo sbagliato, Elena in testa, e Ippolito non è il figlio di Fedra, ma il suo figliastro, quindi non si tratta di un amore propriamente incestuoso.
Il secondo Ippolito, quello che possiamo leggere per intero, invece è ‘un portatore di corona’, e il sostantivo del titolo (che non fu attribuito da Euripide) allude all’offerta che Ippolito porta alla dea che onora, Artemide, nella sua prima entrata in scena.
Ti porto, signora, questa corona di fiori, raccolti in un prato puro, dove il pastore non osa portare a pascolare il suo gregge e dove non è mai passato il ferro. Soltanto le api lo frequentano in primavera, e la Vergogna innaffia il prato puro con l’acqua del fiume. (vv. 73-79; traduzione di Guido Paduano).
In questi versi si condensa tutto ciò che ispira l’agire di Ippolito. La purezza, innanzitutto, una purezza assoluta. La Vergogna, in greco aidós, qui è personificata e intesa come la capacità di restare immune da tutto ciò che fa vergognare: Ippolito aspira a potersi esporre allo sguardo altrui e al proprio sguardo interiore, senza alcun segno di corruzione, senza macchia. Per questo, Ippolito onora Artemide con una corona simbolica di ogni purezza e la offre alla dea evitando qualsiasi possibilità di contaminazione, anche attraverso gli occhi: il giovane infatti non guarda in volto la statua della dea (v. 86). Ossessionato dalla purezza, Ippolito rifiuta Afrodite, la dea dell’eros, del sesso, del contatto intimo, dello sguardo che emana desiderio.
Quel che Ippolito chiede alla dea è inaudito: «possa io compiere come l’ho iniziato il corso della mia vita» (v. 87). Si tratta di un auspicio che suona sinistro alle orecchie degli spettatori, che dal prologo sanno che la dea Afrodite vuole distruggere il giovane, come nota Guido Paduano. Si tratta di un auspicio sinistro in sé: Ippolito rifiuta il cambiamento, perché nulla alla fine può restare uguale a quel che era all’inizio. Forse Ippolito si augura di diventare un dio, per il quale il tempo non ha senso. E in questo auspicio non può che suonare immensamente empio e fuori della vita, quella vita che invece Fedra sente battergli dentro, abbracciarla, avvolgerla, animarla.
Mentre Ippolito enuncia la sua fede nella purezza e la sua devozione a un’esistenza senza vergogna, Fedra invece si sta consumando nel chiuso della sua stanza in preda a una malattia che chi la osserva non comprende e di cui non si riesce a capire l’origine. I sintomi di Fedra sono descritti dal coro delle donne di Trezene: è a letto; sul suo capo si stende un’ombra; non mangia, vuole morire. Fedra è in preda a follia. Le cause possono essere tante, ma alle donne del coro sembra chiaro che si tratti di una malattia tipica delle donne, che sono sospese tra l’angoscia «delle doglie e del delirio» (v. 164). Anche alle donne è capitato: e sono state liberate da Artemide «che presiede ai parti» (v.168). Dunque la stessa dea, Artemide, a cui Ippolito si consacra in tutta la sua intatta purezza e che è la dea delle partorienti, ha a che fare con il sangue – come del resto ha a che fare con il sangue essendo la dea della caccia –.
Così diventa chiaro l’altro sostanziale errore di Ippolito, oltre al desiderio assurdo di fermare il tempo: pensare che Artemide e Afrodite siano separate e opposte, che le loro sfere d’azione siano distinte e persino contrarie. Invece le api che impollinano quel prato che Ippolito ha presentato come akeratos, ‘puro’, il polline da cui si generano i fiori con i quali ha intrecciato la sua corona votiva, sono animali sacri ad Afrodite, portano fecondità. Più oltre nella tragedia il coro dirà che Afrodite spicca il volo come «come un’ape» (vv. 563-564). E i fiori sono un attributo della stessa dea dell’amore. La vergogna, l’aidós, che irrora quel prato, è la stessa emozione, con segno diverso, che tormenta Fedra, ed è l’emozione dolce dell’amore: «Afrodite dai piedi d’argento…sul dolce giaciglio pose/ l’amabile vergogna», canta ad esempio Pindaro (Pitiche, IX, 20-22).
La messa in scena della follia di Fedra è un magistrale pezzo di teatro e di metateatro: Fedra delira, immagina di essere un’altra persona, anzi, più precisamente: immagina se stessa come se fosse Ippolito, si immagina andare nel prato fiorito, poi andare a caccia sulla montagna, abbeverarsi alla fonte, invoca Artemide, la divinità cara a Ippolito. Fedra si mette metaforicamente la maschera di Ippolito; mette in scena, in senso non traslato, la propria follia. Fedra immagina di essere Ippolito, e rendendosene conto ha paura di aver svelato cosa e chi realmente la tormenta, e perciò chiede alla nutrice di coprirle il volto, perché «ha vergogna» (v. 244) di quello che ha detto. Piange copiosamente, negli occhi ha la vergogna (aischyne, v. 246). Ma le sue parole e i suoi desideri non sono affatto chiari alla nutrice: «Bisognerebbe essere indovini per capire quale dio ti sconvolga e ti devasta la mente» (vv. 236-237), dice. Come Ippolito, anche se in senso apparentemente contrario, Fedra vive intensamente la sua vergogna. La vergogna è il ponte metaforico che unisce e divide i due personaggi.
La parola aidós è poliedrica e l’idea stessa di vergogna è fluida: si ha vergogna davanti agli altri, ma anche davanti a se stessi; ci si vergogna per le azioni di altri, oltre che per le proprie. La vergogna costituisce per Ippolito un valore, è sinonimo di pudore e di onore: provare vergogna può coincidere anche con la compassione o la pietà. La vergogna è rossore, ma anche glaciale freddezza, pianto oppure impassibilità. Non sempre si riconosce la vergogna – come accade alla nutrice di Fedra, che non comprende e non vede quale sia la ‘macchia’ (miasma) che contamina Fedra (v. 317). Nell’Ippolito la vergogna, nella pluralità di accezioni, ha però un tratto comune: si tratta di un’emozione fisica, non nel senso che la vergogna suscita reazioni fisiche, ma nel senso che l’emozione stessa consiste in una sensazione corporea. La vergogna è quella tensione, quella specie di brivido elettrico, quell’allarme che allerta i muscoli, che scorre sotto la pelle, che fa anche battere il cuore, quella perdita del controllo di se stessi che ci prende nella vicinanza della persona verso cui sentiamo desiderio. Sia Ippolito che Fedra, per opposti motivi, evitano quella ‘vergogna’ che si manifesta a una distanza fisica ravvicinata ed esplode con il toccarsi. La tragedia si sviluppa attraverso l’inutile disciplina della vergogna, perché questa non si può evitare anche se la si respinge, dato che l’immaginazione supplisce all’assenza e a provocare vergogna basta solo il pensiero o il nome dell’oggetto del desiderio.
Perciò la vergogna impedisce a Fedra di nominare Ippolito, il cui nome viene fuori a poco a poco, per progressiva sollecitazione della nutrice. Ma a dire la parola ‘Ippolito’ non è Fedra, è la nutrice (v. 352) che ha infine capito, e quel nome cade come un macigno, sconvolge la nutrice stessa e le donne del coro che stanno ascoltando. Fedra teorizza due tipi di ‘vergogna’, aidós, una vergogna «non cattiva», l’altra che è invece un «peso per la casa». Come si fa a distinguere tra i due tipi? Quando l’occasione (kairos) rende chiaro (saphes) che si tratta di due diversi tipi di ‘vergogna’ (v. 386), al punto che sarebbe inappropriato usare lo stesso termine per designare due antitetici fenomeni (v. 387). La vergogna innocua sta sullo stesso piano delle chiacchiere tra amiche e dell’ozio (v. 384), è leggera, effimera, non lascia traccia; l’altra invece è un carico pesante, insopportabile. Vi è, in questa disquisizione della Fedra euripidea, una sognante propensione a lasciarsi andare a quei «molti piaceri» (v. 381) che animano la vita femminile a cui è negata l’avventura negli spazi aperti. La vergogna provocata dall’amore sarebbe uno di questi, se norme e convenzioni non intervenissero a disciplinarla. Una vergogna antitetica a quella personificata e casta che Ippolito immagina irrigare copiosamente il suo puro, intoccato prato (v. 78). La vergogna buona di Fedra significa lasciarsi trascinare dolcemente dalla vita, quella di Ippolito è caparbio rifiuto della vita stessa.
Il ragionare di Fedra, donna e filosofa che si interroga sui limiti etici dell’amore, come ha mostrato Agnese Grieco in un bel libro non ancora apparso in italiano, si confronta direttamente con la teoria dell’amore di Platone, rappresenta una raffinata variazione antisocratica sul tema dell’amore, condotta con termini e argomenti socratici. L’obiettivo va al di là delle gradinate del teatro di Dioniso, si rivolge a coloro che adorano il logos, la ragione, al punto da considerare il corpo un puro involucro, una prigione, per un’anima che sola può aspirare all’immortalità. Come sottolinea ancora Agnese Grieco, Fedra rivolge il suo discorso contro il logocentrismo di chi credette di negare le passioni e arrivò a bruciare le sue stesse tragedie, ossia contro Platone.
«Che cosa è quel che gli esseri umani chiamano amore?» – chiede Fedra alla nutrice (v. 347) e questa risponde con l’argomento saffico dell’amore come ossimoro: amore il dolceamaro, ciò che è più dolce e ciò che più fa soffrire insieme (v. 348). Ma colpisce, nell’argomentare di Fedra, nel suo lucido e insieme dolente affermare di non voler disonorare la sua famiglia e i suoi figli, la mancanza assoluta della designazione dell’oggetto erotico. Fedra non si riferisce mai esplicitamente a Ippolito, e ricordando gli amori mostruosi della madre Pasifae con il toro e della sorella Arianna con Dioniso enfatizza la duttilità estrema di quel che si ama, di «ciò» che uno ama, come dice Saffo. Fedra, la prima eroina dell’amore, come ha scritto Massimo Fusillo, rivendica la necessità dell’amore, contro la negazione rigida e insensata dei sensi e di ogni legame erotico da parte di un Ippolito che pretende di negare il cambiamento, la metamorfosi di ogni cosa, di negare, in fin dei conti, il tempo e la vita.
L’interpretazione che la nutrice dà del discorso di Fedra, allora, appare semplicistica: nessuno può opporsi ad Afrodite, l’amore è una legge universale, Fedra non può che cedere alla smisurata potenza dell’amore e osare «il coraggio di amare» (v. 176), dice la nutrice. Questa nutrice ha un rapporto morboso con la sua padrona: la sua vita è legata a quella di lei, il suo è un amore incondizionato, senza limiti. Si identifica con Fedra, così come questa, nel delirio, si era identificata con Ippolito. Vuole morire quando capisce quale sia la causa della malattia della sua padrona. La nutrice è legata a Fedra da amore, si potrebbe dire un’altra specie di amore, se Fedra non avesse già cercato di dimostrare che l’amore è sempre lo stesso, qualunque sia l’oggetto a cui si rivolge. Ma con una saggezza più pratica, senza addentrarsi in ragionamenti e senza voler fare filosofia, la nutrice accetta l’amore, il suo e quello di Fedra, come un fenomeno naturale, come una malattia che si può guarire con filtri e rimedi. Vuole aiutarla, e perciò le propone una magia, che la liberi da quell’amore che la sta distruggendo. Ma la nutrice sbaglia: nonostante il divieto di Fedra, rivela a Ippolito, che va a visitare perché ha bisogno di una sua ciocca di capelli per preparare il filtro magico, che Fedra è innamorata di lui. La reazione di Ippolito è isterica: respinge la nutrice che vuole toccarlo con il gesto dei supplici, che lo implora di non urlare. E lui invece urla, urla tanto che – persino fuori dalla reggia – lo sentono il coro e la stessa Fedra, comprendendo che il segreto è stato svelato. Come precisamente la nutrice abbia tradito l’onore di Fedra, non si sa bene; «mi ha distrutto parlando delle mie sventure» (v. 596), dice Fedra.
Non essendo capace dei sofismi di Fedra, la nutrice ha pronunciato parole chiare, sincere, non senza aver prima legato Ippolito al giuramento che non rivelerà quel che gli dice. Di nuovo si mette in scena una profonda diffidenza nei confronti della parola, in grado di dimostrare argomenti contrastanti, che può tradire, che svela quel che non deve essere svelato ma deve restare risposto nel cuore umano. L’amore non ama le parole, ma i gesti e gli sguardi. D’altro canto, quella della nutrice è a sua volta una dimostrazione d’amore: amando Fedra, si è così immedesimata in lei da farsi tramite del suo amore, seppure malato. Ha voluto parlare a posto suo, e ha sbagliato. C’è qui una vicenda di triangolazione amorosa, come si può osservare, ad esempio, nel celebre fr. 31 di Saffo: un uomo e una donna, una donna che li guarda e non può capire come può l’uomo restare indifferente, puro come un dio, davanti all’altra donna che invece suscita tutto il suo amore. La nutrice non capisce l’orrore di Ippolito, tanto più che si è recata da lui perché la aiuti a guarire Fedra dalla sua malattia: invece proprio la medicina finisce con l’uccidere Fedra (v. 597).
La tirata contro le donne di Ippolito rivela in quale mondo immaginario è recluso: rifiuta il contatto con altri esseri umani, rifiuta le donne, si arroga una sua specificità e unicità, una purezza inviolabile, e la attribuisce anche alla ‘sua’ dea, ad Artemide, senza comprendere che Artemide è solo un’altra faccia di Afrodite, ha a che fare con la nascita come con la morte, con il ritmo incessante della natura che si sostanzia di inizio e fine; ha a che fare con la carne e il corpo, con il godere, con la vergogna come piacere della vita, non solo con la casta vergogna che sembrerebbe garantirgli la vita eterna. Nella sua esplosione di rabbia contro chi vuole contaminarlo, nella sua paura del contagio morale e fisico, Ippolito cade nella hybris più insopportabile: si crede un dio. La sua fine, voluta dalla dea che ha offeso, da Afrodite, ma non impedita dalla sua protettrice Artemide, lo smentirà. Ippolito è anch’egli folle, di una follia diversa da quella di Fedra ma con un esito uguale, ed è dedito alla morte prima ancora di morire: il suo rifiuto di Afrodite significa rifiuto della vita e della possibilità di generare una stirpe. La sua venerata vergogna è come un veleno paralizzante.
Ma intanto Fedra diventa vittima della cattiva vergogna, perché il disvelamento del suo segreto la priva della possibilità di vivere. Il suicidio di Fedra, che anticipa e non segue la morte di Ippolito come in molte versioni moderne, è una notevole invenzione drammaturgica. Uccidendosi, Fedra in certo senso riduce a nulla l’importanza della persona amata, che è del tutto secondaria. Lei sfugge con la morte alla vergogna sociale del desiderio indicibile, al giudizio del marito, dei figli, della casa tutta, ma non sfugge all’amore in se stesso. Il motivo folklorico viene qui piegato anzi all’esaltazione della potenza dell’amore. È l’intensità della vergogna a condannare Fedra, non l’eros. Ma la vergogna diventa anche un’arma. Teseo trova una lettera tra le mani del cadavere di Fedra, che accusa Ippolito di averla stuprata. Così Fedra riesce a ritorcere la vergogna contro chi l’ha eletta a sua dea.
Il finale della tragedia è precipitoso. Teseo esilia e maledice il figlio, senza svolgere nessuna indagine o consultare un indovino. Mentre Ippolito sta andando via, è travolto da un maremoto in forma di toro, e trascinato dalle sue stesse cavalle che si staccano dal carro lasciandolo in fin di vita. Un messaggero riferisce l’accaduto al padre, che accetta di rivederlo morente, pur essendo del tutto indifferente alla sua sorte. Interviene Artemide a spiegare quel che è davvero accaduto e quindi coprire di vergogna Teseo.
La dea promette a Ippolito morente che sarà onorato, ma si tratta di un onore strano per il personaggio che sino alla fine ribadisce la sua assoluta castità e la sua intangibilità: per lui, dice Atena, le vergini si taglieranno i capelli prima di avviarsi al matrimonio, e sarà ricordato in eterno l’amore di Fedra. Ippolito dunque, che voleva separarsi da qualsiasi gesto di natura sessuale, resterà per sempre legato proprio a un atto rituale femminile di natura sessuale e sarà ricordato per aver suscitato un amore violento e quasi incestuoso. Così Ippolito viene, suo malgrado, inserito post mortem nel naturale ritmo della vita, nei legami sessuali ed erotici che aveva sciolto, nella vergogna intesa non come pudore, ma piacere, polimorfico e indominabile desiderio.
Ippolito diventa sì un simbolo e un esempio, ma non di castità. Al contrario verrà ricordato come protagonista di una vicenda in cui a vincere è Afrodite, dunque l’eros, il desiderio che avvolge tutto, che interessa anche le forme umane ma non è specifico solo delle forme umane, perché il desiderio è vita e quel che si desidera lo si desidera infinitamente proprio perché sfugge. Amare significa sempre amare qualcos’altro rispetto a quello che già abbiamo. La vergogna di Fedra, ha scritto Anne Carson, si espande su tutte le superfici, permea di sé il mondo, sopravvive a Fedra perché non riguarda solo Fedra.
Bibliografia:
Anne Carson, Grief Lessons. Four Plays by Euripides, New York 2006 (lì anche: Why I Wrote Two Plays About Phaidra by Euripides, pp. 309-312).
Anne Carson, Eros il dolceamaro, trad. italiana Milano 2021 (ed. originale 1986)
Massimo Fusillo, L’eros come malattia indicibile: Fedra, in: Eroi dell’amore. Storie di coppie, seduzioni e follie, Bologna 2021.
Agnese Grieco, Phädras Ehre, Berlin 2022.
Guido Paduano, La rivelazione dell’eros, in: Euripide, Ippolito, Milano 2000.
Sul significato estetico della 'gibigiana' vedi Francesco Zucconi, Gibigiana Film Festival. Atmospheres of Projection: Environmentality in Art and Screen Media di Giuliana Bruno, in Fata Morgana Web, 17 luglio 2023: https://www.fatamorganaweb.it/atmospheres-of-projection-bruno/
Per citare questo articolo: Sotera Fornaro, La vita accanto: Fedra, Ippolito e la vergogna, Visioni del Tragico. Blog culturale e di ricerca, ISSN 2784-8736, 27.08.2024, link: https://www.visionideltragico.it/blog/contributi/la-vita-accanto-fedra-ippolito-e-la-vergogna