Come vedono occhi innocenti l’accadere di immense catastrofi? Cosa accade nel corpo, nella mente, nella fantasia, nella memoria di chi è costretto a esperire un trauma, un lutto tremendo, a diventare vittima di una colpa commessa da altri?
Anche queste domande pone il mito di Antigone.
Antigone non si macchia di alcuna colpa, al contrario dei due fratelli maschi, Eteocle e Polinice, che si uccidono reciprocamente per brama di potere. Nel mito il crimine di Antigone è ‘pio’, è commesso per devozione agli dei e alla famiglia, pur contro una legge voluta dal nuovo Re. Viene condannata a morte per aver voluto dare sepoltura a uno dei suoi fratelli. Una sepoltura, che il nuovo Re della città non vuole per dare un esempio, per minacciare i nemici interni, per rafforzare il suo potere ancora fragile, ancora agli inizi, per sostenere un trono ricevuto legittimamente ma di sorpresa.
Parlando in pubblico dell’Antigone di Sofocle, tragedia infinita nel senso, specie davanti ai giovani, mi si chiede spesso: ‘chi sarebbe Antigone, oggi?’. La domanda, naturalmente, è mal posta: nessun personaggio mitologico ha consistenza storica, nessun personaggio mitologico può servire da controfigura per un individuo che agisca nella realtà. Tuttavia, soprattutto a proposito di Antigone, la cui esemplarità nel mondo contemporaneo è quasi unilateralmente positiva, si sente il bisogno di trovare analogie con paradigmi comportamentali ed etici che ci sono più vicini.
Ecco allora che il monologo scritto da Ascanio Celestini ormai più di vent’anni fa costituisce un tentativo di dare la parola a un personaggio assimilabile all’Antigone del mito proprio perché si tratta di una vittima della storia: una storia terribile, costellata da segreti di famiglia, lutti, incesti, guerre, ideologie della morte, una storia che travolge gli individui, cancella i più fragili d’un colpo o lascia in eredità un trauma inguaribile.
L’Antigone di Celestini è una donna senza età inchiodata al proprio passato e al ricordo di un padre che ama in modo viscerale, ma che si è macchiato involontariamente di parricidio e di incesto e che anche per questo ha terminato i suoi giorni in preda alla demenza. Solo una figlia, Antigone, ha continuato ad essergli vicina ed assisterlo sino all’ultimo e il dialogo con il padre continua anche dopo la sua scomparsa. Questa Antigone, dunque, come la sua antenata mitologica, è la memoria della famiglia, ma anche della grande storia che ha segnato in maniera indelebile un paese intero, la storia di un’Italia rurale dominata dalla violenza del regime fascista e che dopo la guerra ha dovuto fare i conti con l’adesione incondizionata ed entusiasta dei più a quell’ideologia finita con lo scempio di Piazzale Loreto. Antigone è vittima sospesa tra ricordo e volontà dell'oblio.
Non voglio riassumere la vicenda raccontata a voce sola dal monologo, che comunque rispecchia, attualizzandola, le grandi linee del mito di Edipo, anche perché Ascanio Celestini porta ancora in tournée il testo, nato dalla collaborazione con la brava Veronica Cruciani, che nel 2003 diede voce e corpo a questa Antigone; ce ne parla del resto nei dettagli, più oltre, Carlo Fanelli.
Voglio però segnalare l’importanza di questo monologo ancora oggi, quando le bombe cadono come pioggia incessante seminando terrore, morte e mutilazione tra persone inermi e bambini che vedono sotto i loro occhi esplodere la loro famiglia, la casa, il passato.
Quale è il rapporto di questi bambini con i loro padri? Li vedono come eroi, anche se muoiono perché terroristi? E chi sono per loro i nemici? Cosa è la giustizia? E quanti innocenti pagano il prezzo dei crimini di pochi? Come potranno quei bambini esprimere questa loro sofferenza – e come si sopravvive a una sofferenza di proporzioni così immani? Quale è il valore di queste ‘piccole’ vite davanti ad una Storia abnorme e immensa?
La voce pura e sgrammaticata dell’ Antigone di Celestini, come quella dell’Antigone di Elsa Morante in La serata a Colono che ha esplicitamente ispirato questo testo, è un tentativo di risposta, è lo sforzo di farci immaginare quel che invero è inimmaginabile nella sua abissale ingiustizia. Una voce che non ci consola, certamente, né ci redime. Ma continua ad echeggiare dentro di noi. Antigone eterna. (Sotera Fornaro)
A piedi verso casa di Carlo Fanelli.
Le nozze di Antigone è una “ballata popolare” che Ascanio Celestini scrive per Veronica Cruciani nel 2001 (Premio Riccione per il teatro 2001/2002), il cui interesse, non indirizzato al rifacimento, perviene ad un’eterogenea interpretazione del mito. L’eroismo titanico si trasfigura, infatti, nella pietas moderna di una giovane donna, il cui nome è taciuto e la cui individualità esiste poiché vincolata a quella del padre, anch’esso senza nome. Entrambi i personaggi sono sprovvisti di qualsiasi connotato caratteriale riconducibile al re di Tebe e a sua figlia e non sono mai reciprocamente isolati, tant’è che potrebbe anche non essere considerata quella di Celestini una rivisitazione dell’Antigone sofoclea.
La narrazione si snoda partendo da un prologo in cui un’istantanea sull’usanza araba di entrare in casa a piedi nudi, fornisce all’avvio del racconto contrassegni significativi. In primo luogo, l’individuazione della casa come ambito dell’azione, che la regia di Veronica Cruciani e Arturo Cirillo sviluppa in uno spazio scenico minimale, costituito da una pedana-pavimento su cui sono collocati un tavolo e due sedie. Esso non è soltanto luogo fisico, la cui angustia è restituita dalla piccola pedana, ma è anche simbolo di identità culturale attraverso cui, in modo straniato ma minuto e miope, si mescolano luoghi comuni, diffidenza e curiosità: guardare verso l’esterno, ad una cultura altra, i cui usi appaiono estranei. Poi, l’immagine dei piedi, cui è connessa la presenza in scena di oggetti dal molteplice simbolismo. Una bacinella, allusione al catartico lavaggio dei piedi che assolve Edipo e nello stesso tempo attesta l’umile dedizione di Antigone all’igiene personale del padre malato; alcune paia di scarpe, allegoria del mito di Edipo (“piedi gonfi”), la cui mescolanza e quantità rimanda, ugualmente, al disordine e alla demenza senile dell’anziano padre. Il punto di vista da cui prende origine la narrazione in scena di Antigone, interpretata da Veronica Cruciani è domestico e prevalentemente quotidiano. L’attrice lavora su piani drammaturgici e interpretativi eterogenei, adeguando gestualità e vocalità all’alternanza tra narrazione ed interlocuzione. Il personaggio non presente in scena, o che è già morto al tempo del suo racconto, è la riproduzione, ad alta voce, dei suoi ricordi e della sua immaginazione. Interpretazione in cui nella parlata romanesca e visionaria della protagonista si riconosce compiutamente la drammaturgia d’attore di Ascanio Celestini.
Il presente del racconto incede per sfasature temporali e incrocia la quotidianità del tempo narrato con l’istante dell’azione verbale; nella memoria intima e modesta affiorano frammenti del mito (il parricidio e l’incesto). Infine, la destrutturazione sintattica e l’incongruenza dei tempi verbali fanno da contrappunto alla serrata e irregolare sequenza narrativa, costruita sulla sfasatura dei piani visivi e temporali.
Il viaggio compiuto da padre e figlia verso una nuova dimora è già concluso nel momento in cui il racconto ha inizio. Non si occupa delle loro peregrinazioni conseguenti all’esilio. Se ne percepisce tuttavia il viatico picaresco, rafforzato dalle caratteristiche dei due personaggi. La vicenda è condensata su tutt’altra immagine che di tale condizione è comunque esito: l’isolamento, la reclusione in disadorne e maleodoranti mura domestiche di borgata. Alla malinconia quotidiana fa da contraltare la malattia incipiente dell’anziano padre, la sua diffidenza nei confronti del prossimo, rappresentato dai testimoni di Geova e da un ragazzo del servizio civile che cura l’assistenza agli anziani. Si tratta di simboli di un disagiato microcosmo attuale e reale in cui coabitano ipocrisia, ignoranza, fragilità, solitudine, paura, in cui il contatto umano è reso asettico dall’utilizzo dei guanti in lattice.
In tale quadro Edipo è un personaggio in absentia ingabbiato nelle parole della figlia che gli si rivolge con un riguardoso “voi”, una forma di rispetto del passato, che rimarca la dedizione filiale, radicale nell’inatteso finale. La peripezia tragica di questo Edipo sta tutta nella quotidianità malata, nelle disgrazie della vita e le reminiscenze del suo passato eroico raccontate da Antigone. Si tratta di piccole storie affioranti dalla routine quotidiana, come la malattia invalidante che richiama la difficoltà di deambulazione dell’Edipo sofocleo.
L’infermità fisica, componente centrale del testo è il punto di raccordo fra l’Edipo di Sofocle e quello di Ascanio Celestini, un contrassegno dell’identità svelata per il primo, la condizione di vita presente del secondo. Il malato e il disadattato sono, invece, i profili che più identificano il personaggio che Celestini trasporta dall’epos alla contemporaneità, rendendo il suo omaggio a Elsa Morante, autrice de La serata a Colono poema compreso nella raccolta Il mondo salvato dai ragazzini (pubblicata da Einaudi nel 1968) in cui la scrittrice romana rielabora la vicenda di Antigone. Dalla versione di Elsa Morante Celestini recupera la dimensione quotidiana ed intima del legame padre-figlia. Edipo è anche qui malato ed è amorevolmente assistito da Antigone. Al loro dialogo fa da coro un’umanità corrotta e minacciosa e vi affiora l’indigenza e il malessere nei confronti del reale. Il tessuto narrativo è strutturato sulle svariate citazioni e ripetizioni grottesche del Coro, le farneticazioni di Edipo e le espressioni gergali e inflessioni napoletane di Antigone, coralità di cui è privo il testo di Celestini. Vi è un’immagine significativa che dal testo della Morante migra in Le nozze di Antigone, quella di Edipo instancabile “camminatore”. In entrambi i casi la dote del personaggio vuole rimandare e superare la nota vicenda dei piedi legati di Edipo e non solo visualizzare le sue peregrinazioni da Tebe a Colono e infine ad Atene, ma sostenerne il ruolo di rappresentante di una storia moderna che ci appartiene.
Ciò che Antigone racconta è una vicenda comune a molti: quella di un uomo reso infermo da una ferita di guerra procurata durante la clandestinità partigiana, nel tempo “prima della malattia”, quando un giovane Edipo che fa il pastore uccide una pattuglia fascista con la pistola che il suo padrone gli aveva dato come ricompensa per il lavoro svolto. L’episodio non riguadagna l’antitesi città-campagna, il passaggio dell’arma dal padrone al contadino, in sostituzione del cibo e della paga, annuncia piuttosto la chiamata alle armi delle inoffensive masse contadine costrette dagli avvenimenti a prendere parte alla guerra partigiana, importante quanto il sostentamento, rimarcata dal rogo della casa rurale da cui Edipo “vivi e morti tira fuori”. L’assassinio di cui il pastore si macchia alle porte della città trasfigura l’uccisione di Laio alle porte di Tebe. L’avvenimento fulmineo costringe il pastore alla clandestinità in quella montagna prima frequentata per il pascolo. Essa è il rifugio in cui il partigiano conoscerà la sua futura sposa, personaggio dalle svariate identità: moglie-madre, Sfinge e Giocasta allo stesso tempo, la donna ubriaca che svela la sua identità di figlio illegittimo, la prostituta che imperversa nella stalla e intreccia la criniera del suo cavallo da cui indovina l’enigma della Sfinge, grazie anche all’aiuto del “compare” (Tiresia).
L’intreccio sofocleo è scalzato da racconti orali sulla Seconda Guerra Mondiale, documenti più volte utilizzati da Celestini nei suoi testi, in cui la storia collettiva s’incrocia con l’intimità e i ricordi personali, ma lasciando il posto anche a visioni oniriche frutto dell’immaginazione del narratore o legati a leggende popolari. Antigone non è più la figlia-sorella del re di Tebe, ma la donna che racconta una storia ascoltata a sua volta, in cui suo padre, come spesso accade nella fantasia e affezione di tanti figli, diviene un eroe. L’immaginazione devota di questa donna è fervida e durevole è la sua dedizione, tanto da costringerla a restare al fianco di suo padre sino alla morte di quest’ultimo. Non è certo che nell’intero racconto Antigone si rivolga al padre vivo o se la sua narrazione rimandi ad una memoria di una persona non più presente, come sembra chiarire la conclusione del racconto, in cui la morte di Edipo è direttamente rivelata. A tale nuova e risolutiva condizione, il racconto di Antigone unisce una confessione straziante e romantica, un desiderio sopito in cui è implicito un rimando diretto alla vicenda di Edipo. Un sogno ricorrente, ancora una volta legato al passato ma che è suggestionato da sentimenti e pulsioni del presente, in cui suo padre che accompagna alle nozze con la donna conosciuta da partigiano, per la confusione, per la “prescia” (altro recupero verbale dal testo della Morante) o per inconscio desiderio, sposa la sua devota figlia suggellando il vincolo, l’affetto e la dedizione che per tutta la vita hanno mantenuto l’una in compagnia dell’altro.
Epilogo
Dopo quasi vent’anni Ascanio Celestini ri-conduce alla sua voce e alle sue posture in scena il testo che scrisse originariamente per Veronica Cruciani nel 2001. Nel 2003, condividendo la regia con Arturo Cirillo, l’attrice e regista romana lo aveva messo in scena proponendo una narrazione inquieta e dolce, modulata dai ritmi e la musicalità del racconto orale. Nel 2010 il testo, sino a quel momento inedito, era stato pubblicato (con una prefazione dello scrivente, qui riproposta quasi integralmente) in “Teatro in tasca” collana di drammaturgia contemporanea di Abramo Editore, andata esaurita e mai riproposta.
Oggi, ri-conquistando e ri-portando in scena il suo testo nella sua drammaturgia originale, Celestini ne propone un reading con i contrappunti di Gianluca Casadei alla fisarmonica e un prologo che ne racconta genesi e motivi conduttori. All’ascolto, il testo non dissipa l’intensità e la presenza scenica di cui Veronica Cruciani aveva nutrito la sua intensa interpretazione. Le parole mantengono il loro valore apodittico, il richiamo costante tra mito, storia e invenzione e incalzano lo spettatore sospeso tra l’ascolto rapito e la commozione finale.
Riferimenti
Ascanio Celestini, Le nozze di Antigone, pref. di C. Fanelli, “Teatro in tasca” n. 9, collana dir. da V. Costantino, Abramo Editore, Catanzaro 2010.
Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, in La serata a Colono, Einaudi, Torino 1968.
https://www.teatro.it/spettacoli/le-nozze-di-antigone#google_vignette
https://www.teatro.it/notizie/teatro/le-nozze-di-antigone
https://www.mismaonda.eu/spettacoli/in-corso/404-ascanio-celestini-le-nozze-di-antigone
https://www.teatroecritica.net/2024/08/le-nozze-di-antigone-ascanio-celestini/
https://www.klpteatro.it/nozze-antigone-ascanio-celestini-videointervista
https://ildispaccio.it/cultura/2024/08/30/ascanio-celestini-porta-in-scena-le-nozze-di-antigone-l1-settembre-lo-spettacolo-a-reggio-calabria-per-il-festival-oltremare/
Per citare questo articolo: Carlo Fanelli – Sotera Fornaro, Le nozze di Antigone di Ascanio Celestini: le parole degli ultimi, Visioni del Tragico. Blog culturale e di ricerca, ISSN 2784-8736, 17.9.2024, link: Le nozze di Antigone di Ascanio Celestini: le parole degli ultimi. (visionideltragico.it)