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Dopo essere stata presentata per la prima volta lo scorso luglio ad Atene nella cornice del Festival teatrale di Epidauro, e ai primi di agosto al Teatro antico di Kourion (Cipro), è arrivata in Italia l’Orestea di Theodoros Terzopoulos, in scena il 20 e 21 settembre al Teatro Olimpico di Vicenza per l’apertura del 77° Ciclo di spettacoli Classici.

È stato un evento con tutto esaurito e standing ovation finale in entrambe le serate. Non solo un’inaugurazione come meglio non si sarebbe potuto immaginare per l’annuale rassegna teatrale vicentina diretta da quest’anno da Ermanna Montanari e Marco Martinelli, ma anche un omaggio dovuto al regista greco, noto nel mondo intero per le sue messinscene del repertorio tragico classico (ma non solo), e per avere fondato nel 1985 a Delfi l’Attis Theatre Company.

 

A Terzopoulos, che in gioventù si è formato alla Scuola d’arte drammatica Michailidis di Atene e quindi al Berliner Ensemble di Berlino sotto la guida di Heiner Müller, si deve la messa a punto di uno specifico metodo di lavoro che punta a liberare nel corpo dell’attore, attraverso appositi esercizi di respirazione, dizione e movimento, l’energia dionisiaca che si trova in ciascuno, vale a dire l’energia vitale, erotica e creativa, che solitamente è repressa[1]. Ebbene la sua Orestea, oltre ad essere una messinscena della trilogia eschilea, capace di tenere gli spettatori sulle corde per tre ore e mezzo senza interruzioni e senza mai una caduta di stile, costituisce anche un’appropriata applicazione di tale metodo. E non si tratta solo di respirazione e recitazione degli attori (elementi comunque essenziali), ma di un impianto complessivo della regia e della scenografia perfettamente compiuto, compatto e coerente dal primo all’ultimo minuto, in cui le luci e i costumi, le scene e i movimenti concorrono, con i versi eschilei nella traduzione in greco moderno di Eleni Varopoulou, a creare un ritmo incalzante. Raramente è capitato di vedere un Orestea così originale e avvincente, un vero e proprio capolavoro artistico autoriale. Forse la pietra di paragone più prossima sarebbe la mitica messinscena di Peter Stein alla berlinese Schaubühne nel 1980, benché i presupposti artistici fossero del tutto differenti.

Ma lasciamo da parte i paragoni con altre Orestee del recente passato (si potrebbero scomodare pure quella di Gassman-Lucignani del 1960, di Ronconi del 1972, o Les Atrides di Ariane Mnouchkine del 1990; sulle Orestee del XXI secolo vedi invece il fascicolo monografico della rivista 'Visioni del Tragico' a cura di Raffaella Viccei). Il primo aspetto da notare è l’essenzialità assoluta dello spettacolo: niente effetti speciali, niente immagini proiettate su schermi, niente macchinari tecnologici moderni. La scenografia (firmata da Sokratis Papadopoulos) è antinaturalistica e geometrica: sul palco è tracciata una pedana circolare bianca, segmentata in raggi, dentro cui si posiziona il coro. Sul perimetro della pedana s’intravedono brandelli di panni bianchi intrisi di sangue. Su un lato una panca nera, spazio dell’attore. Sembra che Terzopoulos intenda riprodurre lo schema arcaico delle rappresentazioni tragiche, quello precedente all’edificazione di teatri lignei, quando le recite avvenivano nelle piazze cittadine e il cerchio (χορός) attorno a cui si disponeva il pubblico delimitava lo spazio della performance.

 

La sentinella (Tasos Dimas) tace per i primi minuti e poi si scompone per il ronzare di vespe apparenti che lo assolgono: è il modo per esprimere la sua inquietudine senza fine nell’attesa che il segnale di fuoco della vittoria appaia nel cielo stellato. Ciascuno dei coreuti, in abito nero, tiene due coltelli puntati al collo, a simbolizzare il disagio e la paura, mentre Clitemnestra (interpretata da Sophia Hill) si presenta con abito scuro, capelli color biondo platino e un grande ventaglio rosso come archetipica femme fatale. Si rivolge con tono autoritario e aggressivo ai componenti del coro i quali, uno dopo l’altro, cadono ai suoi piedi. Agamennone (Savvas Stroumpos) è un vigoroso signore della guerra che arriva senza carro marciando al passo dell’oca e sghignazzando sonoramente. Un momento di grande ispirazione estetica è quello in cui i coreuti sdraiati a terra si allineano con movimenti simmetrici fino a formare un tappeto umano sul quale il sovrano cammina fino all’ingresso nella reggia, dove la moglie lo avvolge in un velo bianco, prima del macello. Evelyn Assouad è ammaliante nel ruolo di Cassandra: il delirio profetico e il percorso che compie verso la reggia e verso la morte è accompagnato da un dolente canto di lutto in linga araba. Egisto (David Malteze) festeggia la morte di Agamennone riproducendone la risata sarcastica e la marcia a passo d’oca, a mo’ di sberleffo. La sua passività rispetto al decisionismo esagerato di Clitemnestra è plasticamente evidenziata nella scena in cui segue la regina di Argo camminando carponi.

Nelle Coefore le donne argive dedite alle libagioni che compongono il coro si presentano con le mami legate da un nastro rosso, a simboleggiare la condizione di prigionia nella reggia della coppia tirannica che ha assunto il potere. Mentre Elettra (Niovi Charalambous) prega sulla tomba del padre, Oreste (Kostas Kontogeorgopoulos) e Pilade (Konstantinos Zografos) arrivano in scena a torso nudo, pronti a mettere in atto il piano di vendetta. Molto toccante la scena del riconoscimento tra Elettra e Oreste, quasi tutta in silenzio, con i corpi dei due attori che si intrecciano fino ad unirsi uno all’altro. Appena compiuto il matricidio il coro delle Erinni si avventa su Oreste con intenzioni omicide e lo bracca fino a inghiottirlo nel mucchio. Il passaggio dalle Coefore alle Eumenidi è realizzato senza soluzione di continuità: quando le Erinni si placano e s’addormentano, ritroviamo Oreste al centro della pedana circolare, abbarbicato alla pietra sacra del santuario delfico. Appare il dio Apollo (Nikos Dasis), in uno sgargiante abito bianco a metterlo in salvo mandandolo ad Atene per essere processato secondo le regole che spiegherà la dea Atena.

Se gli attori di questa Orestea offrono tutti una buona prova attoriale, non c’è dubbio che il cuore della rappresentazione sia il coro. L’impostazione di Terzopoulos con la sua ricerca delle origini dionisiache del tragico non può che valorizzare al massimo la dimensione corale. I giovani attori che compongono il coro si muovono per tutta la durata della messinscena con movimenti ritmici tali da far vibrare le energie più recondite dell’animo umano, esprimendo con incredibile intensità la gamma delle emozioni che la vicenda suscita, dal terrore alla rabbia, dalla superbia al disprezzo, dalla gioia alla delusione. È lì che si condensa principalmente la maestria di Terzopoulos: che interpretino i vecchi di Argo, le donne delle libagioni rituali o le ripugnanti Erinni, i ragazzi e le ragazze del coro formano un corpo attivo, energico e sofferente, che si muove sullo spazio circolare dell’orchestra secondo forme geometriche rigorose e con respiri ritmicamente misurati. Questo coro è una danza ininterrotta che produce armonia e dissonanza in costante alternarsi.

Heiner Müller, grande drammaturgo tedesco, allievo e continuatore di Brecht, maestro di Terzopoulos, ha descritto con queste parole il processo di composizione artistica perseguito dal regista greco: «Non è l’esecuzione di un concetto drammatico, è un’avventura in un viaggio verso il paesaggio della memoria, una ricerca delle chiavi perdute dell’unità fra il corpo e il linguaggio, la parola come unità naturale». Mi pare una definizione perfettamente calzante per l’Orestea del 2024. Ma va aggiunto un altro aspetto. Terzopoulos non può non avere ereditato da Müller l’attenzione per i significati politici del teatro, secondo la migliore tradizione della scuola brechtiana. Ebbene, nell’Orestea, opera che pure conosce un’antica prassi di interpretazioni in chiave politica, la dimensione politica è lasciata sottotraccia per tutto lo spettacolo. La fondazione dei tribunali, della civiltà giuridica, della democrazia, come emergono nella terza parte della trilogia (le Eumenidi), sono aspetti poco sottolineati. Anche il dibattimento giudiziario è compresso e il rito della votazione appena accennato con schede elettorali rosse che i coreuti lanciano in aria (non depositano nell’urna), ma che Atena decifra come volontà di assolvere l’imputato Oreste. Terzopoulos non enfatizza la vittoria del nuovo sul vecchio, del moderno sull’arcaico, della giustizia sulla vendetta. Lo rappresenta come un passaggio ineluttabile, e da questo punto di vista parrebbe aderire a quella che lo studioso Anton Bierl, nel suo importante studio sulle rappresentazioni novecentesche della trilogia eschilea, ha definito «modello anti-affermativo», un approccio che comporta generalmente esiti critici e pessimistici[2].

La sensazione è che Atena, interpretata da Aglaia Pappa come figura statica e ieratica, sempre intenta a impartire istruzioni con tono solenne, manipoli le Erinni inducendole con la forza e la minaccia, più che con la persuasione dialettica, a rinunciare al loro potere (la sottomissione è accompagnata dal rumore fuori scena di raffiche di mitra), e che le nuove élite (Oreste) non siano poi molto diverse da quelle vecchie (Agamennone e Clitemnestra) Nel finale della rappresentazione, dopo che le Erinni divenute Eumenidi sono uscite mestamente di scena, sul palco rimane un attore solitario che si dispera e piange mentre raccoglie da terra drappi intrisi di sangue (il lenzuolo in cui fu avviluppato Agamennone per il massacro, ma più in generale i tanti sudari degli eccidi che scandiscono la vicenda degli Atridi), mentre una voce annuncia con entusiasmo: «Welcome in the new world!». E da un altoparlante si sente un notiziario che annuncia le ultime notizie: stragi, bombe, massacri, naufragi nel Mediterraneo e altre catastrofi umanitarie, tra Gaza e l’Ucraina, alternate a rumori di mitraglia e a bollettini delle borse internazionali.

Non c’è alcun happy end alla fine dell’Orestea, e questo era chiaro già in Eschilo. La nuova civiltà che trionfa, quella della democrazia, dell’occidente, del capitalismo neoliberista, è un mondo feroce e assassino, tanto quanto l’arcaico sistema di potere fondato sulla logica della vendetta. Concludiamo questa nota con una riflessione di Terzopoulos che si legge sul programma di sala dello spettacolo e che ci pare particolarmente significativa per la comprensione della messinscena: «Il discorso di Atena introduce la persuasione ingannevole, menzogne e inganni nell’arena politica. Le Erinni cedono di propria iniziativa. Vengono rinominate Eumenidi (“le Benevole”) e si allontanano dal cuore della città. Il loro destino è l’oscurità e l’oblio, nelle profondità della terra. La democrazia è stata istituita. Ma non in modo indolore. Qualsiasi cosa sia incompatibile con il nuovo regime – la parte del corpo vivente associata alla memoria, all’istinto, agli istinti animali – è stata bandita. Il nuovo ordine delle cose è imposto dai meccanismi del potere in modo da far sembrare che queste forze vitali non siano mai esistite».

 

[1] Il manifesto teorico di questo metodo è rappresentato dal volume Il ritorno di Dionysos. Il metodo di Theodoros Terzopoulos, trad. it. di Michalis Traitsis, Elettra Di Gaetano, Cue Press, Imola 2017. Cfr. inoltre lo studio di A. Porcheddu, Il respiro di Dioniso. Il teatro di Theodoros Terzopoulos, Luca Sossella Editore, Roma 2020.

[2] A. Bierl, L’Orestea di Eschilo sulla scena moderna. Concezioni teoriche e realizzazioni sceniche, trad. it di L. Zenobi, Bulzoni, Roma 2004 (ed. or. Stuttgart-Weimar 1996), pp. 111-156.

 

 CREDITI FOTOGRAFICI @DANIEL BERTACCHE

Per citare questo articolo: Gherardo Ugolini, Eschilo secondo Terzopoulos. L'Orestea al Teatro Olimpico di Vicenza, Visioni del Tragico. Blog culturale e di ricerca, ISSN 2784-8736, 6.10.2024, link: https://www.visionideltragico.it/blog/contributi/eschilo-secondo-terzopoulos-l-orestea-in-scena-al-teatro-olimpico-di-vicenza