L’ Edipo Re di Sofocle ha assunto, in questo anno di pandemia, sensi metaforici e simbolici ancora nuovi.
La peste con cui si apre la tragedia di Sofocle non poteva che servire alla suggestione del rispecchiamento con la situazione attuale: la nostra città globale è malata, un virus sconosciuto vi ha fatto irruzione sovvertendo la nostra vita. Ma non solo il genere umano soffre: anche la natura e l’ambiente manifestano tragicamente le loro crisi e i segni di un contagio letale.
Come nella tragedia di Sofocle, da parte nostra subito è iniziata la ricerca delle cause di quel che sta accadendo e non soltanto della ancor sempre misteriosa origine del virus e di come si sia trasmesso da un animale all’uomo. Immediatamente si è anche avviata l’indagine sulle ragioni più late che hanno favorito la diffusione della pandemia, come gli stili di vita irrispettosi dei ritmi umani, la violenza contro la natura, l’inquinamento distruttivo, la globalizzazione dissennata. Come se questi fenomeni ci avessero colto di sorpresa e non fossero ormai da tempo parte del nostro paesaggio e del nostro orizzonte spirituale.
A chi chiederne ragione in tempi di emergenza? A chi detiene il potere, o meglio sarebbe dire: i poteri.
La salvezza passa, per noi come per i cittadini della mitica Tebe della tragedia di Sofocle, dall’individuare un colpevole o i colpevoli: se li distanziamo, se li cacciamo dalla polis, il contagio si fermerà. Questa la speranza rispetto a fenomeni che non si riesce a dominare, il ricorso a una religione dell’esclusione e del distanzamento. Vi è un desiderio minaccioso nella ricerca di un capro espiatorio, dal cui sacrificio dipende la nostra salvezza.
Per identificare il colpevole è però comunque necessaria un’inchiesta, bisogna capire perché accade quel che sta accadendo: ed è in questa storia, nel senso etimologico di ‘ricerca’ (greco: historia), che consiste l’azione dell’Edipo Re di Sofocle.
Chi detiene il potere, e vuole essere giusto, decide solo consultandosi con chi sa: si rivolge allora alla scienza, volendo risposte sicure alle domande, esigendo certezze e rassicurazioni che la libertà della scienza non può dare, invocando scoperte senza conoscere le pratiche attraverso le quali si giunge a scoprire qualcosa di nuovo.
Scienza e potere, insieme, generano un esercizio politico forte, spesso si affidano a una guida sicura, a un capo autorevole, come è Edipo per Tebe: un capo che di nuovo salvi la città malata.
E qui sta la tragedia di Edipo e la nostra: quel colpevole spasmodicamente cercato da Edipo è lui stesso. Il cacciatore si identifica col cacciato, la vittima col carnefice. E così, tra le tante suggestioni che scaturiscono dalle riletture della tragedia di Sofocle, emerge quella per cui il Covid 19, la ‘peste’ che ci attanaglia, ci costringe a un percorso di verità, che ci rivela infine, crudelmente ma con chiarezza, come i colpevoli siamo noi stessi.
La tragedia di Sofocle non racconta di un percorso conoscitivo esclusivamente razionale, ma anche soprattutto emotivo, un percorso tragico perché rivela tutta la vacuità della presunzione umana di farsi misura di tutte le cose. Disegna, insomma, lo svolgimento della tragedia dell’uomo contemporaneo.
La tragedia perciò (ri)nasce, nel segno di un’alleanza tra Apollo, ossia la scienza e la comprensione razionale, e Dioniso, il sentimento e la follia. La tragedia (ri)diventa l’espressione privilegiata della nostra visione del mondo.
In altre parole: l’Edipo Re diventa la tragedia dell’antropocene, o meglio nell’Edipo Re sembra inscritta la matrice teatrale dell’antropocene.
Questo assunto è alla base dell’esperimento di teatro digitale, portato in streaming alla Volksbühne di Berlino, teatro chiuso come gli altri a causa della pandemia, nato dalla collaborazione del teatro berlinese (sulla cui storia vedi qui) con il ‘Teatro dell’Antropocene, Theater des Anthropozän’ dell’Università Humboldt di Berlino. Testo (con molti inserti da Sofocle) e regia sono di Alexander Eisenach.
Questo progetto artistico, culturale, scientifico e civile si ispira all’idea humboldtiana (di Alexander von Humboldt e non del fratello Wilhelm a cui è intitolata l’Università berlinese) che il legame tra uomo e natura deve fondarsi sia sulla scienza sia sull’esperienza, sull’emozione e sull’empatia. Il ‘Teatro dell’antropocene’ è un progetto diretto da due scienziate (Sabine Kunst, Antje Boetius) e un critico letterario, scrittore e darmmaturgo (il noto Frank Raddatz), con l’ambizioso scopo di unire scienza e arte, ma anche tutta la società civile, in una ‘scena’ dove non si pongono solo questioni e le si analizzano, ma si stimola e progetta l’azione concreta.
Al centro di questa scena sta il conflitto tra uomo e natura, l’analisi delle conseguenze distruttive che sull’ecumene ha avuto e ha l’azione dell’uomo, la necessità di reagirvi. Da qui la rievocazione di Edipo, anzi la sua “rivitalizzazione” nel segno delle crisi attuali, la nuova equiparazione del personaggio mitologico con il potere storico dell’uomo sull’ambiente.
Edipo è Anthropos (= uomo) e tiranno.
“La tragedia dell’Anthropos è la tragedia dell’uomo, che ha presunto follemente di porsi come indiscusso dominatore sui pianeti e ha esteso continuamente la sua tirannia sino a saccheggiare ogni ambito della vita terrestre considerandolo una risorsa. Ora che siamo di fronte a una catastrofe globale, i veggenti ci puntano il dito contro. Noi stessi siamo i colpevoli della pandemia e di un clima pestifero. Abbiamo ignorato i segni. Pensavamo di poter sfuggire al nostro destino, ossia alla dipendenza dalle condizioni poste dal contesto in cui viviamo. Ora, quando la storia si rimette in moto, e comincia ad agire davanti ai nostri occhi dappertutto nel mondo, dobbiamo ammettere, vergognandoci, che abbiamo disconosciuto la nostra origine, e che siamo figli della terra. I rapporti di potere si sovvertono. Quel che noi reputavamo essere la scena del nostro agire, si mostra invece come il vero soggetto della nostra storia. Ed è il pianeta stesso“.
Per molti anni Edipo si è ingannato su quel che era stata e che aveva significato la propria storia personale.
Dopo aver risolto l’enigma della Sfinge, gli toccò di prendere il trono della città. Edipo visse nell’illusione che la propria capacità di sapere e comprendere avesse prevalso sulle forze cieche della natura, le avesse finalmente ridotte al giogo della ragione. Così nel XX secolo la scienza sperimentale sembrava aver trionfato della natura.
Ma scoppia una peste, e obbliga Edipo a ripercorrere il proprio passato: e così un contagio ci obbliga adesso a ripercorrere il nostro passato, sin dalle origini, a chiederci criticamente quale impatto devastante abbia avuto la tecnica, quali siano state le conseguenze di uno sfruttamento dissennato della natura e quali conseguenze abbia realmente sortito. La risposta alla domanda è annichilente.
Siamo tutti come Edipo: abbiamo agito commettendo azioni terribili. Edipo resta sorpreso dalla propria storia, atterrito dalla scoperta di aver ucciso il padre e generato figli con la propria madre; e così l’uomo contemporaneo è stato colto da stupore, da sorpresa, quando la terra ha cominciato a ribellarsi, nel piccolo e nel grande, ponendo fine all’età del dominio della ragione di cartesiana memoria (‘L’uomo è signore e proprietario della natura’, Discorso sul metodo, 1673).
La conoscenza di Edipo consiste nell’apprendere finalmente, dopo secoli di umano dominio, che la natura non va espropriata, né considerata ‘a costo zero’, come accade anche nella tradizione marxista; e che l’uomo non è oggetto della creazione e della trasformazione della natura, ma ne è parte in causa, ne è anzi responsabile.
Edipo, ossia l’uomo, deve prendere coscienza delle proprie responsabilità, delle passate, delle presenti e delle future: deve cioè prendere coscienza dei crimini commessi, deve riconoscere la propria grave hamartia, l’errore di valutazione, ossia l’aver considerato la natura come ontologicamente invariabile, un campo neutro dove poter esercitare il potere della propria intelligenza.
L’antropocene stessa diventa dunque un mito edipico e così è stata definita da Bruno Latour, poiché diventa l’epoca in cui l’uomo deve riconoscere le illusioni su cui si basa la propria sovranità.
Eppure non tutto è perduto: Edipo lasciò la sua stirpe in preda ad una catena ininterrotta di sventure. Noi adesso ancora siamo in tempo ad evitare di lasciare ai posteri la necessità di scontare le nostre colpe, la maledizione che si propaga di generazione in generazione.
Quel che abbiamo fatto all’acqua, all’aria, alla biosfera non può essere dimenticato dalla memoria della Natura, e non lo sarà. Eppure è il momento che Edipo, divenuto autoconsapevole, entri nella regione della verità, quella che Sofocle ha messo in scena con l’Edipo a Colono, dove il cieco, mendicante, il reietto della società, il portatore del contagio, trova alla fine la sua pace. A noi, dunque, deve stare a cuore il destino di chi verrà dopo: da qui il bisogno che arte e scienza si uniscano, come accade nell’esperimento teatrale della Volksbühne di Berlino.
Gli scenari della tragedia lasciano ancora aperta la possibilità di una riconciliazione tra macchine e natura, tecnologia e biosfera, umanità e post-umanità.
Dopo una prima diretta streaming, è possibile adesso assistere all’esperimento di teatro digitale ancora i giorni 1 e il 26 marzo con i sottotitoli in inglese. Si tratta di un esperimento visualmente interattivo, nel senso che è possibile ‘navigare’ nello spazio del teatro con il mouse, i tasti del telecomando, sfiorando gli schermi.
Segue la traduzione del ‘prologo’ dello spettacolo (testo di Alexander Eisenach; la traduzione è mia).
Questa qui sarà stata una tragedia. Questa non sarà stata una riscrittura, non un’attualizzazione, non una interpretazione. Questo mondo non sarà stato un mondo che voi abbiate capito. Questa tragedia non sarà stata un mondo che si possa capire attraverso la vostra osservazione o la vostra conoscenza. Questa tragedia non sarà stata l’oggetto della vostra conoscenza.
Alcuni hanno detto che la tragedia sarebbe morta, hanno detto che non sarebbe stato più tempo di tragedia. Erano convinti della loro intelligenza, delle loro consapevolezze, della loro capacità di conoscere. La tragedia per loro non esisteva, perché erano contenti così. Tutto sarebbe stato subordinato alla loro ragione e questo mondo era solo per loro. Questo mondo era importante solo come portatore di significato. Ogni mondo era importante come portatore di significato, era importante come qualcosa che era pensato per gli uomini.
L’uomo divenne il potere ordinatore delle cose. Divenne Anthropos e non volle a lungo essere oggetto della vita, ma il suo dominatore. Anthropos, tiranno. Vinse la Sfinge, risolvendo il suo enigma. La sua risposta alla Sfinge, cioè ‘l’uomo’, diventò risposta per tutto. La Sfinge dovette sparire come le altre creature. La città era liberata e il liberatore divenne suo dominatore.
L’uomo viveva della speranza, la categoria sostanziale ch’egli aggiunse al suo comprendere e riconoscere. Si, l’uomo legò persino la ragione con la speranza e istituì un legame logico-causale tra esse. Come se il futuro della vita dipendesse necessariamente dal suo pensiero. La vita, il mondo, la realtà era diventata una scena a cui si guardava dall’esterno.
La tragedia, questa tragedia non si lascerà guardare dall’esterno. Questa tragedia sarà già stata messa in scena, quando comincerà il processo del comprendere. Questa tragedia non avrà prodotto speranza. Non avrà dato guide di nessun tipo.
Coloro che dicevano che la tragedia sarebbe morta, siedono adesso al posto degli dei. Non vogliono più accettare che sono stati messi fuori gioco da nessun'altra forza se non quella del loro pensiero e del loro agire. Essi imposero la loro immagine, la loro comprensione del mondo e si liberarono dal gioco mutevole degli dei in conflitto, delle forze del destino, che lottavano per loro.
Fotografie di THOMAS AURIN
Con: Johanna Bantzer, Manolo Bertling, Sarah Franke, Sebastian Grünewald, Vanessa Loibl, Emma Rönnebeck, Sarah Maria Sander, i musicisti Niklas Kraft e Sven Michelson, Prof. Dr. Antje Boetius (Direttrice Istituto Alfred-Wegner), Dr. Frank M. Raddatz (Theater des Anthropozän der Humboldt-Universität zu Berlin)
Regia: Alexander Eisenach
Co-ideazione: Frank M. Raddatz (Theater des Anthropozän)
Scenografia: Daniel Wollenzin
Costumi: Lena Schmid, Pia Dederichs
Direzione musicale: Niklas Kraft, Sven Michelson
Luci: Johannes Zotz
Video: Oliver Rossol
Drammaturgia: Ulf Frötzschner