(Segue da qui)
Sorelle uguali e diverse.
Perché Elettra e Crisotemi si incontrino la prima volta, Sofocle escogita un espediente, traendolo da Eschilo: uno strano sogno avuto da Clitemnestra, per il quale la madre ha chiesto a Crisotemi di recarsi sulla tomba di Agamennone a portare offerte funebri.
Nella memoria drammaturgica, sia ovviamente dell’autore che del pubblico, la situazione è rovesciata rispetto all’Antigone. Lì si trattava dell’imposizione di non dare onori funebri a Polinice, qui invece di inauditi onori da tributare ad una tomba: inauditi perché vengono da parte di chi Agamennone ha assassinato, ossia Clitemnestra. In ambedue i casi, però, si tratta di una trasgressione alle leggi non scritte dell’onore da dare ai morti, anche se di segno antitetico.
Ed Elettra infatti chiede a Crisotemi di non farsi portatrice di quelle offerte empie ed offensive per il morto; al contrario Antigone chiede ad Ismene di aiutarla a seppellire Polinice. Il lessico di Crisotemi e di Elettra, come quello di Antigone ed Ismene nel prologo, è ricco di termini del campo semantico della guerra: un thumos ardente, come quello di un eroe epico, anima Elettra; e di converso Crisotemi ammette di non avere la ‘forza’ (stenos, v. 333) di combattere i potenti, che pure odia: ed è proprio a tale forza che Elettra si appella (v. 348): se anche ti manca la forza di vendicarti in prima persona, dice Elettra alla sorella, almeno siimi d’aiuto, invece che cercare di sviarmi dall’obiettivo. L’atteggiamento di Crisotemi sembra perciò ad Elettra senz’altro segno di ‘vigliaccheria’ (deilia, v. 351).
Come Antigone rispetto ad Ismene, Elettra vuole indurre Crisotemi a scegliere da che parte stare (v. 345), la accusa di aver dimenticato il padre in nome della ragionevolezza di chi vuol sopravvivere. La accusa soprattutto di non saper agire, o di agire solo a parole: mentre nell’ultimo confronto tra le sorelle nell’Antigone, Antigone afferma di non amare colei che «ama con le parole» (v. 542), Elettra invece rimprovera aspramente Crisotemi di «odiare solo a parole» (v. 357), poiché ‘nei fatti’ (ergoi: v. 358) «convive con gli assassini».
La sorellanza come antitesi tra una parte irrazionale, istintiva, contro il senso comune e contro la propria stessa vita, ed una parte invece ragionevole, che non vuole intraprendere battaglie impossibili, conscia dei propri limiti e tesa a preservare il proprio “particulare”, antitesi palese in Antigone ed Ismene, viene qui riproposta da Sofocle in maniera tale che la memoria del pubblico (non solo quella mitologica, ma anche drammaturgica) subito possa istituire un parallelo. Rispetto al personaggio di Ismene, però, quello di Crisotemi è approfondito e reso più cristallino nei suoi intenti ed anche nelle sue potenzialità.
La ragione pratica di Crisotemi ha nel primo incontro con Elettra uno scopo chiaro e concreto: avvertirla e salvarla dal pericolo che incombe su di lei. Solo per questo, dice alle donne del coro, si è prestata a parlare con lei di argomenti ormai vecchi e in un certo senso abusati.
Su Elettra incombe infatti una precisa minaccia: Egisto e Clitemnestra sono decisi a spedirla in un luogo dove non vedrà più la luce del sole, per continuare a cantare inni ai propri mali lontana dal palazzo reale. Insomma: sono decisi a seppellirla viva, come Creonte decreta sia fatto per Antigone. Crisotemi vuole salvarla da questo destino, ma Elettra è incrollabile: quel che per una sorella è saggezza, per l’altra è invece follia, ripetendo la stessa inconciliabilità che sussiste tra Antigone ed Ismene, o tra Antigone e Creonte.
Crisotemi invita all’assennatezza, con linguaggio inframmezzato da sen tenze generali: «sarebbe una bella vita, se tu sapessi esser saggia» (v. 394); «t’insegno a cedere ai potenti» (v. 397); «è bene non cadere in rovina per la propria stoltezza» (v. 399). Crisotemi assume insomma un atteggiamento didattico nei confronti della sorella (si noti la ripetizione del verbo didasko ai vv. 395 396), mentre Ismene non pretende di insegnare, ma solo di dar prova di buon senso. Rispetto ad Antigone, Elettra non perde l’atteggiamento affettuoso nei confronti di Crisotemi: continua a chiamarla ‘cara’ (phile, v. 431), le propone di buttar via le offerte offensive della madre, ma di depositare sulla tomba del padre una ciocca dei suoi capelli, insieme ad una di Crisotemi. Le chiede di invocare il padre che venga a soccorrerle entrambe, che torni Oreste vendicatore, prospetta, in un tempo migliore, sacrifici comuni e più ricchi per il morto. Chiude chiamandola ancora ‘sorella’, a ribadire il loro doloroso legame: «Intanto, sorella, rendi questo servizio a te, a me, alla persona che più ci è cara, il padre comune che giace nell’Ade» (vv. 461-463).
Il legame di sorellanza, nonostante lo scontro, ne vien fuori rinsaldato, il lutto comune ribadito, la comunanza di intenti e di sentimenti risalta anche agli occhi del coro, che commenta, rivolgendosi a Crisotemi: «La fanciulla ti parla in nome della pietà filiale, e tu, cara, se sei saggia, farai quello che chiede» (vv. 464-465).
Nonostante il permanere della contrapposizione, lì dove Antigone ed Ismene falliscono, Crisotemi ed Elettra, invece, riescono a trovare un punto d’accordo: «ora è il momento di riflettere per il meglio», dice Crisotemi alla sorella (v. 390), con una disposizione propositiva che ad Ismene, invece, manca, almeno all’inizio. Crisotemi ed Elettra soffrono alla stessa maniera, ed il loro contrasto si svolge inizialmente piuttosto sulla ricerca della via migliore per sopportare tale dolore. Il loro affetto resta immutato, se non si amplifica addirittura nel momento della difficoltà: non del tutto ingiustificatamente Hugo von Hofmannsthal lo tramuterà, da parte di Elettra, in un delirio omoerotico.
Quando il coro delle donne invita Crisotemi a dar retta ad Elettra, a gettare via le offerte di Clitemnestra invece di portarle alla tomba di Agamennone, e sacrificare piuttosto due loro ciocche di capelli, Crisotemi risponde senza esitare: «Lo farò: il discorso giusto non ha bisogno di essere conteso, anzi bisogna affrettare l’azione» (vv. 466467). Crisotemi sa di rischiare, e molto, eppure, chiedendo il silenzio al coro, accondiscende alla volontà di Elettra: «se lo verrà a sapere mia madre, credo che amara sarà un giorno per me quest’azione temeraria» (vv. 470-471).
Si può certo sottovalutare il gesto di Crisotemi, che pare impallidire rispetto alla mancanza di misura e all’ardire di Elettra nello sfidare continuamente i potenti. Ma la posta in gioco è ugualmente alta: Clitemnestra avrebbe potuto sapere della trasgressione di Crisotemi, e la sua malvagità trovare un obiettivo indifeso. Resta il fatto che Crisotemi, sebbene non sia Elettra, né voglia esserlo, sa anche rischiare.
Quando le due sorelle si incontrano di nuovo, dopo che il pedagogo ha annunciato falsamente che Oreste è morto, gettando nella disperazione Elettra, i ruoli delle due sorelle paiono rovesciarsi: è stavolta Elettra a definire Crisotemi folle, perché pensa di aver visto il segno che Oreste sia finalmente tornato, un ricciolo deposto sulla tomba ed altre offerte funebri. Nell’ironia tragica, Crisotemi ha visto, sia concretamente, sia metaforicamente, giusto; ha infatti ben interpretato i segni del ritorno di Oreste: chi altro avrebbe potuto fare quelle offerte? Non Elettra, a cui è impedito; certamente non Clitemnestra. Perciò «sa con certezza» (v. 881) che Oreste è tornato, lo ‘crede’ (v. 886) perché ne ha le prove. Elettra la accusa di essere invece ‘folle’ (anoias, v. 919) e aggiunge: «da tempo (palai) ho pietà di te» (v. 920).
L’avverbio temporale è significativo: l’atteggiamento di Crisotemi, la sua condiscendenza col potere, la sua paralisi, in attesa celata della vendetta, da tempo suscita l’amarezza di Elettra: non l’odio, però, ma la pietà. Per Elettra, Crisotemi non possiede un principio di realtà («non sai proprio in che terra vivi», v. 921), è in fondo un’ingenua che non sa nemmeno quel che davvero pensa («in quale pensiero sei trascinata», v. 921). Come se Crisotemi non fosse capace di grandi ragionamenti, Elettra è dura, suggella lo sconcerto della sorella («vuoi che non sappia quel che ho visto con i miei occhi?», chiede attonita Crisotemi, v. 923) con un’affermazione netta e crudele nella sua nudità: «È morto, sventurata, e con lui svanisce ogni speranza di salvezza. Non pensare più ad Oreste» (vv. 924-925).
Le due sorelle sono ora davvero sole, come Ismene ed Antigone. Ed è infatti in questo momento dell’azione che il carattere per così dire “antigonico” di Elettra più si rende evidente. Per Ismene e Crisotemi, invece, questa solitudine senza appello sembra un’ulteriore ragione per rassegnarsi e piegarsi ai potenti. Del resto, Clitemnestra, nella sua oscena preghiera ad Apollo, aveva comunque chiesto al dio di poter trascorrere una vita tranquilla, saldamente sul trono, «serenamente insieme alle persone care che mi sono vicine e ai miei figli, quelli che non hanno per me ostilità né amarezze né rancori» (vv. 649-654). La remissiva Crisotemi non è dunque esclusa daglib affetti più vicini a Clitemnestra, una specie di ‘madre-padrona’.
Per Antigone, e soprattutto per Elettra, dall’ esclusione e dalla solitudine nasce invece l’imperativo etico ad agire ad ogni costo. Un progetto che però Elettra sembra covare da tempo nell’animo, da sempre, si può dire, come da sempre prova compassione per l’atteggiamento rinunciatario di Crisotemi, alla quale «adesso» non ha più bisogno di «continuare a nascondere ancora» i suoi progetti (v. 957).
Elettra non rinuncia comunque a smontare i dubbi della sorella con la logica, quasi a volerle dimostrare la propria superiorità dal punto di vista intellettuale: se Oreste è morto, si lamenta Crisotemi, chi allora è stato l’autore di quelle offerte?
«Qualcuno che le ha deposte in sua memoria» – ribatte lucidamente Elettra (vv. 930-934). Ma il razionalismo di Elettra, approda, come quello di Edipo, non alla verità, ma alla menzogna.
Le parole di Elettra.
Ad essere accecata, infatti, è proprio Elettra: la quale si è lasciata travolgere dall’eloquenza del pedagogo, dal racconto dettagliato e appassionante della gara di cocchi in cui Oreste avrebbe trovato la morte. Mentre Crisotemi «ha visto» e «sa» (sul verbo eidon si insiste a più riprese), Elettra ha solo ascoltato: si è lasciata insomma manipolare dalle parole, come e quanto Clitemnestra è stata vittima di un inganno retorico e di un piano basato sull’astuzia, non sulla forza. Paradossalmente il progetto di vendetta del fratello tanto agognato ha trovato non solo nella madre invisa, ma anche nella sorella, la sua prima vittima.
Le parole, che Elettra usa a profusione, arma che lei stessa usa minacciosamente contro i potenti, adesso le si ritorcono contro: con le parole è possibile dimostrare anche l’irrealtà. Il gioco tra “vero” e “falso” si complica, il mondo di Elettra diventa, come quello di Edipo, l’universo dell’apparenza, nella definizione di Karl Reinhardt. Elettra si è fatta irretire, crede vero ciò che è falso: eppure coglie quest’occasione per dar sfogo finalmente alla sua rabbia repressa, per dare inizio a quell’azione vendicatrice il cui pensiero porta in sé da anni. Crisotemi sprofonda nell’immobilismo dovuto alla notizia luttuosa e inaspettata, come catturata da un prodigio (thauma, v. 928), sotto choc: e tuttavia non tanto da non dichiarare alla sorella che le chiede di darle retta, di liberarsi dal peso di quella situazione (v. 939), pronta a far qualcosa di utile (v. 944: opheleia). Sull’utilità si misura, per Crisotemi, come già per Ismene, la necessità dell’azione. Un pensiero certo mediocre rispetto alla dismisura eroica, ma non rispetto ai bisogni immediati dell’esistenza umana.
Elettra, non ha nemmeno riconosciuto nel pedagogo il salvatore di suo fratello, a cui pure lei stessa l’aveva affidato, non ha dunque saputo “vedere” e riconoscere i segni, anche perché da tempo è rinchiusa ormai nel cosmo illusorio del dolore assoluto, ed ora sembra accingersi a compiere il gesto liberatorio che da tempo sognava.
La morte del fratello, invece di precipitarla nel baratro, l’ha esaltata, ha acceso la scintilla per esprimere chiaramente la sua volontà di comportarsi da eroe: ed infatti con un lessico pieno di richiami eroici invita la sorella all’azione, a compiere la vendetta cruenta. Non giunge a chiederle di uccidere la madre, ma Egisto sì, il cui nome risuona con forza (v. 957): finché Egisto sarà vivo, infatti, per loro non ci sarà alcuna speranza, perché è lui a dissipare le loro ricchezze, è lui che non permetterà mai loro di sposarsi, perché non generino eredi di Agamennone. Desideri, questi, che potrebbero sembrare troppo normali per una tempra eroica e tendente all’assoluto com’è quella di Elettra: ma anche Antigone, al momento di morire, rimpiange le nozze. Una vita davvero “libera”, questa desidera Elettra, alla quale non vede alcuna alternativa se non la morte. In questo Elettra, come Antigone, può diventare modello dell’aspirazione alla libertà sotto ogni tirannia. È dunque Egisto, il tiranno, che bisogna eliminare, sia per rendere onore al padre ed al fratello, sia per conquistare quella ‘libertà’ (v. 970) che permetterà loro di riavere il posto dovuto (vv. 958-971).
Il valore eroico di questa vendetta, nell’idea che ne ha il personaggio Elettra, risulta evidente dalle espressioni che hanno tono e contenuto epico:
non vedi quale fama (eukleias) conseguirai, per te e per me, se presterai ascolto alle mie parole? Chi, fra i cittadini o gli stranieri, vedendoci, non ci accoglierà con tali elogi? Guardate, amici, que ste due sorelle, che riuscirono a salvare la casa paterna e, senza risparmiare la propria vita, si levarono, ministre di morte, contro i loro nemici, un tempo potenti. Tutti le devono amare e riverire; nelle feste religiose, nelle adunanze del popolo, è comune dovere onorarle per il loro coraggio. (vv. 973-983)
In questi versi di Elettra, esaltati, esagitati, c’è tutto il senso di quel che il rapporto di sorellanza, sia nella fissità del mito, sia nell’Atene del V sec. a.C., non era né poteva essere. Qui infatti Elettra applica alla coppia di sorelle (to kasigneto), usando un ambiguo duale, un coraggio e un’incidenza politica paragonabile a quella dei celebri tirannicidi, Armodio ed Aristogitone. Elettra prospetta per sé e per la sorella un’azione comune, una gloria (eukleian) civica immortale, il poter diventare “salvatrici” della patria: diventeranno due eroine, al punto da essere poi onorate con feste e riti pubblici, che coinvolgano tutto il popolo.
Ma Elettra delira, il suo piano non può che restare l’effetto di una mente esaltata. Per giunta questo manifesto antitirannico di Elettra si rivolge al regime istituito dalla loro stessa madre, il cui nome viene taciuto da Elettra, forse per censurare gli ovvi dilemmi etici posti dal matricidio. Nella tradizione, Oreste poteva uccidere la madre perché autorizzato dal dio Apollo a questa vendetta inaudita. Invece, senza avere il patrocinio divino, Elettra, ferita, disperata, pare solo una donna allucinata e vittima di un discorso falso, quello del pedagogo che ha riferito dell’atroce morte di Oreste mentre gareggiava nella corsa dei cocchi a Delfi.
La descrizione sin troppo accurata della corsa e dell’incidente occorso, una rhesis eccezionalmente lunga (vv. 680-763), l’unica del teatro greco superstite in cui un messaggero non riferisce la verità, serve a presentare Oreste in un’aura eroica ed anche specificamente epica, perché il passo riecheggia, nella situazione e nel lessico, la corsa dei cavalli del XXIII libro iliadico.
L’allusione omerica serve anche al contesto falsamente funebre: in Omero, la corsa apre i giochi solenni indetti da Achille in onore di Patroclo, l’amico insostituibile che è stato ucciso da Ettore. Così la falsa morte di Oreste rinvia non solo genericamente alla virtù agonistica aristocratica, che Pindaro aveva celebrato nelle sue odi, ma anche alla virtù eroica ed epica di chi ha combattuto a Troia. L’allusione potrebbe essere ancora più sottile: i giochi rinviano a funerali solenni, ma non di Oreste, come parrebbe sottintendere la luttuosa notizia: ai funerali imminenti di qualcun altro, di Egisto e Clitemnestra, dei sovrani.
Nel momento in cui crede Oreste morto, Elettra si addossa il dovere incoercibile di sostituirlo, e la sorella gli serve da supporto necessario per ipotizzare quell’azione duale, quella fratellanza, su cui si basano i modelli mitologici e storici maschili: Patroclo ed Achille, appunto, Armodio ed Aristogitone, ma anche Oreste e Pilade, quest’ultimo immancabilmente al fianco del primo, sebbene in Sofocle sia solo un personaggio muto.
Ed Elettra, nel suo delirio di porsi come salvatrice della patria e vendicatrice cruenta, ha bisogno anche lei di un doppio che la sorregga e l’accompagni: nella sua esaltazione propone questo ruolo a Crisotemi: «ora che [il fratello] non è più, solo a te guardo, che tu non esiti con me, tua sorella, (syn teide adelphei, v. 956) a uccidere chi di sua mano fu assassino di nostro padre, Egisto» (vv. 955-957).
Farsi giustizia come i maschi.
Il delirio di Elettra segue una climax, che culmina con l’attribuirsi le parole proprie dell’etica eroica, analoghe a quelle pronunciate da Aiace nell’omonima tragedia (Aiace, vv. 479- 480), che si appellano cioè ad una “nobiltà” che si mostra in campo di battaglia, quella stessa “nobiltà”, propria del ghenos, a cui anche Antigone cerca di richiamare Ismene (Antigone, vv. 37-38: «Così stanno le cose per te, e presto dimostrerai se sei nobile d’animo, oppure vile, pur essendo di nobile stirpe»).
«Cara, persuaditi – dice Elettra a Crisotemi – aiuta il padre, soccorri tuo fratello, libera me e te stessa dalle sventure, nella consapevolezza che per le persone di nobile nascita è viltà vivere vergognosamente» (vv. 986-898). Il delirio di Elettra, che non rinuncia però a rinsaldare, con il vocativo phile, il suo legame sororale, raggiunge un apice che non trova riscontro nella figura di Antigone: quest’ultima esplicitamente non si attribuisce alcuna virtù eroica o bellica; è piuttosto Creonte ad intuire ed affermare che si comporta «da maschio» (vv. 484-485). Elettra, dopo che ha saputo della falsa morte di Oreste, si crede alla pari di un maschio, e Crisotemi glielo ricorda subito con fermezza e realismo: «Sei nata donna e non uomo, e il tuo braccio è meno forte di quello dei nemici» (vv. 997-998). Elettra, la figlia del padre, per paradosso si svelerebbe adesso piuttosto figlia della madre: perché è Clitemnestra che con il suo gesto omicida, giustificato o no dalla vendetta, ha dato prova di essere una donna «dai pensieri da maschio», come dice Eschilo (Agamennone, v.11). Drammaturgicamente, la follia ardimentosa di Elettra è ancora più efficace perché non solo di una donna si tratta, ma persino di una ragazzina, alla cui età, come aveva detto Clitemnestra, non si addiceva nemmeno coprire d’insulti la madre (vv. 612-614), figuriamoci prendere in mano la spada vendicatrice.
Elettra, e non Crisotemi, pare più conforme alla physis, alla ‘natura’ della madre, ed in un certo senso, anche se ironicamente, lo aveva persino confessato alla stessa Clitemnestra: «Dillo a tutti, se ti fa piacere, che sono cattiva, sfrontata, insolente. Se so comportarmi così, forse faccio onore alla tua stessa natura» (vv. 605-609). Elettra, dunque, non ha nulla di materno, come pure è stato detto in considerazione del suo rap- porto privilegiato con Oreste. Il suo dramma consiste anzi nel dover rifiutare Clitemnestra, e quindi la parola stessa ed il concetto di “madre”.
Il dolore spinge Elettra a credersi capace di gesti maschili, la fede nella vendetta la induce a credere di poter sostituire il fratello. Elettra rappresenta anche la memoria di Oreste: il quale, tenuto lontano, non ha vissuto ed esperito quel che è accaduto nella reggia dopo l’eccidio del Re. Mentre Elettra ha dovuto sopportare e sopporta, giorno dopo giorno, Egisto che sta sul trono del padre, che ne indossa le vesti, che compie libagioni nella casa dove Agamennone è stato ucciso (vv. 266-270), Oreste guarda da lontano la reggia e la città, a lui invero estranea, portatore del compito di vendicatore «di sua propria mano» (v. 38) che gli ha affidato Apollo. Anche quando, nella scena del riconoscimento, Elettra vorrebbe raccontargli quel che ha patito, Oreste taglia corto: «Tralascia le parole superflue, non mi dire quanto è malvagia nostra madre, né come Egisto dà fondo ai beni della casa paterna, dissipandoli e seminandoli al ven- to: questi discorsi potrebbero precluderci l’occasione propizia» (vv. 1288-1291). Ma Oreste non è un “doppio” di Elettra, anche se quest’ultima pare illudersi che sia così: non agisce, infatti, in maniera propriamente eroica; il suo è un piano basato sull’inganno, sulla manipolazione retorica, sulla macchinazione.
Molto simile all’Odisseo del Filottete, Oreste fa più conto sull’astuzia, che non sulla forza. Inoltre non certo ad Oreste compete l’azione istintiva ed autolesionista di Elettra: ha aspettato anni prima di intervenire, mandando messaggi interlocutori alla so- rella, ha atteso con pazienza il momento adatto a intervenire. Non a caso il coro aveva messo sullo stesso piano la sua vita dopo l’assassinio del padre con quella delle sorelle più moderate, Crisotemi e Ifianassa, e aveva invitato Elettra ad ispirarsi a loro (vv. 153-163).
Per Elettra è “saggio” cercare la vendetta, vivere in funzione di quest’ultima, e di conseguenza preferire una “bella morte” invece che una vita nell’oscurità. Come per l’eroe epico, la vita di Elettra ha senso nell’azione che tramanda la gloria dei padri. Nella sua marginalità, Elettra si sente erede del ‘migliore’ (aristos, v. 366) dei padri, come se fosse un figlio maschio; orgoglio- sa come Filottete o come Edipo esule a Colono, si rifugia nel ricordo di un passato di grandezza che vorrebbe rinnovare nel presente. Suscita però ammirazione, ma anche, necessariamente, sgomento.
Crisotemi, invece, è figura di saggezza pratica. La sua libertà si esercita nella casa, costi pure la convivenza con un usurpatore, sia del regno, sia del letto del padre; il suo raggio d’azione si basa sull’ascolto delle voci del potere, per prevenirne le conseguenze peggiori; la sua arma è la pazienza, la sopportazione, l’azione commisurata alla debolezza propria delle donne; il suo coraggio non può risiedere nello scontro frontale, armato, che esige forza fisica, ma nel trasgredire gli ordini dissimulando e tacendo.
La gloria eroica (kleos), la fama estesa, non può rientrare nei suoi obiettivi: il suo potere è nell’accettazione dei fatti, nel cambiamento minimo, nel calcolo razionale e nell’equilibrio silenzioso. Eppure il comportamento di Crisotemi risulta più efficace politicamente: gioisce quando sa, per aver visto di persona, segni che la inducono a gioire; non ha nessuna parte nella vendetta, perché non può averne, non parla quando l’occasione non lo consente. Elettra la accusa di odiare solo a parole; ma l’odio di Crisotemi è comunque assai profondo, e quando sente che è giusto agire, Crisotemi agisce – come del resto Ismene fa, autoaccusandosi. Rispetto ad Ismene, però, l’agire di Crisotemi è maggiormente connotato da ‘utilità’ (opheleia). L’azione di Elettra, invece, resta limitata, anche nel momento dell’eccidio vendicatore, solo alle parole: parole di cui la protagonista di Sofocle è esperta, poiché domina con le parole la scena sin dall’inizio, vince l’agone retorico con Crisotemi la prima volta, poi con la madre Clitemnestra ed è persino rimproverata dal fratello Oreste di parlare troppo nel momento meno opportuno.
Cerchiamo dunque di far uscire Crisotemi dall’ombra e dal ruolo di sorella opaca. Se Sofocle non l’avesse sentita come essenziale alla costruzione dell’intreccio drammatico, e del personaggio Elettra in particolare, non l’avrebbe tirata in causa. Crisotemi non è, a rigore, figura meno ai margini di Elettra, sebbene non si lamenti apertamente e con alte grida, non minacci i nuovi potenti.
Tuttavia non è né madre né sposa, e sa che non potrà mai esserlo, nello stato delle cose; si muove dunque nel limbo della sua condizione verginale, e non avendo una famiglia sua, cosa che non le sarebbe stata permessa per non correre il pericolo di generare un nipote di Agamennone, si accontenta di quella in cui da nubile ancora deve vivere, senza però sbandierare il proprio dolore.
Naturalmente non si deve commettere l’errore di applicare ai Greci antichi categorie di pensiero a loro estranee: tuttavia non è forse un abuso dire che Crisotemi esercita una resistenza passiva, meno coraggiosa e loquace rispetto a quella di Elettra, ma più utile: perché così può muoversi da anni nella reggia e spiare i potenti, prevenendone, se possibile, le mosse. Infatti la sua prima preoccupazione è avvisare la sorella della decisione dei regnanti di seppellirla viva, per salvarla. Un tale attivismo non caratterizzava la molto più antica Ismene. Come Elettra, Crisotemi odia la madre, l’assassina del padre (v. 408): l’ inaudito crimine di Clitemnestra, ha definitivamente cambiato il rapporto che lega ambedue le sorelle alla madre, una «madre che non è madre», dice il coro (v. 1154). Ma Crisotemi ha anche paura, e a ragione, della madre regina e padrona, che ha mostrato di quale violenza è capace, e che tiene con saldezza le redini del potere e il governo della casa.
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