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Il nove maggio ha debuttato a Siracusa per la Stagione INDA 2025 l’Elettra di Sofocle, con la regia di Roberto Andò e Sonia Bergamasco nel ruolo di Elettra. La tragedia sarà anche al teatro piccolo di Epidauro per il Festival di Atene ed Epidauro, con la regia di Dimitri Tarlow.  Qui e nei due articoli di seguito le nostre riflessioni sulla tragedia di Sofocle. 

Michael Cacoyannis, Elektra, 1962

Il dolore di Elettra è il nucleo tematico della tragedia di Sofocle ed anche l’oggetto della sua innovazione rispetto alle linee portanti del mito. La figura di Elettra si staglia sin dall’inizio sulla scena in statuaria solitudine, ed alza il suo lamento, che invero continua dalla notte appena trascorsa: Elettra chiama le Erinni a vendetta del padre e prega che ritorni il fratello a compiere vendetta. Il peso del dolore le è ormai insopportabile. Entra il coro e dialoga con lei, rimproverandole il persistere da lungo tempo in un pianto insaziabile per il padre morto: il suo lutto è senza misura, dice il coro, il suo desiderio di soffri re insensato, poiché certo non riporterà alla vita Agamennone. Ma Elettra rifiuta la consolazione del coro, che è costituito da donne, sinché queste desistono dai loro tentativi e le promettono che la seguiranno in quel che farà.

Diversamente dal coro dell’Antigone, in questa più tarda tragedia il coro sembra più simpatetico con la protagonista, e contribuisce ad elevare Elettra ad una dimensione eroica. Elettra vive in condizioni miserevoli, invisa ai sovrani che continua a maledire, specie dalla madre che le rinfaccia un amore indebito verso Agamennone, nella condizione di vergine, dunque senza aver acquisito il ruolo di sposa e madre che le darebbe un posto riconosciuto nella società.

Invece come una straniera, vestita di stracci, fa da serva nella casa del padre, maledicendo gli assassini di Agamennone, in attesa del ritorno di Oreste, che però rimprovera di esser troppo tardo, perché manda da anni messaggi che sta per tornare, ma «non si degna mai di apparire» (vv. 171-172). Mentre Elettra confida al coro, costituito dalle donne della città, i propri dolori e le proprie speranze, Crisotemi esce dalla reggia portando offerte rituali e incontra la sorella. Diversamente che nel dialogo tra Antigone ed Ismene che apre l’Antigone, nell’Elettra il coro è dunque già in scena quando le due sorelle parlano tra loro, e funge quindi da testimone del confronto tra le due ragazze. Inoltre la corifea interviene con un ruolo da mediatrice: «in nome degli dei, non cedete all’ira! C’è del vantaggio in ambedue i vostri discorsi, se tu imparassi a trarre vantaggio dalle sue e lei dalle tue» (vv. 369-371). Nel gesto teatrale, si consideri, le due sorelle possono essere indicate dalla corifea indifferentemente prima l’una e poi l’altra: la loro parità è dunque patente.

In ambedue le tragedie di Sofocle, l’Antigone e l’Elettra, l’azione comincia all’alba.

Si tratta di un’alba anche simbolica, perché il nuovo giorno coincide con l’inizio di un cambiamento radicale. Crisotemi, come Ismene, esce fuori dalla reggia, la casa come luogo proprio del femminile e dove lei continua a vivere secondo il ruolo che le è imposto. Elettra, come Antigone, sta invece già al di fuori, almeno temporaneamente, da quello spazio, a sottolineare l’anomalia e la provocatorietà del porsi fuori dall’oikos, e dunque dal controllo da parte di chi è al potere: Elettra infatti può alzare i suoi lamenti e le sue maledizioni perché Egisto, che in tutto ha sostituito il padre, non è in casa.

Un temporaneo vuoto di potere, perciò, costituisce la condizione dello sviluppo della vicenda drammatica sia nell’Antigone, che inizia quando Creonte non si è ancora presentato alla città come nuovo Re, che nell’Elettra, che inizia nell’assenza del Re. Proprio questa circostanza, per la quale Clitemnestra, sola nella reggia, non ha una scorta di uomini che la difendano, pare sollecitare finalmente l’azione di Oreste. Antigone chiama fuori la sorella, per chiederne la complicità nel proposito di seppellire Polinice, nonostante il divieto regale: nell’Elettra, invece, Crisotemi è indotta ad uscire fuori dalla reggia dagli ordini della madre. Tuttavia, nel varcare la soglia, si rivolge subito alla sorella perché ne ha sentito le «urla»: quindi sapeva che – uscendo – avrebbe incontrato Elettra e si sarebbe confrontata con lei: «Che sono ancora queste grida che fai risuonare sulla soglia dell’atrio, sorella?» (vv. 228-229).

 Mentre Antigone si appella ad Ismene con il termine autadelphon (v. 1), che contiene non solo un elemento rafforzativo della stessa origine (autos) ma anche un indiretto accenno alla presenza maschile nella loro familiarità (adelphon è il termine per ‘fratello’), Crisotemi si rivolge ad Elettra con un più specifico ed enfatico o kasignete («oh sorella!», v. 329). Le due coppie di sorelle hanno in comune un tremendo e antico dolore.

Antigone chiede retoricamente ad Ismene quale delle sventure ancora pensa che sia preparata a loro da Zeus, mentre sono ancora vive (eti zosain, v. 3); Crisotemi sottolinea con forza la sofferenza condivisa («anch’io soffro», vv. 332-333), per la loro condizione (epi tois parousin: «per lo stato in cui siamo», v. 332): un dolore, dunque, dalle radici antiche, ma che invade e permea il presente. Sia nelle parole di Antigone che in quelle di Crisotemi, poi, compare solo in forma allusiva la presenza di chi è causa dei mali presenti: “lo stratega” – ossia Creonte – dice Antigone, che ha emanato un nuovo bando; “quelli”, “loro”, ossia Clitemnestra ed Egisto, dice Crisotemi.

Antigone però porta una novità ad Ismene, l’editto di Creonte che ha appena sentito sul campo stesso di battaglia, e di cui Ismene si dichiara ignara. Crisotemi, invece, sottolinea che quella situazione dura ormai da molto tempo (v. 330: en chronoi machroi), troppo perché Elettra continui a ‘godere’ vanamente nel suo ‘folle coraggio’ (thumoi mataioi, v. 331). Crisotemi, con le sue domande iniziali alla sorella, esprime indirettamente un giudizio su di lei: il suo dolore è vano, inutile (kenà, v. 331), e sembra persino procurarle gioia (charizesthai, v. 332).

Nell’Elettra, dunque, la vicenda non prende le mosse da un fatto nuovo come nell’Antigone, dove la guerra è appena finita e l’editto non è ancora pubblico. Nell’Elettra si mette invece in scena una situazione che ha origini remote: perciò Elettra è, più di Antigone, figura del lutto che si protrae nel tempo, che anzi l’ha proiettata in un ‘sempre’ di dolore continuo dal lontano giorno in cui il padre è stato ucciso.

«In quel giorno maledetto» (v. 201) anche la vita di Elettra si è fermata: la liminarità tra vita e morte, che costituisce un tratto essenziale della figura di Antigone, è esasperata e resa continuativa in Elettra.

A questo vivere al limite con la morte, a questo godere infinito del lutto, Crisotemi oppone la forza d’animo di chi si è piegato: in cuor suo, anche Crisotemi vorrebbe rovesciare il nuovo potere. Ma con saggezza pratica sa di non esser in grado di far nulla, e perciò si adatta a navigare «con le vele ammainate in mezzo alla tempesta di mali» (vv. 335-337) ed altrettanto vorrebbe dalla sorella. Ma anche Crisotemi è in attesa del ritorno del fratello, non ha perso speranza che la propria situazione cambi. Solo per questo accetta l’interpretazione positiva che Elettra dà del sogno avuto dalla madre: sì, Oreste sta per tornare. Ed infatti quando sulla tomba di Agamennone Crisotemi trova la celebre ciocca di capelli e le offerte funebri, che solo Oreste potrebbe aver deposto, gioisce sinceramente ed esprime tutta la sua felicità alla sorella.

 (segue qui)