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(segue da qui)

Antigone ed Ismene da una parte, Elettra e Crisotemi dall’altra, servono a Sofocle per la messa in scena della differente reazione al sovvertimento delle strutture, politiche e familiari, che è al centro dei due cicli mitologici:

alla confusione incestuosa della famiglia di Edipo, Antigone reagisce con il recupero di un legame familiare, pensato come indissolubile, che è quello di sorellanza con Polinice, con la non insignificante complicazione che tale sorellanza sia stata generata da un orrendo legame tra madre e figlio, Edipo -  un figlio che, seppure inconsapevolmente, si è macchiato di parricidio. Ismene ridimensiona l’importanza di quel legame chiedendo «perdono» a coloro che sono morti (Antigone, v. 66), non lanciandosi in imprese impossibili, senza dimenticare tutti i mali della stirpe e da ultimo i fratelli che si sono reciprocamente uccisi (Antigone, vv. 66-67).

Alla violenza che segna la vicenda di Agamennone, Elettra reagisce con il recupero del nodo infrangibile con la paternità, con un padre che pure è stato totalmente assente, che si è reso assassino di una sorella, che è tornato imponendo la presenza di una concubina, ma nel cui ricordo Elettra vive in un rimpianto insaziabile, eterno. In un caso e nell’altro, Antigone ed Elettra rappresentano simbolicamente due forze della conservazione, della difesa ad oltranza del passato, del culto vero e proprio del ricordo: un ricordo che è però sfrondato di elementi imbarazzanti, e che si pone piuttosto come affermazione del diritto di una stirpe patrilineare.

Se il nuovo potere, sia nel caso di Creonte, sia soprattutto nel caso di Egisto e Clitemnestra, vuole far piazza pulita del passato, negarne persino le radici violente, con un intento anche propagandistico, nondimeno Antigone ed Elettra ricordano il passato per ribadirne la legittimità e, nel caso di Elettra, per restaurarlo.

La figura ed il ruolo della madre, in questa visione che ideologicamente si connota come difesa di sacri legami familiari con i fratelli ed i padri, appare perciònegativa e decisamente per- dente, sia nel caso di Giocasta, per la colpa orrenda ma inconsapevole (ma non senza che resti un dubbio profondo sulla sua responsabilità) che la porta al suicidio; sia, più ovviamente, nel caso di Clitemnestra, figura in Sofocle totalmente negativa, che pretende di instaurare un nuovo ordine e fondare una nuova dinastia, e finisce uccisa dal proprio figlio tornato a restaurare quell’ordine che Elettra strenuamente auspica.

Antigone ed Elettra rappresentano due forze comunque spaventevoli per la comunità, perché tendono, nel loro attaccamento tenace al passato, a tornare indietro, e non provano ad elaborare un progetto di superamento del passato, anzi idealizzano quel passato, privandolo dei caratteri violenti e sanguinosi, proprio come, per avversi motivi, vorrebbero fare i nuovi poteri. A queste forze irrazionali ed istintuali, Sofocle vuole e sa contrapporre figure positive del ragionamento e della temperanza: Ismene ed Emone nell’Antigone, Crisotemi nell’Elettra.

Tuttavia le forze irrazionali esplicano tutte le loro potenzialità: nel caso della vicenda tebana, Antigone riesce a farsi strumento del fallimento del nuovo ordine, che è nato per così dire nel segno della madre, poiché Creonte è il fratello di Giocasta. Ma nella catastrofe Antigone trascina l’aspirazione al nuovo, impersonata da Emone, l’innocenza di Euridice, madre spezzata, ed anche la più fragile Ismene. Sofocle certo non è dalla parte del nuovo ordine: questo, sia nel caso di Creonte che soprattutto in quello di Egisto e Clitemnestra, svela subito apertamente la sua natura tirannica ed autoritaria. Ma terribile appare anche la logica del ghenos, basata sulla trasmissione ereditaria di privilegi, sulla chiusura al confronto, sulla catena di omicidi, sull’incesto.

È possibile un’alternativa? È un’alternativa quella basata sulla resistenza muta ma dolente, sull’apparente condiscendenza di Ismene da una parte e di Crisotemi dall’altra, che può invece nascondere l’attesa del riscatto, l’avvento di un cambiamento reale e che perciò si ritrae davanti all’azione avventata e autolesionista?

Sofocle lascia la questione aperta, lascia aperto il conflitto. Per questo, nonostante gli indubbi tratti di complicità, amore, philia, le due coppie di sorelle non giungono ad un’azione condivisa, non si alleano tra loro, non tentano nemmeno di dare al loro legame un carattere di comune resistenza. Le due coppie di sorelle esprimono due visioni non conciliabili di intendere l’essere donne, l’essere esponenti di una famiglia nobile e decaduta, di porsi di fronte al nuovo e di fronte alla comunità. Solo Emone, nell’Antigone, propone concretamente al padre un governo di giovane generazione che sappia farsi mediatore tra le prerogative della tradizione e segni l’inizio di un’epoca nuova, di una possibile convivenza pacifica e latamente democratica. Ma la sua proposta si scontra con un muro di incomprensione e con l’ostinazione della propaganda e della forza: e perciò Emone diventa la prima vera vittima dell’autocrazia di Creonte.

 

Le sorelle opache

Il distacco definitivo tra le sorelle rappresenta una cesura nell’azione sia dell’Antigone che dell’Elettra. Ismene e Crisotemi, dopo la rottura definitiva con l’altra sorella, scompaiono, lasciando un dubbio narrativo. Le ultime parole di Crisotemi («se sei convinta di avere un po’ di senno, continua a ragio- nare così. Quando poi ti troverai nella sventura, apprezzerai le mie parole»,Elettra, vv. 1055-1057) fanno in parte eco alla conclusione del prologo dell’Antigone («Se così ti sembra bene, allora va’. E sii consapevole di essere priva di senno, ma veramente cara ai tuoi cari», vv. 98-99). Né Antigone né l’incrollabile Elettra cederanno agli avvertimenti delle sorelle, né si ricorderanno di lei. Eppure Crisotemi insinua dei dubbi sostanziali sull’agire di Elettra, più di quanto Ismene faccia a proposito di Antigone.

Chi è capace – le chiede quando Elettra le propone di esserle compagna nella vendetta – di colpire un nemico tanto potente e uscirne senza danno? Noi stiamo male, ma bada che non ci troviamo a stare molto peggio, se qualcuno ascolta i tuoi discorsi. Nessun vantaggio e nessun confronto arreca una buona fama quando si deve subire la morte, e una morte infamante. Il peggio non è morire ma dover desiderare la morte e non riuscire ad ottenerla.  (Elettra, vv. 1005-1008).

Soprattutto l’ultimo argomento, tanto scomodo da essere considerato un’interpolazione, apre una prospettiva che non è stata esplorata: è vero che l’impossibilità dell’azione non costituisce, né per Elettra, né per Antigone, una ragione sufficiente per non agire, ma anzi rafforza l’intima convinzione che bisogna farlo, perché l’alternativa sarebbe vivere una vita vergognosa. Elettra e Antigone non tengono in alcun conto la morte. Ma qui Elettra usa un argomento che sinistramente tornerà nelle parole degli aguzzini nazisti: c’è qualcosa di peggio della morte, ed è desiderarla e non ottenerla. Crisotemi potrebbe alludere alla minaccia che incombeva su Elettra, di essere sepolta viva: ed è la condizione nella quale Creonte pone Antigone, e che corrisponde alla sua natura tirannica: «non vi basterà la sola morte», minaccia Creonte le guardie (Antigone, v. 308).

Non c’è solo la manifestazione della paura di Crisotemi (e perché non dovrebbe aver paura?), non solo la sua medietà morale tesa a lumeggiare la grandiosità di Elettra, ma anche la constatazione che l’atto di resistenza impossibile è inutile e può scatenare una violenza peggiore della morte. Una constatazione che forse, dopo la spedizione in Sicilia e comunque nel pieno della guerra del Peloponneso, doveva risuonare di echi terribili, e non da sentenza convenzionale. Il tono di Crisotemi certo suona didascalico, nella sticomitia con la sorella vi sono insistenti espressioni di maniera che invitano alla prudenza, ma vi è anche una sincera dichiarazione di affetto e partecipazione (promethias sou, v. 1036), ed uno scetticismo nel futuro che induce a riflettere.

Le ultime parole in scena di Crisotemi non sembrano stanche o scontate, non assistiamo ad un banale litigio, come è stato scritto, ma il dubbio sul futuro, se anche si rivelerà poi infondato (come gli spettatori del resto già sapevano), e la vendetta sarà compiuta, non perde di sinistre sfumature: sì, Elettra avrà, tramite Oreste, la sua vendetta e la vendetta della stirpe. Ma sarà questa la vera libertà?

La tragedia non risponde a questo interrogativo, e il folle dolore di Elettra resta indelebile, così come pure quello di Crisotemi – che scompare eloquentemente dalla tragedia di Sofocle, come già Ismene, e poi persino dal ricordo letterario. È però lecito, credo, interrogarsi su quel che nello spazio dell’azione scenica accade al personaggio: Crisotemi rientra nella reggia, ed Elettra dichiara esplicitamente che «non la seguirà», neppure se lei ne avesse un «desiderio ardente», «perché andare a caccia di cose vuote è una grande mancanza di senno» (vv. 1052-1054): cose vuote, vane (kenà) sono state le speranze di Elettra di portare dalla sua parte la sorella, eppure l’aggettivo ‘vuoto’ risuona forte a suggellare l’addio di Elettra a Crisotemi. L’espressione gnomica è rivolta anche a se stessa, ché lei sta dando la caccia a qualcosa che poi nei fatti non si realizzerà (non sarà comunque lei a vendicarsi di Egisto).

Elettra resta volontariamente fuori del palazzo, a sancire simbolicamente la sua non-appartenenza a quell’oikos e alle sue leggi. Ma in quel palazzo, tra poco, sarà compiuto il matricidio; e Crisotemi sarà lì, testimone dell’ineffabile, più vicina di Elettra alla madre fatta a pezzi dal proprio figlio. Elettra urlerà al fratello: «colpisci una seconda volta!» (v. 1415), ma sarà fuori a far da guardia. Crisotemi, dobbiamo immaginare, starà a guardare.

 

Figlie dei padri, figlie delle madri

Antigone, che non è in attesa di alcun salvatore, può culminare solo con la propria morte volontaria la sua scelta ad oltranza a favore del fratello morto. L’apoteosi di Elettra, la sua trasformazione come erede a tutti gli effetti del padre, si ha invece attraverso l’eccidio, compiuto però dal fratello. In un caso e nell’altro, la tendenza di un personaggio femminile ad agire da maschio resta allo stato embrionale, ed è dunque soffocata dall’esito drammaturgico. La figura di Elettra potrebbe persino essere vista come un suggerimento d’autore dell’interpretazione da dare, tanti anni dopo, al personaggio di Antigone. Elettra agisce come Antigone, se si fosse trovata nella stessa situazione, avrebbe agito. Nell’Elettra, l’esplosione del carattere maschile della figura che dà il nome alla tragedia avviene per gradi.

Anche per la tradizione precedente, specie secondo quel che leggiamo nelle Coefore di Eschilo, Elettra continua a vivere nel tempo immobile del padre morto, con il quale continua a rinsaldare il suo legame, dopo aver ripudiato la madre. Eppure questo legame col padre sembra alla Clitemnestra di Sofocle solo un «unico, eterno pretesto» (proschema, v. 525) e l’appropriarsi di un ruolo che non si addice ad una figlia femmina. Oreste solo è, infatti, il «figlio di Agamennone, che a Troia fu un tempo signore d’eserciti», e così è enfaticamente presentato proprio all’inizio della tragedia (vv. 1-2). Di converso, dopo che Elettra è apparsa in scena, il coro le si avvicina chiamandola: «figlia, o figlia di scelleratissima madre…» (vv. 121-122). Clitemnestra da parte sua ridimensiona la figlia, che si permette di inveire e contestare il governo della madre solo perché è assente il maschio di famiglia ed il sovrano, Egisto; e la stessa Clitemnestra non minaccia direttamente la figlia, ma le assicura, umiliandola: «in nome di Artemide signora, al ritorno di Egisto sconterai la tua insolenza!» (vv. 622-623).

Tuttavia Elettra si sente e vuole essere l’erede di Agamennone, e coerentemente rimbrotta la sorella: «Tu, che potresti essere chiamata figlia del più grande dei padri, fatti chiamare figlia di tua madre: così apparirai ignobile ai più, poiché hai tradito il padre morto e i tuoi cari» (vv. 365-368).

In queste parole di Elettra, Crisotemi assomiglia ad Ismene che aveva implorato i morti di perdonarla, ma aveva scelto di obbedire al potere e non di aiutare la sorella. Antigone vuole seppellire il fratello morto; vuole compiere dunque un gesto proibito dal nuovo re, eppure consuetudinario e del tutto conforme ai doveri familiari. La scelta di Ismene di non aiutare Antigone, dunque, si connota come una scelta etica, non politica. Elettra, invece, che vive in attesa del fratello, parla il linguaggio della vendetta e dell’assassinio e vuole rovesciare il potere: perciò il dissidio con Crisotemi si consuma anche sul piano politico e sull’importanza politica da attribuire all’ascendenza familiare.

La scelta di Crisotemi, infatti, si connota per Elettra tra il voler essere chiamata “figlia del padre” e il voler “essere chiamata figlia della madre”: una scelta impossibile, perché ambedue, come dice il coro ad Elettra (e drammaturgicamente al pubblico) sono nate «dallo stesso padre e dalla stessa madre…» (vv. 325-326). Elettra accusa insomma Crisotemi di farsi interprete di un solo legame familiare, quello materno, avendo del tutto dimenticato l’esistenza del padre: «È inquietante che tu, pur essendo figlia del padre che ti ha generato, lo abbia dimenticato, e abbia cura di colei che ti ha partorito» (vv. 341-342). Si tratta di un’accusa ingiusta: Crisotemi non ha affatto dimenticato il padre, ma non crede che il suo ricordo, in vista della vendetta, sia una soluzione ai mali del presente.

Elettra vuole dire: hai dimenticato politicamente il padre, hai dimenticato, cioè, che il regno è nostro e non di Egisto e Clitemnestra e della loro dinastia. Il linguaggio di Elettra non è banale: alla madre si riconduce il parto, ma l’atto vero e proprio del generare, espresso dal verbo phyo, verbo radicale di physis, ‘natura’, è dovuto al padre. La madre ha perciò un’influenza indebita ma determinate su Crisotemi, anzi l’ha infarcita di insegnamenti (didakta, v. 344): «Tutti i pensieri che mi hai detto ti sono stati insegnati da lei», dice Elettra (v. 345). Ripudiando il padre a cui deve la propria “natura”, Crisotemi ha – secondo Elettra – scelto di diventare quel che l’hanno educata ad essere, ed in particolare quel che la madre l’ha educata ad essere, perché la madre è anche la regina: si è cioè piegata al nuovo potere.

Essere “figlio del padre”, infatti, è normale e doveroso per un’etica palesemente aristocratica, che trova espressione nell’epica, ma che è destinata ai maschi. Per l’eroe epico è legge suprema non venire mai meno al kleos, alla gloria, dei padri, e dimostrare che la propria aristia non è inferiore a quella di chi l’ha preceduto nella stirpe. Nell’Oreste di Euripide, in cui una tale mentalità epica viene smascherata come fallace e quasi parodiata, è proprio Oreste a riprendere il motivo in sua difesa:

Mio padre mi ha generato, mentre tua figlia [Clitemnestra] mi ha solo partorito: come un campo ha preso il seme da un altro. Senza un padre non potrebbe mai nascere un figlio. Ho conside- rato dunque che fosse meglio venire in soccorso del fondatore della stirpe piuttosto che di colei che ha solo affrontato la fatica di allevare la prole. (vv. 552-556).

Oreste parla in questi termini addirittura al padre di Clitemnestra, Tindareo, che però demanda alla città la punizione dell’assassino. Nelle Eumenidi di Eschilo questo argomento era appropriatamente usato da un dio, Apollo, che perorava la causa di Oreste, ma si riferiva alla generazione di Atena da parte dal solo Zeus. Far proprio quest’argomento da parte di Oreste è un abuso, e così sembrava al pubblico di Euripide. Tanto più è un abuso far proprio quest’argomento da parte di una donna, come fa l’Elettra di Sofocle.

 

La mente inferiore delle donne

Elettra insomma, in Sofocle assume su di sé caratteristiche maschili e si conforma a valori eroici: in base a questi può definire Agamennone epicamente «il migliore di tutti i padri» (patros/ panton aristou, v. 366); solo in un contesto eroico, in cui Elettra si sente a suo agio, venir meno al kleos del padre, come a suo parere fa Crisotemi, equivale a vigliaccheria (kaké, v. 367) e tradimento (prodousa, v. 368); solo in un contesto bellico i philoi, gli ‘amici’, non sono solo coloro a cui si è legati per familiarità o sentimenti, ma anche gli alleati.

Insomma Elettra, in assenza di Oreste, orgogliosamente si arroga caratteristiche ed aspirazioni maschili, credendo di compiacere la «maggior parte» degli uomini (pleistois, v. 367), coloro che dunque sottovalutano il ruolo familiare e sociale della madre, o non lo tengono affatto in conto. Crisotemi, invece, agisce come la stessa mentalità patriarcale esige da una donna, con senso pratico che escogita i mezzi di sopravvivenza, tiene alla sua salvezza e non si cura di un kleos, di una fama, di una gloria che si smaschera come vanagloria, che trova la sua risonanza fuori dalle mura della casa, dove l’esistere della donna non ha luogo.

Eppure la pretesa spasmodica di Elettra di farsi erede di valori maschili si rivela una folle illusione: non solo, come si è detto, Oreste non comprende nel suo accurato piano di vendetta la complicità di Elettra; non solo, al momento del matricidio, Elettra vi parteciperà solo indirettamente, commentando dall’esterno della reggia e da lì incitando il fratello a colpire ancora e ancora la madre; non solo quest’Oreste è incapace di ricambiare l’amore e la tenerezza della sorella; ma Elettra si è già mostrata incapace di agire come un uomo, ha già svelato i limiti ineludibili dell’essere donna.

Ed infatti a lei che delirando, dopo aver appreso della falsa morte di Oreste, afferma che «da sola» e «con la sua stessa mano» compirà la vendetta, Crisotemi ricorda, non senza sarcasmo: «Ahimè, se tu fossi stata così ferma nella tua decisione quando il padre moriva! Tutto ormai avresti compiuto» (vv. 1021-1023). Elettra risponde: «Non era diversa la mia natura, ma la mente era inferiore», e Crisotemi ribatte: «Cerca di restare per sempre con la predisposizione d’animo che avevi allora» (vv. 1023-1024).

‘Avere la mente inferiore’ agli uomini: questo la natura della donna. A noi sembra una dichiarazione nefasta. Ma a cosa serve la scoperta di una maschia superiorità da parte di Elettra? A perpetuare una catena di vendetta e di omicidi, a servire la legge della forza. La prudenza di Crisotemi, dunque, anche la sua pazienza, può più concretamente servire da modello di riferimento politico e di perseveranza.

 

I volti della giustizia

C’è un senso di giustizia, in questa storia? Sia Elettra che Antigone si richiamano ad una giustizia superiore, che ha in dispregio le «leggi» degli uomini: «Io non voglio vivere con leggi come queste», dice Elettra esasperata alla sorella (v. 1043). Anche Crisotemi infatti ammette che ‘ciò che è giusto’ (to dikaion) non è in quel che lei stessa dice, ma in quel che Elettra ‘pensa’ (krineis, vv. 338-339).

Ma mentre la giustizia nell’Antigone è concretamente legata al compito di dare sepoltura ad un fratello morto, nell’Elettra ‘ciò che è giusto’ appare più sfumato e suscettibile di interpretazioni. Anche Clitemnestra, fa appello alla giustizia per giustificare l’assassinio di Agamennone: «La giustizia (Dike), non io sola, lo ha ucciso» (v. 528), ed anzi secondo la madre, Elettra avrebbe dovuto aiutarla, se avesse avuto del senno, proprio in nome della stessa ‘giustizia’ (v. 529). Ribattendo all’argomento della madre, Elettra afferma che Clitemnestra non «ha ucciso per giustizia» (v. 561), ma perché sedotta da Egisto; d’altro canto, seppure Agamennone avesse sacrificato Ifigenia per compiacere Menelao e i greci, non esisteva certo una ‘legge’ (nomos) che prescrivesse la necessità di assassinarlo: altrimenti, dice Elettra ritorcendo contro la madre il suo stesso argomento, anche Clitemnestra, adesso, deve temere di dover sottostare alla stessa ‘legge’ (vv. 580-583). L’agone retorico tra Elettra e la madre si gioca sul filo degli argomenti opposti; tuttavia, pur consapevoli che si tratta di una struttura argomentativa, resta l’interrogarsi sull’ambiguità della ‘giustizia’, e sul dato di fatto che non sempre ‘giustizia’ e ‘legge’ coincidano, e che si possa scegliere tra seguire la giustizia, infrangendo la legge, come fa Antigone, oppure seguire la legge, anche solo per incapacità e debolezza, come fanno Ismene e Crisotemi. Quest’ultima, con maggiore chiarezza rispetto ad Ismene, dichiara che deve «obbedire in tutto ai potenti» dato che vuole continuare a vivere ‘libera’ (eleuthera, v. 339).

Non solo, dunque, diverso può essere il comportamento pratico rispetto alla ‘giustizia’, ma anche rispetto alla ‘libertà’: per Crisotemi il suo continuare a vivere, anche nelle condizioni in cui la pongono i potenti, è pur sempre ‘libertà’, specie se la si raffronta alle intenzioni espresse da Clitemnestra ed Egisto di rinchiudere Elettra in una tomba. La contrapposizione tra Crisotemi ed Elettra si consuma su una diversa concezione della vita: Crisotemi afferma di vivere, e voler vivere, ‘libera’ (v. 339), e paradossalmente proprio perciò di prestarsi all’obbedienza al potere; Elettra invece si accontenta di ‘vivere’ per la vendetta, di vivere emarginata e male (v. 354), ma tuttavia questa vita umiliata e nei fatti prigioniera, le consente comunque di continuare a lamentarsi e maledire, negli spazi che riesce a ritagliarsi, e dunque di tormentare gli assassini del padre. Anzi: la speranza di vendetta, di ritorno del fratello, è divenuta la sua stessa ragione di vita (v. 323).

Tra le due figure si staglia un’idea diversa di «libertà»: per Crisotemi la libertà consiste se non nell’impossibile cancellazione del passato, nel contribuire a rendere meno oppressivo il nuovo potere, nell’adattarsi alle sue esigenze, seppure in attesa di un rovesciamento, possibile però solo quando se ne avranno le forze. Per Elettra la libertà vera consiste nel distruggere il nuovo potere, dopo averne smascherato fino in fondo la natura violenta e sanguinaria, ma anche nel gridare, inutilmente, i suoi propositi. La libertà di Crisotemi diventa perciò, agli occhi di Elettra, una meschina serie di piccoli privilegi:

Ma tu – dice Elettra a Crisotemi – pur odiando, conosci l’odio solo a parole; in realtà convivi con gli assassini del padre. Io no: nemmeno se mi venissero offerti quei tuoi privilegi dei quali ora vai orgogliosa, mi sottometterei mai a costoro. Per te sia pure im- bandita una sontuosa mensa e fluisca ricca di beni la vita: unico cibo sarà per me non dispiacere a me stessa. Dei tuoi privilegi non desidero aver parte, e neppure tu li brameresti, se fossi saggia (v. 359-365).

Esiste la vera libertà, tra queste due alternative?

 La parola ‘libertà’ risuona proprio in conclusione del dramma, dopo che Egisto si è avviato verso le stanze dove troverà la morte: «O seme d’Atreo, dopo quanto soffrire ti sei aperta, con quest’ultimo as- salto, un faticoso varco alla tua libertà!», canta il coro (vv. 1508- 1510). Ma il finale è aperto: con il singolare «seme d’Atreo», il coro sembra rivolversi alla sola Elettra, che è rimasta in scena, arrivata alla sua agognata «libertà». Intanto Oreste è entrato in casa con Egisto, dopo averlo preso con un gesto, l’apagoghé, che agli Ateniesi non doveva sembrare inconsueto (quando un criminale era colto sul fatto, poteva subito essere portato in tribunale), e che ignora il processo e i tribunali: «Questa punizione, la morte, si dovrebbe immediatamente infliggere a chiunque intende trasgredire le leggi: la delinquenza non sarebbe molta», sono le ultime parole del giustizialista Oreste. In Sofocle non compaiono le Erinni, né Oreste si avvia alla necessaria purificazione. Il futuro resta oscuro: «È dunque una legge assoluta che questa casa debba vedere i mali presenti e futuri dei Pelopidi?» – chiede Egisto in versi assai discussi (vv. 1497-1498).

È lecito chiedersi quale futuro attende Oreste, quale Elettra? E quale, aggiungiamo noi, la moderata Crisotemi? Il finale stende un velo di dubbio, che doveva trovare rispondenza nello stato d’animo della città di Atene negli anni difficilissimi della guerra, dopo il disastro della spedizione in Sicilia: sarà mai vicina la libertà?

 

Le ragioni di Crisotemi

Crisotemi va oltre le parole di Ismene nell’Antigone: «Ma questo occorre pensare: siamo donne, e non possiamo combattere contro uomini; e inoltre, sottomesse ai più forti, dobbiamo prestare ascolto a questi ordini e ad altri anche più dolorosi» (Antigone, vv. 61-64). Crisotemi mette in campo il valore della libertà, ma Elettra la considera una succube della madre e le impone: «allora devi fare una scelta, o pensare male, oppure essendo saggia non avere alcun ricordo dei cari» (vv. 345-346).

Questi versi mostrano quanto più opaca sia Elettra rispetto ad Antigone: quest’ultima pone Ismene di fronte ad un atto concreto, aiutarla a seppellire Polinice; Elettra invece, nel suo odio profondissimo ed antico, rimprovera Crisotemi di non aiutarla nel vendicare il padre, senza esplicitare i modi e le reali possibilità di questa vendetta. Ma soprattutto la scelta davanti alla quale Elettra pone Crisotemi è espressa in versi che sono un rompicapo interpretativo: nell’opinione più accreditata, Elettra qui definirebbe il proprio pensiero “cattivo”, un phronein kakos, che significherebbe: ‘pensare imprudentemente’, ed invece quello della sorella, improntato allo spirito di conservazione, “saggezza”, ma dimentica dei legami di famiglia (quindi del padre che è sta- to assassinato) e dunque dei propri doveri. Elettra inviterebbe dunque Crisotemi a condividere con lei quella ‘follia’ (phronein kakos) per la quale ad ogni costo desidera che il padre sia vendicato, e che è invece una forma di lealtà alla stirpe, ed un ricordo perpetuato del padre.

 Al phronein kakos di Elettra, Crisotemi risponde con: «adesso bisogna pensare in maniera bella» (nyn gar en kaloi phronein, v. 384). Il pensiero di Elettra, sebbene sortisca alla fine il suo scopo, la vendetta, resta nondimeno un phronein kakos, una ossimorica ‘cattiva saggezza’. «Chi vive in mezzo ai mali / non ha altra scelta: dovrà fare del male», ammette la stessa Elettra (vv. 308-309).

Incrollabilmente figlia del padre, Elettra resta vittima del proprio immenso dolore, non ritrova pienamente il fratello che aveva agognato, si rende complice, ma solo complice, di un’azione definibile come eroica ma terribile. Privata della sorella Ifigenia dalla forza di una guerra guidata da quel padre il cui ricordo la ossessiona, privata anche dalla madre, per la sua cattiveria e perché da lei concretamente disprezzata ed abbandonata, Elettra trova illusoria consolazione nel compimento della vendetta, che per lei è giusta. «Ma anche la giustizia, talvolta, porta danno», le profetizza amaramente Crisotemi (v. 1043).

L’ostinazione di Elettra non ha cedimenti, neppure i rimpianti velati di tenerezza se non addirittura di pentimento di Antigone che va a morire. L’avvertimento di Crisotemi («attenta che tu non debba ricordarti di me, nelle sventure») riecheggia ancora.

 

Le foto sono tratte dal sito dell' Inda di Siracusa (https://www.indafondazione.org/elettra-2025/) @Centaro e si riferiscono alle prove dell' Elettra con la regia di Roberto Andò che ha debuttato a Siracusa ieri 9 maggio 2025.