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Serve un grande coraggio nel portare in scena uno dei testi più difficili, oscuri e insieme profetici del teatro del XX secolo in un momento come questo, in cui una potente minaccia non sembra voler allentare la presa e grava da anni sui nostri comportamenti quotidiani, nonostante tutte le rassicurazioni di chi governa e ha responsabilità.

Grande coraggio nel mettersi alla prova da parte dell’attore con un testo che esige la messa in gioco di tutte le possibilità performative; grande coraggio nel voler rappresentare l'instabilità di ogni certezza e una realtà in bilico: instabile l’identità sessuale e politica, instabili il diritto, la fede, la ragione.

Serve un grande coraggio nel portare in teatro un testo contratto e talora incomprensibile, che mette in discussione il ruolo dell’attore e la funzione del teatro, coinvolgendo in questa crisi il pubblico spiazzato dalla cascata di parole che bruciano, incidono, afferrano il corpo: parole tragiche, allusivamente tragiche, parole che valgono come nota a piè pagina alla grande tragedia della storia.

Questo grande coraggio è stato mostrato da Rino Di Martino e dal regista Saverio Sivori per la riproposizione al ridotto del Bellini di Napoli di Hamletmachine, la ‘macchina Amleto’, di Heiner Müller (1929-1995). Un gigante nella storia del teatro, Heiner Müller, forse troppo poco noto da noi in Italia; ma un gigante pure nella storia del XX secolo, che ha attraversato vivendo e operando nella parte est di Berlino. Müller, erede di Bertolt Brecht, ha vissuto la guerra, la costruzione del muro e la sua caduta, la fine dell’utopia socialista e l’avanzata inarrestabile del capitalismo e dei suoi mostri. I testi drammaturgici, poetici, le interviste, le riflessioni di questo immenso intellettuale tedesco, le cui opere impegnano 12 fitti volumi (da Suhrkamp), costituiscono per noi, a oltre 25 anni dalla morte, una miniera inesauribile.

Tutti i testi di  Müller nascono da una concreta occasione storica, e non fanno eccezione le nove pagine di Hamletmachine: ma cosa sono queste nove pagine? Il critico tedesco Hans-Thies Lehmann le ha definite l’atto di nascita del teatro post-drammatico: ossia di quel teatro in cui la parola passa in secondo piano se non scompare del tutto, per lasciare il posto al gesto, alla voce, alle luci, agli elementi di scena. Perciò queste nove pagine valgono piuttosto come partitura operistica e in quanto tale restituita in una versione epocale da Bob Wilson nel 1986 (con un re-enactment nel 2018 al Piccolo Teatro di Milano), che Müller giudicò ‘il miglior spettacolo di sempre’ della sua intera carriera.

Coraggiosi, dunque, Rino Di Martino e il regista Sergio Sivori anche a voler proporre un’opera che per i cultori del teatro, non solo tedesco, rappresenta ormai un classico del secolo scorso. Di contro ad un’idea corale e musicale dello stesso testo, Rino Di Martino, invece, fa tutto da solo: è attore, macchina da scena, clown, maschio e femmina, marionetta, strumento vocale. In lui convivono l’opera e l’operetta, il teatro di tradizione e l’avanspettacolo, la tragedia e la commedia, il dramma e la pantomima. Nella limitata arena da circo in cui si muove, carillon impolverati di cipria da trucco, un video che proietta sinistre esplosioni atomiche, la valigia dell’attore, una bambola che è un doppio del performer, un vecchio grammofono d'antan. Ma al centro della performance sta il corpo dell’attore, corpo sul quale, in soli cinquanta minuti, con un crescendo sottolineato dalla colonna sonora, si attua quel disfacimento della storia che il testo metaforicamente annuncia.

Alla base di Hamletmaschine e della sua genesi stanno i fatti di Ungheria nel lontanissimo autunno 1956, quando i carrarmati sovietici infransero per molti il sogno di uno Stato per popolo e con il popolo. Nella Repubblica Democratica Tedesca, ossia nello Stato sotto l’influenza sovietica nato dopo la seconda guerra mondiale, in cui viveva Heiner Müller, la disillusione si era già drammaticamente palesata nella rivolta operaia soffocata nel sangue del 17 giugno 1953. Da allora, la figura di Amleto, divisa tra il progetto socialista e l’apparato di funzionari e burocrati che annientava quel progetto e ne minava le fondamenta ideali, diventa per Müller centrale per esprimere le contraddizioni del socialismo reale.

Così agli inizi degli anni ’60, il drammaturgo aveva intrapreso un lavoro dal titolo ‘Amleto a Budapest’, rimasto in frammenti. Anni difficili, quei primi anni Sessanta: il muro fu costruito nell’agosto nel 1961, e nello stesso anno Müller fu esiliato dal sindacato degli scrittori con il divieto di mettere in scena Die Umsiedlerin. Reagì scrivendo Filottete, l’altra figura del dubbio e della ferita, che lo accompagnerà per tutta la vita.

Amleto e Filottete: due personaggi tratti dal repertorio classico del teatro, due figure dell’immaginario letterario canonico, decostruiti da Müller nelle loro caratteristiche fisiche ed emotive. Filottete esperisce la ferita fisica dell’emarginazione e della mercificazione: è una macchina da guerra, buttata via quando non serve più, quando si è inceppata e non val la pena aggiustarla. Filottete è l’uomo diventato un articolo fuori commercio, l’individuo ridotto a puro numero: e questo non nella pratica concentrazionaria, ma in un mondo post-bellico, che avrebbe dovuto correggere gli orrori di Auschwitz e invece li perpetua in altra forma sotto l’egida del capitalismo, della competizione, della produttività.

Se Filottete soffre nel corpo, Amleto soffre nella mente, personifica anzi la mente scomposta, dilaniata, divisa (che Sivori nello spettacolo assolutizza in un volto ridotto a tessere di puzzle, proiettato nel video). Amleto significa la psiche dissolta dal trauma della guerra e delle guerre, nonché dalla disillusione in un possibile progresso. Filottete è dunque la ferita, Amleto è la follia del XX secolo. Il poeta, il drammaturgo, le guarda da fuori, come oggetti di scena, come marionette i cui fili sono tenuti da un regista invisibile; ma sa penetrare nei recessi più profondi della loro interiorità, perché Filottete e Amleto sono (anche) Heiner Müller.

Le nove pagine di Hamletmaschine furono scritte nel 1977, dopo che Müller ebbe tradotto, dopo un  soggiorno negli Stati Uniti, l’Amleto insieme a Matthias Langhoff per una messa in scena alla Volksbühne, regia di Benno Besson. Il testo, che Sivori e Di Martino recitano nella chiara traduzione italiana di Saverio Vertone, si presenta dunque in quest’edizione come un monologo, in cui l’attore passa attraverso l’identità di Amleto (anzi di tre Amleti), di Ofelia e infine di Elettra. Questo passaggio non simboleggia solo la necessaria versatilità del corpo del performer e la fluidità del genere, ma la divisione, la cesura, nella coscienza di chi ha creduto a un sogno (nella fattispecie quello socialista, ma vale per qualsiasi sogno) e a una ideologia, di chi per questo sogno avrebbe dato la vita e a un certo momento, visto che quel sogno e quella ideologia si sono rivelati mostri fagocitatori, non sa da che parte stare, se da quella del potere o da quella di chi si ribella. Il dubbio amletico è senza soluzione. O meglio: la soluzione è la rinuncia.

Amleto/Ofelia si uccide con quella mano che vorrebbe invece usare per una lotta dura contro tutti i poteri che schiacciano l’individuo. Il suicidio sarebbe dunque una liberazione dall’ossessivo ripetersi sempre uguale della storia come storia di sopraffazioni. Ofelia che infine rinuncia a vivere nasconde in filigrana la figura di Inge Müller (1925-1966), la prima moglie del drammaturgo, rimasta sotto le macerie dei bombardamenti per giorni, che mai superò il trauma e riuscì a togliersi la vita dopo ripetuti tentativi. Ma ogni riferimento biografico, così come ogni riferimento storico, viene epurato nella ‘partitura’ di Müller.  Ofelia, colei che si uccide, senza soluzione di continuità si rivela un’ Elettra, la vendicatrice.  

Ofelia ed Elettra diventano nomi indelebili della brutalità umana, vittime della violenza cieca, esposte allo sguardo in tutta la loro offesa e offensiva corporeità  'vestita del loro sangue’. ‘Con le mie mani insanguinate, strappo le fotografie degli uomini che ho amato e che mi hanno usata sul letto sul tavolo sulla sedia a terra’- alcune parole di Ofelia/Elettra.

Come nel Filottete, la ferita non si può guarire: e la vera ferita sta nell’essere considerati oggetti senz’anima, roba scadente, rifiuti. E allora la violenza, pur in una veste formale altissima, si trasferisce dal corpo dell’attore a quello di chiunque sia presente in sala. La pièce trasuda violenza e orrore per la violenza, l’attore si consuma in un crescendo dionisiaco di follia, dissociazione e straniamento, le parole roteano come fiocchi di neve nella tormenta, imprendibili. Si tratta di teatro? O stiamo parlando di noi?

Il disagio cresce in sala, tra chi vive l'esperienza della performance di Di Martino e con lui, una performance che diventa caleidoscopio linguistico e non tralascia nemmeno riferimenti alla tradizione napoletana con una tammurriata, a confermare l’universalità del linguaggio teatrale. Ma in questo non sense costellato da lampi di poesia,  l’Amleto/Elettra/Ofelia di Heiner Müller ci è vicinissimo. Cosa è cambiato oggi della sfrenata, letale corsa verso il consumo, verso la produzione, verso l’inutilità? Cosa è cambiato nell’irrispetto per la vita umana,  nell’emarginazione di migliaia di poveri e disperati, nello scoppio di guerre di cui non vogliamo sentire l’esito, ma che preferiamo ignorare? Di quali ferrei apparati, di quali pallidi funzionari che si vendono come benefattori del 'popolo', siamo invece vittime? Esiste il progresso? Cosa è il progresso?

Nulla: lo dice proprio Elettra, in un finale che non è un finale, ma una specie di nudo, asciutto, preannuncio del giorno del giudizio. Non sappiamo rendere conto ai vivi delle nostre colpe, ma saranno i morti a chiederci conto di esse. Non si tratta di un appello, non siamo di fronte a teatro di denuncia, non c’è la minima traccia di declamazione. Le nostre coscienze restano sospese, atterrite, da quel che Elettra dice come se leggesse un articolo di cronaca nera. Non c’è catarsi, in questo teatro tragico, come non c’è nella tragedia fuori dal teatro.

Qui parla Elettra. Nel cuore dell’oscurità. Sotto il sole della tortura. Alle metropoli del mondo. In nome delle vittime. Rigetto tutti i semi che ho ricevuto. Trasformo il latte del mio seno in un veleno mortale. Riprendo in me il mondo che ho partorito. Soffoco il mondo che ho partorito tra le mie cosce. Lo seppellisco nella mia vergogna. Abbasso la gioia della sottomissione. Evviva l’odio, il disprezzo, la rivolta, la morte. Quando attraverserete le vostre stanze da letto col vostro coltello da macellaio, saprete la verità.

Sotto il sole della tortura’: dell’Elettra di Sofocle resta la speranza obliqua e tetra che dalla violenza possa germogliare la rinascita, che l’uomo nuovo alla resa dei conti saprà trarre una lezione dal dolore, la tempesta cambierà direzione, come in una poesia di Müller che usa la stessa immagine:

Hanno seminato il vento è la tempesta

La violenza ha cambiato direzione

Sotto il sole della tortura

L’uomo si ricrea di nuovo.[1]

 HAMLETMACHINE

di Heiner Müller
traduzione Saverio Vertone

con Rino Di Martino

scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
contributi video Marco Schiavoni
trucco Vincenzo Cucchiara

regia Sergio Sivori

produzione Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini

 

 

 

 

 

 

 

[1] Le traduzioni dal tedesco sono mie. Devo il parallelo con la poesia di Müller alla bella, ancora inedita, tesi di dottorato di Benedetta Bronzini, Interviewkünstler. L’artista intervistato come performer e documento storico attraverso l’esempio di Heiner Müller a confronto con Alexander Kluge, Firenze 2017.