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«Ma un’indole troppo dura /è quella che si spezza più facilmente, ricordalo:

è come il ferro temprato al fuoco,/se indurisce troppo si rompe in mille pezzi»

(Sofocle, Antigone, 473-476)

Il teatro non è il solo spazio possibile della rappresentazione: non era così nell’antichità e non è così nel XXI secolo. Sono numerosi, e non solo in Italia, gli esempi di spazi non teatrali ma rifunzionalizzati per messe in scena, dalle Chiese sconsacrate a luoghi come il Cimitero della Futa a ex fabbriche. Corpi di archeologia industriale che segnano spesso quartieri in dissolvenza, le fabbriche in disuso interagiscono con testi eterogenei come dimostra esemplarmente il lavoro di Luca Ronconi (Luca Ronconi. Prove di autobiografia).

Uno spartiacque nella drammaturgia dello spazio e nello spazio come drammaturgia è stato il suo Infinities (John Barrow), allestito in maestosi ambienti dismessi immersi nel quartiere dell’ex grande polo industriale milanese della Bovisa (2002, 2003), custodi rassegnati di una operosità che non c’è più e nondimeno desiderosi di accogliere nuove azioni. «Infinities», scriveva a ragione Renato Palazzi, «è uno di quegli avvenimenti che spostano per sempre le frontiere del teatro,uno di quegli appuntamenti che capitano poche volte nella vita di uno spettatore, come era stato per Gli ultimi giorni dell’umanità al Lingotto di Torino».

Anche per l’opera di Karl Kraus (29 novembre 1990), come per Infinities, l’unicità dello spazio, la ex Sala Presse del Lingotto, il celebre stabilimento FIAT, aveva giocato un ruolo fondamentale e lo stesso si era verificato per il Silenzio dei comunisti (Vittorio Foa, Miriam Mafai, Alfredo Reichlin - 5 febbraio 2006) e Fahrenheit 451 (Ray Bradbury - 21 aprile 2007), entrambi alle Fonderie Limone di Moncalieri. Capannoni, ciminiere, case dormitorio delle Fonderie, uomini e donne che lì hanno lavorato e vissuto sono stati attori di quella che si potrebbe definire un’opera tragica della storia dell’industria italiana, scritta tra gli anni Venti e Settanta del Novecento, un’opera che ha avuto un inizio luminoso – le Fonderie celebri protagoniste della fusione di bronzo, alluminio e ghisa – e un finale tragico, segnato da crisi, licenziamenti, occupazioni, infine abbandono e morte. Dal 2005 questi spazi industriali fantasma sono stati trasformati in una ‘fabbrica delle arti’ dove si creano, producono, sperimentano, spesso si fondono forme d’arte, a cominciare dal teatro e dalla danza, e dove rivivono, trasformate, anche le voci della tragedia greca come quelle di Antigone e dei suoi fratelli (regia Gabriele Vacis), in scena dal 10 al 22 gennaio (si veda qui Sotera Fornaro; qui, per altri allestimenti di tragedie greche nel 2021/22).

Nella sala-teatro della ‘Fonderia teatrale’, altezza vertiginosa, pareti nette, colori che riflettono senza filtri la materia – alluminio, legno, cemento, la stoffa rossa delle poltrone – sembrano aver bisogno di poco altro per lavorare insieme ai corpi e alle voci che forgiano Antigone, i suoi fratelli, i cori di Euripide (Le Fenicie) e Sofocle (Antigone), Giocasta, Creonte, Tiresia. Ogni personaggio si muove avendo in sé, in misura diversa, il peso di un remoto tempo mitico, che risale a Cadmo, e sentendosi in vario modo figlio di una terra gloriosa e tormentata, Tebe, che ha aperto due delle sue sette porte al sangue di un fratricidio. Lo spazio in cui questo avviene contiene tracce analoghe: il peso di un tempo passato che, per più versi, si può dire ‘mitico’ e l’appartenenza a un luogo che ha conosciuto fama, ricchezza e pure la caduta in disgrazia.

L’Antigone diretta da Vacis rivive azioni e scene di un doppio dramma – Le Fenicie e Antigone, appunto – e chiede a giovani attori, decisamente talentuosi, di essere attraversata anche liberando domande, che da quelle due tragedie possono nascere, e raccontando frammenti di vissuti personali, filtrati dalla finzione teatrale. Da queste schegge di narrazione emergono punti di contatto e soprattutto distanze fra questi giovani del XXI secolo in scena, che si assumono il compito di essere sineddoche di una generazione, e i fantasmi mitici che sono chiamati ad abitare per quasi due ore: e così da spettatori sentiamo dire che a poco più di vent’anni non c’è e non si cerca alcun dio, chiunque egli sia, non si fissano traguardi, non c’è desiderio di lotta ma si ammette, tra imbarazzo e vergogna, una nostalgia della guerra, se guerra significa battersi per un ideale; sentiamo che manca “il coraggio della solitudine”, quello che aveva Antigone, ma che come per la giovane Antigone e il giovane promesso sposo Emone anche quei giovani, e attori, hanno visto incomprese le proprie ragioni e aspirazioni da parte degli adulti e hanno conosciuto il dolore.  

Insieme a Vacis ha lavorato ad Antigone e i suoi fratelli Roberto Tarasco: sarebbe più corretto dire ha lavorato ancora una volta, visto il lungo e collaudato sodalizio. Tarasco si è occupato della scenofonia, dell’«arte della messa in scena a partire dai suoni» perché per lui «il teatro è lo spazio dell’evocazione e nel suono trova il suo grembo». Il grande spazio nudo della sala-teatro delle Fonderie ha giocato a favore di questa idea e delle sue possibili declinazioni concrete e tra gli elementi di maggiore pregio di questa Antigone c’è proprio il lavoro ‘scenofonico’.

Suoni, rumori, luci creano spazi sonori ritmati da luce e buio da abitare insieme, attori con spettatori; aprono le porte di Tebe e generano visioni nette, di senso chiaro, e allo stesso tempo proliferanti e generatrici di emozioni; compensano poi alcuni momenti meno riusciti dello spettacolo, a mio avviso quelli in cui si indugia troppo nelle narrazioni del mito o si dà spazio a discutibili affermazioni sui significati del mito di Antigone.  

Lo spazio scenico è per circa metà spettacolo attraversato in senso orizzontale da una doppia americana su cui è steso uno strato spesso di terriccio. Questa ‘strada’ è drammaturgicamente polifunzionale e la presenza della terra è emblematica della tragedia dei fratelli di Antigone, che perdono la vita per mano l’uno dell’altro «mordendo la terra» (Euripide, Le Fenicie v. 1423), e poi di Polinice in particolare e della sua vietata sepoltura tra γῆ, terra, e κόνις, polvere (Sofocle, Antigone 245-247, 249-256, 407-440). All’inizio della rappresentazione la terra richiama anche la terra delle corse da ragazzi, tra fratelli e sorelle, della gioia che, rapida, si rovescerà fatalmente nel suo contrario. Presto lo spazio viene infatti invaso metaforicamente dal rumore delle armi e dello scontro dei corpi di Eteocle e Polinice, raccontato dal secondo messaggero euripideo, dal loro estremo cadere con la bocca contro la terra: mentre accade questo l’americana viene issata. Lo spazio liberato dal metallo della travatura e dalla terra sovrastante lascia il posto a un lungo, leggero velo di plastica che dal muro di fondo viene portato dagli attori a coprire scena e parte delle gradinate: spettatori e personaggi condividono il velo della morte data da un fratello a un fratello e il suo raggelante soffio, prodotto dal rumore del movimento del velo che fende l’aria del teatro. Ritratto il velo, cade, dall’alto sulla scena, la terra: un suono simile a uno scroscio violento accompagnato dall’odore di terra. La scena di seppellimento che segue, in cui ogni attore trova un suo modo di seppellire il fratello – parola che qui vale per chiunque si ami di amore fraterno – , in cui ciascuno esprime a suo modo compianto e pietà, avviene dunque in un coinvolgente spazio visivo-acustico-olfattivo.

La terra resta materia essenziale nella drammaturgia dello spazio anche nella parte dello spettacolo sviluppata attorno all’Antigone di Sofocle, specie nel momento in cui i corpi distesi a terra degli attori disegnano una composta e toccante geografia del dolore che allude al corpo insepolto di Polinice e che trova il suo perno nel saldo corpo di Antigone, il solo in piedi al centro di quella terra abitata da giovani corpi senza vita;  e poi ancora quando la terra diventa confine tra Antigone, ormai pronta a raggiungere i suoi cari nel mondo buio della morte, e gli altri personaggi. Mentre Antigone (una bravissima Letizia Russo) pronuncia le ultime parole, una luce bianca la avvolge fin quasi a  smaterializzarla e dietro di lei, lungo il muro di fondo della scena, si chiude lentamente una tenda nera, buio della grotta dove Creonte ha ordinato di farla seppellire viva.

L’epilogo è affidato alle sonorità metalliche di pale, in mano agli attori, e a quelle simili a un fruscio, prodotto dalle scope usate per rimuovere la terra del mito di Antigone e dei suoi fratelli, per liberare lo spazio del teatro che per natura non può fermarsi a ‘fabbricare’ un solo spazio, e non solo tragico.

La traduzione dei versi di Sofocle, Antigone, 473-476 è di Maria Grazia Ciani (Sofocle, Anouhil, Brecht, Antigone. Variazioni sul mito, Venezia 2000, p. 34).

Le parole di Renato Palazzi sono tratte dalla recensione di Infinities (Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2002) che si può leggere .

La definizione di scenofonia data da Roberto Tarasco è ripresa dall’articolo di Gian Luca Favetto, L’uomo che non sta mai al suo posto https://torino.repubblica.it/cronaca/2015/12/05/news/lo_sguardo-128830918/

Per le foto delle Fonderie Limone, esterno e teatro:  https://archivio.teatrostabiletorino.it/oggetti/3514-limone-fonderie-teatrali-2005-16-fotografie

Le foto sono di Raffaella Viccei, scattate domenica 15 gennaio.