Il professor Agamennone insegna etica all’Università: sugli scaffali delle librerie, fa bella mostra di sé il suo ultimo saggio sui legami familiari. Sua moglie Clitemnestra non lo ama, ma difende l’immagine patinata di una famiglia borghese e felice.
Forse Clitemnestra non si è nemmeno mai posta il problema di cosa sia l’amore. Decisamente insoddisfatta appare invece sua sorella Elena, dalla femminilità prorompente, infelicemente sposata con Menelao, un avvocato di grido, narcisista e maschilista. Agamennone sacrificherebbe qualunque cosa per la carriera e il successo, persino sua figlia, Ifigenia, un’adolescente che cova un terribile segreto: da dieci anni è sessualmente abusata dallo zio Menelao. Ifigenia è una promettente pianista, legata sentimentalmente all’aitante Achille, giocatore di basket: nasconde il suo tormento, sino a che non ne può più delle violenze e denuncia tutto ai genitori in cerca di aiuto. Ma invece di indignarsi e rivolgersi alla polizia, i due le consigliano e le impongono il silenzio: Agamennone non vuole che sia danneggiata la sua immagine pubblica, né gli conviene che il fratello perda tutto per l’accusa infamante di pedofilia; Clitemnestra aborre la pubblica vergogna, pensa che i panni sporchi vadano lavati in casa. Ifigenia, elabora a suo modo il trauma e sacrifica i propri sogni, fratturandosi le dita della mano e compromettendo per sempre il suo avvenire da pianista. Fuggirà in un’isola lontana, recidendo ogni legame con la famiglia.
Questi i personaggi della ‘rielaborazione’ del mito di Ifigenia da Euripide e Goethe della drammaturga polacca Joanna Bednarczyk, proposto all’ultimo festival di Salisburgo dalla acclamata e sensibile regista Ewelina Marciniak, una specialista, si può dire, di messe in scena della violenza e del sopruso ai danni delle donne. Le due artiste polacche hanno già collaborato per una messa in scena della Giovanna D’Arco dalla tragedia romantica di Friedrich Schiller.
Conviene leggere le ragioni che la drammaturga pone alla base della sua rielaborazione:
«L’amata figlia di un re, quasi adulta, pronta per vivere le sue prime esperienze amorose (Ifigenia in Aulide) diventa una sacerdotessa annoiata e malinconica, separata dalla sua famiglia e dal mondo intero (Ifigenia in Tauride)
Non ama, non lavora, non è legata a nessuno: resiste, semlicemente. Salvata dallo sgozzamento, sopravvive ma è in certo senso morta. Accade raramente che si passi in maniera così improvvisa dalla vitalità e dalla giovinezza all’immobilità e alla mancanza di ogni speranza. Accade raramente anche che questo passaggio si concentri, in un asse temporale, in un unico, fondamentale punto e non disegni una linea orizzontale – ossia la lenta nascita della disperazione. Nel tentativo di raccontare nuovamente la storia di Ifigenia nella realtà di oggi, abbiamo deciso di mettere insieme ambedue le prospettive temporali. Nel ruolo di Ifigenia vengono fuori due attrici che rappresentano due generazioni: Ifigenia giovane e vecchia.
Nel mio testo le prospettive si mischiano in maniera tale che l’Ifigenia più anziana racconta la storia della più giovane – ma accade anche il contrario.
Il trauma è stato una scoperta del XX secolo. Si è dimostrato che singole esperienze del passato possono influenzare la vita di un essere umano tanto che ne soffre per sempre. Inoltre si è compreso che il trauma non ha bisogno di essere spettacolare (anche se spesso lo è). Talora ha un effetto traumatico già solo un discreto, quasi impercettibile rifiuto da parte di qualcuno che ci ama. Il sacrificio della propria figlia, che l’antico Agamennone prepara mettendo valori universali (stato, nazione) al di sopra dei legami familiari, oggi non potrebbe forse aver luogo in maniera così orrenda, violenta, brutale. Ma anche oggi ‘sacrifichiamo’ persone che ci sono vicine (i bambini, il partner, la famiglia), per la carriera, il prestigio, per realizzare le nostre ambizioni. Spesso non ci accorgiamo nemmeno di ferire chi amiamo con le nostre decisioni.
Nella mia interpretazione del mito di Ifigenia, Agamennone sacrifica consapevolmente sua figlia, la tradisce dopo averci molto riflettuto. Le sue motivazioni sono in fondo banali. Per Agamennone sono in gioco lo Stato, l’esercito, il popolo – per il suo ‘doppio’ di oggi sono invece in gioco la reputazione, la carriera, il credito goduto dal fratello. Ifigenia sperimenta che il suo amato papà decide di non stare dalla sua parte, che lo lascia solo, perché ha paura di non avere più successo. Ifigenia si spezza in due.
Nella seconda parte del mito, ambientata in Tauride, vediamo una donna anziana, sprofondata nell’apatia. Non ha alcuna speranza che qualcosa nella sua vita possa aver senso. Allora si presenta il fratello, che non vede dalla fanciullezza, e la fa uscire dalla sua solitudine. Nella nostra versione è per noi improtante descrivere il complicato processo di liberazione dav una malinconia paralizzante, che si è sviluppata dal trauma.
Non ci interessa, invece, né il deus ex machina né Oreste come Gamechanger. Immaginiamo la Tauride come un sanatorio, nel quale delle persone distrutte lentamente vengono fuori dalle paure del loro passato e trasformano la loro fragilità, sensibilità e impotenza di fronte alla realtà in forza, che permette loro di ritornare a vivere proprio in quella stessa realtà».
Attorno a queste vicende avvengono movimenti coreografici, giochi di luce, altri espedienti scenici, come l’incendio del pianoforte che campeggia in scena, tutti elementi staccati però dalle storie dei personaggi. Durante il cambio di scena dall’infanzia dell’autolesionista giovane Ifigenia alla Tauride luogo di fuga dell’anziana Ifigenia, Menelao tiene persino una vera e propria conferenza sul valore dei sentimenti e sul movimento #metoo.
Nel testo per la stampa che ha accompagnato la ‘prima’, la regista ha dichiarato che «anche i temi archetipici si possono raccontare come storie contemporanee, si possono interpretare in maniera nuova. In queste storie, troviamo determinati cliché e modelli, e il mio compito è decostruirli». In che maniera? Lasciandosi guidare dall’osservazione di quel che accade intorno a noi: «Per me – continua la regista – è importante la prospettiva femminile e il confronto con coloro che sono esclusi dalla società. Perciò faccio appello volentieri a un contesto storico, per combinarlo con il presente. Il confronto così diventa più facile per il pubblico». Di questo non saremmo proprio sicuri, perché l’equilibrio tra le trame mitologiche (o le vicende storiche) e la loro attualizzazione non è affatto semplice.
Inoltre il mito non è storia e non rinvia a uno specifico contesto storico; ma evidentemente per Ewelina Marciniak, e non solo per lei, il mito vale come espressione di una società arcaica e patriarcale, dalla quale abbiamo ereditato pregiudizi, prevaricazioni, violenze.
Questa Ifigenia ha sollecitato giudizi contrastanti: se la bravura del cast non sembra messa in discussione, ad alcuni è parso un fallimento il tentativo di attualizzazione, ad altri troppo prolisso il ragionare e tirato per le lunghe l’approccio psicanalitico.
Ma credo che sia interessante sottolineare l’immaginario del pubblico a cui questa messa in scena fa riferimento: la trama mitologica, grazie a un’attualizzazione piuttosto schematica dei personaggi, e che non è affatto una ‘rielaborazione’ da Euripide o Goethe, viene trasformata in episodi di una ‘serie’ del tipo saga familiare, ci cui Dynasty e Beautiful sono le antesignane, con qualche elemento violento e un surplus psicologico, con la possibilità di andare avanti all’infinito. O almeno sino all’estinzione della stirpe dei Tantalidi…
Coprodotto dal nobile Thalia Theater, questa Ifigenia si potrà vedere ancora dal 22 settembre ad Amburgo.
Foto @ Krafft Angerer