Datata agli anni Quaranta del V secolo a.C., l’Aiace di Sofocle pone non pochi problemi relativi alle modalità di rappresentazione. Come si apre la tenda dell’eroe di Salamina nel prologo, per consentire a Odisseo di vedere quello che accade all’interno?
C’è un cambio di scena, dall’accampamento acheo alla spiaggia, quando Aiace compie il suicidio? Su questi e altri problemi di messinscena si discute da secoli, e certamente ne ha tenuto conto anche Luca Micheletti, regista della nuova edizione della tragedia, in scena al Teatro Greco di Siracusa per la 59esima stagione di spettacoli classici dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Che mettere in scena Aiace sia tutt’altro che facile, lo testimonia per altro il fatto che nella storia delle rappresentazioni siracusane novecentesche solo tre volte prima di quest’anno ci si era cimentati, nel 1939 (traduzione di Ettore Bignone, con Gino Cervi, Paolo Stoppa, Aroldo Tieri), nel 1988 (regia di Antonio Calenda, con Massimo Popolizio) e nel 2010 (regia di Daniele Salvo, traduzione di Guido Paduano, con Maurizio Donadoni e Elisabetta Pozzi).
Il bresciano Luca Micheletti è noto come attore, cantante lirico (baritono) e regista teatrale. Nel 2011 ha vinto il Premio Ubu come miglior attore non protagonista per La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht, messo in scena al Teatro di Roma. L’Aiace di quest’anno rappresenta il suo debutto al Teatro Greco siracusano ed è anche la sua prima esperienza come regista di tragedie greche. Come ha spiegato in un’intervista al quotidiano «La Repubblica», la sua interpretazione punta a leggere la tragedia di Aiace come un dramma «che si svela a poco a poco», quasi un thriller, nel quale il protagonista passando attraverso lo stato di follia, cui lo costringe la dea Atena, compie un percorso verso una nuova forma di conoscenza. «Aiace quando rinsavisce non compie un giro completo, non torna al punto di partenza. La domanda registica è dove approda Aiace dopo la follia? In un luogo dove gli eroi della sua specie non hanno più legittimità e infatti è costretto a uccidersi, a fare crollare la sua civiltà. Aiace pazzo vive nel suo mondo e quando ritorna non può far altro che abitare un nuovo mondo immaginario che è l’aldilà», ha spiegato il regista[1].
La prima interessante novità è il fatto che il Micheletti non solo cura la messinscena, ma recita anche nel ruolo dell’eroe protagonista, una scelta che – per quanto a mia conoscenza – non ha precedenti nelle rappresentazioni siracusane, ma che riporta a una pratica ben attestata nell’Atene classica, per lo meno nei primordi della grande stagione della tragedia attica. L’altra soluzione curiosa è di avere scelto per la parte di Odisseo il collega Daniele Salvo, già regista di Aiace nel 2010, e spesso presente a Siracusa (nel 2023 con la regia della Pace di Aristofane). Questo personaggio assume nella messinscena di Micheletti un significato fondamentale in quanto rappresentante di un eroismo moderno, senza armi, fondato sull’intelligenza, l’astuzia, la pragmaticità, antitetico rispetto a quello di Aiace. Anche dopo il prologo, Odisseo qui rimane in scena, muto, per tutto il tempo, fino al suicidio di Aiace. Non visto dagli altri, si muove sulla scena con aria curiosa, assiste con complice sintonia ai monologhi di Aiace e alla sua catastrofe. Tutto questo non c’è nell’originale sofocleo, ma è un’eccellente invenzione. Si può dire che Micheletti e Salvo, due registi teatrali, interpretano sulla scena due personaggi che sono di fatto i registi del proprio mondo, Aiace della civiltà arcaica, quella che si suole chiamare con Erich Dodds “civiltà della vergogna”, e Odisseo della civiltà più moderna, “della colpa”, un mondo nel quale il logos diviene la risorsa vincente.
La dimensione metateatrale è al centro di questa messinscena anche in altri aspetti importanti. Per esempio, nella scenografia: prima ancora che lo spettacolo abba inizio, lo spettatore vede una gigantesca tenda bianca macchiata ovunque di sangue. È la tenda di Aiace nell’accampamento acheo, una tenda insanguinata che copre la carneficina del bestiame compiuto dal protagonista. Non si vedono all’inizio animali uccisi, se non una carcassa di vitello con la spada conficcata nel dorso. Ma la tenda insanguinata nel corso della rappresentazione diventa una sorta di grande sipario che si gonfia per il soffiare del vento e quindi, un poco alla volta, si solleva mostrando a tutti l’orrore che da principio occultava (carcasse e interiora di buoi e pecore). È il sipario della coscienza di Aiace, del suo mondo interiore. Ed è un modo efficace per dare concretezza scenica all’accertamento dell’accaduto che il testo sofocleo immagina sia messo a fuoco progressivamente componendo il puzzle dei vari punti di vista (quello di Odisseo, quello dei marinai, quello di Tecmessa).
Sulla tenda aleggiano gli avvoltoi, che non si vedono, ma che fanno sentire il loro agghiacciante gracchiare. Da dentro la tenda si percepiscono i movimenti nevrotici di Aiace che fustiga gli animali catturati. Atena, la dea androgina per eccellenza, è interpretata da un attore di sesso maschile, Roberto Latini. Non corrisponde all’iconografia tradizionale: niente elmo, egida e scudo. Indossa abiti poveri, ed è avvolta sotto un ampio cappuccio, fino a quando si palesa scoprendo il capo e predispone per l’attonito Odisseo lo spettacolo della follia del suo rivale. Di Aiace, ancora in preda all’invasamento scatenato dalla dea, si scorge soltanto la testa, che spunta dalla tenda in posizione supina.
I marinai di Salamina, che compongono il coro, sbucano anch’essi da sotto il tendone insanguinato, come mimetizzati tra gli animali uccisi e ricoperti essi stessi di pelli d’animale. Per gli stasimi Micheletti ha incaricato il compositore Giovanni Sollima di preparare nuove musiche originali, musiche eseguite in scena dal vivo da un ensemble di musicisti con vari strumenti (trio di violoncelli, percussioni, arpa, clarinetto, flauto e trombone). Le parti cantate dal coro con le partiture di Sollima sono senza dubbio l’aspetto più riuscito e convincente della rappresentazione. I movimenti coreografici dei marinai di Aiace sono illuminati da un fascio di luce che accentua così il contratto con le ombre. I temi e i ritmi delle melodie sottolineano le emozioni che si ricollegano alla vicenda rappresentata, alternando orrore e compassione per la fragilità umana, ma anche gioia sconsiderata dopo che i fedeli marinai si convincono che il loro comandante abbia deposto i propositi suicidi. Da questo punto di vista Micheletti ha inteso ricreare quell’unità di musica e poesia che sta all’origine della tragedia greca antica.
Mentre Aiace parla ai marinai, alla moglie Tecmessa (Diana Manea) e al piccolo Eurisace (interpretato da Arianna Micheletti Balbo, figlia di soli diciotto mesi del regista), attorno a lui si agita una figura spettrale, che indossa una tunica rossa e un elmo metallico, non dice una parola e compie balletti sinuosi e inquietanti. Si tratta di Thanatos, una raffigurazione della morte incombente, interpretata dall’attrice nera Lidia Carew. Anche in questo caso siamo davanti ad un’invenzione registica originale e interessante, anche se non semplice da decodificare per lo spettatore.
Dopo aver pronunciato la celebre Trugrede (“discorso della finzione”), Aiace scompare dalla scena risucchiato attraverso una botola. Si prepara a quel punto la scena clou del suicidio: la grande tenda con le macchie di sangue viene ammainata del tutto (è una tenda, ma potrebbe suggerire anche l’idea di una vela) e nella parte superiore del palcoscenico ecco apparire un gigantesco scheletro umano, con teschio e ossa. A vederlo da lontano sembrerebbe più lo scheletro di un dinosauro che di un uomo[2]. Aiace, con Thanatos a fianco che lo bacia e abbraccia, pronuncia la sua ultima rhesis, mentre il rimbombo di tuoni si abbatte sul teatro e le mostruose Erinni nere della vendetta, da lui invocate per abbattersi sui suoi nemici (gli Atridi e Odisseo) si materializzano per davvero in scena. La modalità del suicidio non segue il copione sofocleo, ovvero Aiace non si getta sulla spada conficcata per terra trafiggendosi il fianco. È Thanatos ad accompagnarlo dietro le ossa dello scheletro fino a scomparire[3].
Che la trama dell’Aiace sia divisa nettamente in due parti, con la morte dell’eroe protagonista a fare da spartiacque, è cosa nota. L’elemento che conferisce unitarietà a questo modulo drammatico che T.B.L. Webster definiva con una fortunata etichetta “struttura a dittico” è il corpo di Aiace, che giganteggiava al centro della scena per tutta la seconda parte del dramma e attorno al quale si consuma la disputa tra Teucro e gli Atridi per la sepoltura. Ebbene, nel caso della messinscena siracusana ci è parso che tanto la prima parte, con Micheletti mattatore nei panni di Aiace e le musiche di Sollima, sia ottimamente riuscita, quanto invece la seconda parte non risulti del tutto convincente. La disputa sul corpo di Aiace costituiva il momento cruciale del dramma sofocleo, quello più innovativo e più ricco di riferimenti all’attualità storico-politica (il divieto di sepoltura richiama per altro da vicino l’Antigone, andata in scena pochissimi anni dopo l’Aiace). Sofocle faceva parlare gli Atridi il linguaggio della democrazia ateniese, mentre Teucro difendeva la logica delle leggi divine che impongono la sepoltura dei famigliari, anche se accusati di tradimento.
Questo aspro confronto, carico di tensioni e allusioni, nella rappresentazione di Micheletti quasi scompare con i protagonisti ridotti a macchiette. Teucro (Tommaso Cardarelli) recita in modo artatamente isterico e non assume mai la fisionomia di un eroe. Menealo (Michele Nani) alterna i toni autoritari a quelli ridicoli, e appare come una figura stordita, succube del fratello maggiore, di cui ripete meccanicamente gli slogan. Agamennone (Edoardo Siravo) è un miles gloriosus, fanfarone e tracotante, ma fondamentalmente grottesco e non incute veramente paura. Alla fine s’impone la logica flessibile e pragmatica di Odisseo, il quale rientra in scena agghindato con le armi dorate e luccicanti di Achille, quelle che gli erano state assegnate dopo la morte del Pelide suscitando l’ira irrefrenabile di Aiace. Quest’ultimo è un colpo ad effetto ben congegnato, che suscita meraviglia e applausi da parte del pubblico. Dopo l’uscita di scena dei due Atridi ci si sarebbe aspettati anche la celebrazione del rituale di sepoltura, secondo quanto suggerito dalle battute conclusive di Teucro, o per lo meno un accenno in tal senso, ma il regista ha preferito evitare.
Resta da dire che il successo di questo Aiace si basa, oltre che sulle musiche di Sollima, anche sull’eccellente versione che ne ha dato Walter Lapini, tanto precisa nelle scelte lessicali, quanto idonea alla recitazione e alla comprensione del pubblico. Ma è soprattutto la fisicità di Micheletti regista e interprete dell’eroe di Salamina a suggellare la qualità dello spettacolo. «Al centro del discorso sta il corpo dell’eroe, – ha scritto il regista – le cui esplorazione, disumanizzazione, distruzione e reinvenzione sono prefigurate dalla macelleria degli armenti, dallo squartamento degli animali scambiati per nemici dall’Aiace furioso, il quale finirà per identificarsi con le sue stesse vittime squartando sé stesso con la spada di Ettore. Il suo corpo è il luogo metaforico intorno al quale si consuma il fatto tragico: prima il suicidio – che simboleggia l’addio definitivo all’epoca dell’eroismo arcaico, – poi la diatriba intorno alla sua sepoltura […]. L’immane corpo di Aiace, reso ormai antico vestigio di un mondo senza più linfa, scheletro del tempo che fu, non fatto oggetto di venerazione ma desacralizzato da un trattamento non affatto rituale, sussiste come terreno di scontro dialettico, sede dibattimentale, scenografia per un teatro d’un nuovo regime, gigantesca pietra di paragone con cui confrontarsi e dalla quale prendere le distanze»[4].
Aiace di Sofocle
Regia: Luca Micheletti
Traduzione: Walter Lapini
Musiche: Giovanni Sollima
Scenografia: Nicolas Bovey
Luci: Nicolas Bovey
Costumi: Danile Gelsi (in collaborazione con Elisa Balbo)
Maestro del Coro: Davide Cavalli
Coreografie: Franrzio Angelini
Aiuto regista: Benedetto Sicca
Assistente alla regia: Francesco Martucci
Assistente scenografo: Eleonora De Leo
Assistente costumista: Andrea Grisanti
Drammaturgo: Francesco Morosi
Direttore di scena: Giovanni Ragusa
Interpreti: Luca Micheletti (Aiace), Roberto Latini (Atena e Messaggero), Daniele Salvo (Odisseo), Diana Manea (Tecmessa), Tommaso Cardarelli (Teucro), Michele Nani (Menelao), Edoardo Siravo (Agamennone), Lidia Carew (Ate e Thanatos), Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Grilli, Mino Manni, Francesco Martucci (Corifei); Giovanni Accardi, Gaetano Aiello, Ottavio Cannizzaro, Pasquale Conticelli, Giovanni Dragano, Raffaele Ficiur, Gianni Giuga, Paolo Leonardi, Marcello Mancini, Marcello Zinzani (Coreuti). Francesco Angelico, Christian Barraco, Cecilia Costanzo (violoncelli); Giovanni Caruso (percussioni) e Giuseppina Vergine (arpa).
Foto: Franca Centaro
Aiace ha celebrato la premiere al Teatro Greco di Siracusa il 10 maggio e resta in scena fino al 7 giugno.
[1] M. Di Caro, Luca Micheletti a Siracusa: “Aiace è una tragedia-thriller che si svela a poco a poco”, «La Repubblica - Palermo», 17.4.2024.
[2] In un componimento lirico scritto tra il 1994 e il 1995, intitolato Ajax zum Beispiel (Aiace, per esempio), il poeta e drammaturgo tedesco Heiner Müller utilizza proprio l’immagine del dinosauro per focalizzare l’arcaicità di Aiace rispetto ai tempi moderni, un’arcaicità che fa da pendant a quella dell’autore rispetto alla nuova Germania dell’epoca successiva alla riunificazione, tutta consumismo e profitto. Chissà se Micheletti e lo scenografo Nicolas Bovey avevano in mente questo riferimento letterario.
[3] Il tema del suicidio di Aiace e della sua realizzazione scenica è assai dibattuto. Si veda il volume miscellaneo Staging Ajax’s suicide, ed. by G.W. Most and L. Ozbek, Edizioni della Normale, Pisa 2015.
[4] L. Micheletti, Aprire l’eroe, in Aiace di Sofocle. Regia di Luca Micheletti, Istituto Nazionale del Dramma Antico, Siracusa 2024, pp. 13-18 (citazione a p. 15 s.).