Dopo il silenzio della pandemia, Archivio Zeta torna da stasera al Cimitero Germanico del Passo della Futa con la nuova produzione IL VOLTO DI FËDOR DOSTOEVSKIJ, liberamente ispirato a L’idiota (1869), sino al 15 agosto (posti limitati su prenotazione).
La notizia ci commuove profondamente, e ci induce insieme a sperare che in quel luogo, grazie ad Archivio Zeta, memorie remote e vicine continuino a intrecciarsi, lasciando in ognuno consapevolezze, riflessioni, energie nuove. Festeggiamo l'evento con alcune pagine tratte da un libro bellissimo, Teatro di Marte.Il cimitero militare germanico del passo della Futa, a cura di Elena Pirazzoli, con scritti di Luca Baldissarra, Giacomo Calandra di Roccolino, Carlo Gentile, Gianluca Guidotti, Sofia Nannini, Enrica Sangiovanni, Birgit Urmson e le splendide foto di Franco Guardascione. Il libro è stato edito da Archivio Zeta nel 2019, come primo di una collana dal suggestivo titolo 'leucò', e brilla come stella polare nella Biblioteca di Visioni del tragico. Un libro che si dovrebbe leggere e guardare nelle scuole, e che tutti dovrebbero voler conservare nella mente, negli occhi, nel cuore. Un libro a cui ritorniamo sempre, negli autunni dei nostri pensieri, per trarre consolazione.
Per ogni informazione sulle attività di Archivio Zeta si rinvia al sito: https://www.archiviozeta.eu/, da cui abbiamo tratto le foto qui sotto.
Sul luogo del nemico di Elena Pirazzoli
Percorrendo la statale che connette Bologna e Firenze, arrivati nel tratto appenninico nei pressi del passo della Futa, se si solleva lo sguardo si scorge, tra le cime degli alberi, una sorta di alta lama di pietra scura. Solo chi si sofferma ad approfondire scopre che si tratta dell'elemento apicale del Cimitero militare germanico,
ovvero il Soldatenfriedhof Futa Pass.
In questo luogo sono raccolte le spoglie di più di 30.000 soldati tedeschi caduti durante la Seconda guerra mondiale, prevalentemente durante i combattimenti avvenuti sulla Linea Gotica: sepolti provvisoriarnente in migliaia di luoghi attorno alle zone di battaglia, dopo il 1957, grazie alla ratifica di un accordo siglato tra Italia e Germania, furono traslati in alcuni cimiteri apposita-mente costruiti e curati dal Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge (VDK), un ente preposto alla cura delle tombe di guerra fondato nel 1919, all'indomani della conclusione della Grande guerra.
Il Soldatenfriedhof Futa Pass non è quindi l'unico cimitero militare tedesco sul suolo italiano, tuttavia possiede una sua unicità, che non è data solo dall'aspetto quantitativo - è quello con il maggior numero di sepolture - ma anche dalle scelte estetico-formali sottese alla sua realizzazione.
La spirale nel paesaggio disegnata dall'architetto Dieter Oesterlen nel 1959 e costruita - faticosamente per via delle difficili condizioni del terreno - durante tutto l'arco degli anni Sessanta, rappresenta una cesura netta rispetto alle forme conferite al lutto
di guerra prima di quel momento. Dagli Heldenhaine - i «boschi degli eroi» - dei primi anni Venti si passò, negli armi Trenta, a realizzare Totenburgen, «fortezze per i morti», in cui la morte in battaglia assume il significato di sacrificio per la patria, quell'Heimat che in tedesco prende una sfumatura più intima, profonda e pesante. Fu in particolare il nazismo a utilizzare questa forma, in cui si fondono sacralità, mistica e potenza. Dopo il 1945 tutto deve cambiare, le forme abusate dal nazismo e dal fascismo sono messe da parte.
Quale monumento può raccogliere ed esprimere il dolore per le vittime? Il primo memoriale per cui viene bandito un concorso è quello per le Fosse Ardeatine, subito dopo la liberazione di Roma del giugno 1944: l'esito non fu un monumento ieratico e centralizzante, ma un percorso sul luogo stesso dell'eccidio, culminante in una cripta costituita da un'immensa lastra tombale posata sulle sepolture delle vittime, deposte nel terreno accanto a dove furono uccise.
Se è difficile trovare una forma per il lutto e la memoria delle
vittime civili, lo è certamente ancora di più per il lutto e la memoria di soldati caduti, da nemici, sul territorio avversario, e qui sepolti.
Il Cimitero militare germanico della Futa venne inaugurato il 28 giugno 1969, sotto gelide raffiche di pioggia. Al clima aspro del passo si accompagnava anche un clima di tensione da parte della popolazione locale, come ricordano alcuni abitanti di Firenzuola, allora ragazzini. Ma di fronte alle madri in lutto, che dopo ventiquattro anni vedevano la tomba dei loro figli, la contestazione divenne silenzio. Un silenzio, quello italiano, che ha avvolto questo luogo per decenni. Ma anche un silenzio tedesco, in cui i caduti potevano infine «riposare»: il verbo ruhen una. delle poche parole, oltre ai nomi e alle date di nascita e di morte dei soldati,
che si possono leggere nel Soldatenfriedhof Futa Pass. Silenzio per il difficile lutto tedesco.
Sono salita la prima volta al Cimitero militare germanico nell'estate 2005. L'occasione era, grazie all'invito di un'amica, uno spettacolo teatrale: Sette contro tebe di Eschilo. Pochi mesi prima avevo concluso una ricerca dì dottorato dedicata alla trasformazione dei monumenti nella seconda metà del Novecento, alla crisi formale seguita alla fine del secondo conflitto mondiale e generata dalla qualità stessa dei crimini accaduti durante quella guerra. Al partire da ciò che resta: questa sembrava l'unica possibilità rimasta alle discipline del progetto, interpretata e declinata in diverse modalità da architetti e artisti.
Al passo della Futa mi trovai all'interno di una rappresentazione teatrale che, con la capacità di contrarre il tempo che solo le tragedie antiche hanno, mostrava la lunga durata delle questioni cruciali per l'umanità, quelle che prescindono le ere storiche rimandando al profondo, all'archetipico. La compagnia che metteva in scena Eschilo era Archivio Zeta, che già da due anni aveva scelto quel luogo come teatro: come scenografia, spazio scenico, palco e platea. La guerra tra Eteocle e Polinice, la guerra civile la guerra fratricida, veniva ambientata in un camposanto di soldati.
In un teatro di Marte.
Da allora, più volte sono tornata al Cimitero militare germanico della Futa per vedere le rappresentazioni messe in scena da Archivio Zeta ogni estate. Dopo Tebe, quella spirale nel paesaggio è diventata ai miei occhi il labirinto del Minotauro, le trincee e i bunker della. Grande pena, il castello di Macbeth attaccato dalla foresta che si muove. E allo stesso tempo è sempre rimasto il cimitero con i suoi campi di sepolture, la cripta dal soffitto basso e i tagli di luce, il famedio mosaicato e la vela di pietra protesa verso il cielo. La forma del Soldatenfriedhof Futa Pass è sempre la stessa ed sempre cangiante.
Confino senza confini di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni.
(...) Nel 2002 abitavamo in montagna, vicino al passo della Futa, da poco più di un anno, Avevamo imparato a scaldarci con la legna. Avevamo fatto in tempo a vedere il crollo delle torri gemelle. Stavamo lavorando con Elie Wies, le sue parole e i suoi silenzi: la Shoah era diventata un controcampo da cui osservare l'innominabile attuale, un solfeggio che ci stava insegnando una nuova postura. Eravamo volati fino a Boston per ascoltare e inquadrare questo anziano testimone che mentre leggeva pregava e poi avevamo percorso la vecchia Europa, in inverno, tracciando una topografia del terrore.
Deve essere stato con questo spirito che siamo entrati per la prima volta nel cimitero. Ci siamo guardati intorno. C'era vento. Non abbiamo avuto dubbi. Abbiamo pensato Eschilo. Abbiamo detto I Persiani. Così è iniziato tutto. La tragedia più antica, l'unica ad argomento storico, un esercizio di smontaggio delle identità: i nemici, i vinti, gli altri, noi. È stato fulmineo. Non ci siamo fatti troppe domande. Ci siamo trovati a dire Eschilo a voce alta sul fiume per vedere se reggeva al vento, alla corrente. Poi tutto ha iniziato a prendere corpo. Abbiamo messo annunci per formare il Coro dei vecchi persiani, si è unito il Coro delle donne, abbiamo provato tutto l'inverno nella Biblioteca di Firenzuola. Mappe alla mano: i luoghi Eschilo coincidevano più o meno con la guerra che in quell'inizio del 2003 si stava scatenando in Iraq.
E noi, con quella gente d'Appennino che non aveva mai nemmeno sentito nominare Eschilo, iniziammo questo apprendistato di respiri e pause, di gesti e di geometrie. Fu una folgorazione, silenziosa e solitaria. Un confino senza confini. Alcuni di loro divennero compagni inseparabili e insostituibili. E coli il lungo viaggio ebbe inizio: siamo stati a Susa, a Ecbatana, a Tebe, ad Argo, ad Atene, a Delfi con (quasi tutto) Eschilo e Sofocle, a Troia con Omero, a Vienna e nelle trincee con Kraus, nell'Italia del dopoguerra. con Pasolini e Pavese, ad Inverness e Dunsinane con Shakespeare, a Cnosso con Cortazar, nel Mediterraneo con Antigone nel Nacht und Nebel della storia, nel sottosuolo, in Russia, a San Pietrobugo e a Siviglia con Dostoevskij. Non ci siamo mai mossi eppure abbiamo attraversato tutti i tempi e tutti gli spazi. Questo teatro di Marte par excellence si è fatto fortezza, santuario, palazzo, camposanto, bosco sacro, campo di battaglia, scuola, labirinto. Un corredo multiforme di idee, immagini, poesia, filosofia, pensiero in azione. Un teatro di resistenza in montagna, nel cimitero dei nemici. Come stiliti ci siamo messi in quest'architettura e in questo paesaggio a provare e, anno dopo anno, sono cambiati nostro sguardo, i gesti, il respiro, il ritmo, il nostro modo di pensare; ci siamo dovuti accordare agli elementi delta natura, il tanto e più verde, le linee, i trecentosessanta gradi a perdita d'occhio, i rumori in lontananza. Abbiamo vissuto a lungo tra queste tombe, abbiamo abitato il cimitero e ne abbiamo fatto il nostro parlatorio dell'Europa, come direbbe sempre Karl Kraus.
Un anno tra gli spettatori c'era Enrico Picri, uno dei soprawissuti alla strage di Santenna di Stazzema. Alla fine dello spettacolo, con le lacrime agli occhi e guardando l'orizzonte, ci disse: ora ho capito, dopo aver visto il vostro lavoro in questo luogo, ho capito che cos'è l'Europa.
Siamo qui ad alta quota: è una vetta da cui sorvolare lo scibile e riflettere, riflettere ancora e continuamente interrogarci, porci domande scomode, mandare in crisi il nostro essere animali politici. Il teatro è arte politica, della polis, perché non si fa da soli, deve essere trasportato nel mondo delle relazioni. Si è generato un rito civile e culturale, un pellegrinaggio di cittadinanza, di responsabilità. Un lavoro che nasce dall'ostinata cura delle parole e dello sguardo, come questo libro di pietra ('Teatro di marte') testimonia.