Sorelle.
Due donne condividono lo stesso spazio e lo stesso buio stellato. Sono sorelle.
Simili, eppure diverse e distanti, come solo due sorelle possono essere. Nei corpi e in certi piccoli gesti, che interrompono l’immobilità iniziale, le due sorelle portano la stanchezza di un tempo che ha fatto fatica a scorrere. I pochi lampi di luce sui loro volti arrivano dal ricordo di azioni semplici, come il «tagliare lardo e pane», che una delle due riassapora con nostalgia mentre pronuncia queste parole. Il filo spinoso dei ricordi prende rapido il sopravvento e tra silenzi e grida avvolge le menti delle sorelle. In una di loro si affaccia la visione dell’uniforme di un fratello. Il cuore si arresta.
Le sorelle del prologo di Fratelli, qual doglia incombe sulla mia città?, allestito in prima nazionale nello spazio all’aperto tra le mura di Rocca Tiepolo (Porto San Giorgio), sono le due sorelle nella Berlino dell’aprile 1945 che, tornando a casa dopo aver trascorso la notte in un rifugio antiaereo, trovano la porta socchiusa e sul tavolo un pezzo di pane e lardo, e lo zaino militare del fratello che è in guerra. La casa, però, è vuota. Queste sorelle del prologo attualizzante dell’Antigone di Bertolt Brecht (1948, nell'immagine sopra) sono intimamente felici, pensano che finalmente il fratello sia tornato da loro con un regalo, mangiano avidamente, ma tacciono sotto choc: nel silenzio echeggiano grida di aiuto, che vengono da dietro la porta.
Una delle sorelle vorrebbe affacciarsi sulla soglia per vedere, ma l’altra glielo impedisce, perché ‘chi vuol vedere è visto’. Quando però una ha ormai deciso di uscire, armata con un coltello, fa irruzione un soldato delle SS e chiede alle donne con arroganza se conoscono il disertore che è stato appena impiccato là fuori, catturato davanti alla loro casa. Se ammettessero che si tratta del fratello, anche loro verrebbero probabilmente giustiziate. Le due donne si trovano così davanti a un’alternativa terribile: disconoscere il fratello, far finta di non sapere chi sia l’impiccato o correre fuori, per abbracciarlo, magari per tagliare la corda e salvarlo, se non è ancora soffocato. Il prologo finisce così, in questo stato di incertezza. Brecht (e con lui Edoardo Ripani, regista di Fratelli) lascia a noi spettatori il compito di interrogare la nostra coscienza: cosa avremmo fatto noi, se quello fosse stato nostro fratello?
Tebe e un’altra Tebe.
C’è una città di mare nel sud delle Marche, con una riviera fitta di palme, un porto, una squadra di calcio, croce e delizia di tifosi scatenati: San Benedetto del Tronto.
Nei mitici anni Settanta, il lido risuonava delle canzoni di Patty Pravo, Aznavour e di altre stelle che si esibivano nella leggendaria Palazzina Azzurra. Negli stessi anni, i muri dei palazzi lasciavano spazio al disegno di asimmetriche stelle a cinque punte inscritte in un cerchio. Un simbolo che in città si legava ai nomi di due fratelli: Patrizio Peci, una delle colonne portanti delle BR, e Roberto, ucciso dall’ala dell’organizzazione terroristica di Giovanni Senzani, e indirettamente da Patrizio, che aveva tradito le BR, rilasciando dal carcere dichiarazioni che ne permisero lo smantellamento.
La tragica storia dei fratelli Peci si iscrive nel dolore rosso sangue che avvolse l’Italia degli anni di piombo. Di questa storia fanno parte anche due sorelle, Ida ed Eleonora Peci che, con modalità e sensibilità diverse, hanno lottato per un fratello similmente ai modelli mitici Antigone e Ismene, e una comunità.
Da tutto questo è partito il regista e attore sambenedettese Edoardo Ripani che ha colto, nel dramma di queste relazioni familiari e di una città, nella lotta per il potere e dei poteri, nella vendetta, alcuni archetipi tragici greci. Nel costruire la drammaturgia di Fratelli, Ripani li ha ripensati e contaminati con la storia, nazionale e la sua personale.
Lo spettacolo si muove così fra le acque perigliose di una città di mare e le mura mortifere di Tebe, fra i destini di due fratelli e la tragica battaglia di due sorelle, fra il coro dei Sette contro Tebe, consapevole del «mare di sciagure» che «gonfia le onde» (v. 758) e minaccia catastrofe per la città, e il coro delle donne sambenedettesi, testimoni, cinquant’anni fa, di un mare simile a quello metaforico tebano.
Nel dramma di Eschilo e nella Tebaide di Stazio – altra fonte di Fratelli –, Tebe è coprotagonista; la stessa funzione viene data a San Benedetto le cui mura, negli anni della lotta armata, si tingono di rosso e le cui strade diventano preda di avvoltoi.
Corpi richiesti, corpi negati.
Appena la scena di Fratelli si svuota delle ombre del mito (le sorelle interpretate da talentuose attrici non professioniste, due donne di San Benedetto del Tronto), lo spazio viene occupato, soprattutto, dai fantasmi della storia. Il loro interprete unico è Ripani che sul palco diventa Patrizio, Roberto e il narratore.
Quest’ultimo ruolo è particolarmente complesso perché gestisce i molteplici registri e toni di una narrazione in cui convivono rigorose ricostruzioni storiche, cronachistiche, ricordi personali, in cui si aprono imprevisti, ma efficaci, squarci di ironia, e si affacciano con pudore personaggi solo all’apparenza secondari, come Roberta Peci, la figlia di Roberto.
L’inizio della storia di Fratelli ha per sfondo sciagurato il mare. Nell’antivigilia di Natale del 1970, nelle acque davanti alla foce del fiume Tronto, affonda il motopeschereccio Rodi (nell'immagine sopra). Questa tragedia sconvolse San Benedetto: le persone a bordo erano quasi tutti marinai del posto, giovanissimi. Scoppiò un’infuocata rivolta popolare per il recupero, negato dall’armatore, dei corpi senza vita dispersi nelle acque. Al coro dei cittadini in tumulto si era unito un giovanissimo Patrizio Peci. I corpi vennero recuperati quasi tutti: quattro restarono nel mare, senza sepoltura. È uno degli eventi spartiacque nella vita di Patrizio Peci.
Fratelli.
Sul muro dell’austera Rocca medievale, trasformato in scabro muro di fondo della scena, sono appesi abiti maschili. Diversi, come diversi erano Patrizio e Roberto. Ripani veste concretamente i panni dell’uno (una giacca simile a quella indossata in certe udienze in tribunale e nelle interviste a Enzo Biagi e Sergio Zavoli), poi dell’altro (la camicia a scacchi della prigionia e della morte). Questo doppio gesto porta una doppia mimesi che, per chi ha memoria dei fratelli Peci, è pregevole per cura nelle intonazioni di voce, negli sguardi, nei movimenti di testa e mani, per minuziosità fin nelle sfumature, sempre attenta a non cadere nel tranello di una sterile imitazione.
Due vite, che hanno segnato dolorosamente una cronaca familiare e insanguinato la storia di una città e di una nazione, vengono portate così nello spazio della finzione. Al pubblico si chiede di ascoltare e comprendere il tragico intreccio dei caratteri e dei ruoli di Patrizio e Roberto, quanto fossero diversi e quanto diversi erano destinati a essere i loro giorni. Sullo sfondo di questa insanabile lontananza, Ripani lascia però intravedere tracce del comune legame familiare, della condivisione di una quotidianità semplice, forse monotona, un mondo in controluce che accentua ancora di più la tragedia familiare.
Roberto, affascinato dal fratello maggiore, è toccato da certe idee di rivoluzione armata incarnate da Patrizio. Dopo il naufragio del Rodi, Patrizio aveva dato vita ai PAIL (Proletari Armati In Lotta) e poi era entrato in modo organico nella galassia dominata dalla stella armata di cinque punte (fonda il gruppo delle BR a San Benedetto). Lascia la sua città per Milano, Torino, per il «mestiere» del terrorista e del latitante, fino all’arresto: un altro giro radicale del destino.
Destino.
Nei miti della tragedia greca il destino ha sempre un ruolo decisivo, perciò Ripani dissemina drammaturgia, recitazione, spazio scenico di segni del destino. Hanno questa funzione le due sedie messe sul palco all’estremità di una pista per il gioco delle biglie. Le sedie unite dal solco di sabbia rappresentano due destini uniti da una linea fragile, che ha in sé i profumi condivisi e la spensieratezza del mare dell’infanzia, ma che è anche aperta verso due finali fatalmente lontani. Giocando, la biglia può uscire fuori dal percorso.
È quello che fa accadere in scena Ripani. E se la biglia che scorre e devia dalla pista è metafora della vita, in Fratelli la metafora riguarda Patrizio e Roberto, e la loro città. Se il destino vuole che qualcuno fermi il deragliare della biglia, afferrandola o mettendole sopra un piede – come fa Ripani –, la biglia allora è fuori gioco. A un tratto, il procedere delle vite di Patrizio e Roberto viene fermato, da scelte personali e dal destino. Un’esistenza prenderà un percorso nuovo, amaro e ‘infame’, l’altra non sarà più. Lo scivolare di queste vite nel buio della lotta armata e il loro differente arresto ha trascinato come onde di un mare in tempesta i destini di altre vite, di una città, di una nazione.
«L’infame».
Nel febbraio del 1980, Peci viene arrestato a Torino. Il silenzio della galera è greve, la solitudine è popolata di ombre e vite negate, il pensiero della scelta della logica dell’annientamento eretto a sistema non dà tregua. Annientamento. Poco più di un anno dopo le rivelazioni di Patrizio al generale Dalla Chiesa, questa parola, scritta sulla bandiera della prigionia del fratello, preludio alla sua fine, si bagnerà di sangue. La morte di Roberto nasce dal velo rosso della lotta armata squarciato da Patrizio con la denuncia di nomi, luoghi, strategie, obiettivi delle BR. Peci parla alle forze dell’ordine e ai magistrati da pentito. Per i suoi ex compagni parla da traditore, da «infame».
La morte fa spettacolo.
Negli anni Ottanta è forte la necessità di liberarsi del peso degli anni di piombo. Incalza il desiderio di correre incontro al nuovo boom economico, di costruire una nuova società la cui ridefinizione è segnata dal crescente affermarsi delle TV commerciali e da un’euforia, in parte tossica, ma di cui allora si aveva disperato bisogno. La San Benedetto dei primi anni Ottanta non è immune da tutto questo ma, più di altre città italiane, non è affatto libera dalla scia di morte provocata dalla lotta armata. Nel 1981, il 10 giugno, Patrizio Peci viene sequestrato dal commando terroristico legato a Giovanni Senzani. Da San Benedetto viene portato a Roma.
Se nella tragedia greca la morte violenta non si mostra in scena ma si racconta, nella tragedia di Roberto il suo assassinio è esibito in uno spettacolo firmato da macabri scenografi e drammaturghi e guidato da una sadica regia. La morte fa spettacolo; quella di Patrizio è per il ‘regista’ Giovanni Senzani un «tributo alla società dello spettacolo». Il suo processo è il primo mediatico in Italia: sul banco degli imputati ci sono i fratelli Peci, sul banco dell’accusa gli uomini del commando, voci del tribunale del popolo. In Fratelli, Ripani sceglie di ripercorrere con la narrazione, dunque riprendendo il modo tragico greco, il rabbrividente set allestito per il «processo proletario» con imputato unico, dove spicca una soffocante tenda in cui è chiuso l’imputato, tenda che fa pensare a una macabra versione della skene delle origini del teatro. L’attore unico Roberto viene costretto ad apparire su una scena drammaticamente reale, per rispondere a domande incalzanti, il cui ritmo usato da Ripani echeggia quello di certi dialoghi della tragedia greca. Con l’occhio di una camera che lo riprende spietatamente, «il traditore» Roberto è costretto a confessare colpe e tradimenti ai cittadini di uno Stato da abbattere, a far intendere che il pentimento di Patrizio rientrava in un piano dello Stato per demolire l’immagine delle BR, è obbligato a dire verità prese da un copione scritto da altri.
Anche se per questa parte del suo spettacolo Ripani non ricorre a video della prigionia del terrore, in parte recuperabili in rete, il pubblico coglie appieno la mostruosità dell’uso terroristico dei mezzi di comunicazione che, sappiamo bene, non si è fermata al 1981. Sarebbe utile però, pensando soprattutto agli spettatori più giovani, inserire qualche frammento di quel «film dell’orrore sulle note dell’Internazionale», con «le immagini sgranate, l’inquadratura tremante, le voci piatte dei brigatisti e quella spaventata dell’imputato» (Mario Di Vito). Detto questo, i frammenti del processo in Fratelli sono tra i momenti più intensi dello spettacolo. Il punto più alto è la lettura delle lettere che si scambiarono i fratelli Peci, in cui Ripani fa sentire bene tutti i contrastanti colori di una dolente fratellanza e l’imminenza dell’ultimo atto.
Nell’alba rossa.
Il giovane corpo di un fratello, sfigurato da una raffica di colpi, giace abbandonato sotto il cielo di Roma, tra le rovine e i rifiuti della periferia. È il 3 agosto 1981, all’alba. Un’alba tinta di rosso come quella mitica del corpo senza vita e insepolto del giovane Polinice, all’inizio di Antigone.
L’annientamento di quella vita rispondeva all’affermazione apodittica, scritta in una «risoluzione strategica» delle BR di Senzani: «l’annientamento è l’unico rapporto possibile che intercorre fra proletariato marginale e traditori». L’epitaffio alle spalle di Roberto Peci massacrato fissa questa strategia con una foto, «un documento» consegnato dalle BR «alla Storia» (Christian Uva).
Il coro.
In Fratelli, il controcanto al dolore che trascina tutto, ai gesti e alle parole che grondano sangue e ricadono su uomini e città del mito e della storia è tutto sulle spalle delle donne del coro, strette nel nero degli abiti del lutto.
Il coro, moltiplicatore di voci, unisce sensatamente la tragedia di Eteocle, Polinice, Tebe e la tragedia di Patrizio, Roberto, di San Benedetto; sintetizza con icasticità il progetto delle BR e, con questo, il racconto serve, per chi ha vissuto quegli anni, a ricordare, per chi non c’era ancora, a conoscere o conoscere meglio. Il coro di Fratelli ha trovato un’interessante cifra drammaturgica e recitativa, in cui si incontrano stilemi neorealistici, soprattutto nei passaggi più legati alla vicenda dei fratelli Peci, e tratti ispirati a quella arcaicità del dolore propria dei pianti rituali, patrimonio di tante culture mediterranee.
In senso più tecnico: questo coro controlla in modo convincente l’unisono e il dialogo fra semicori, i passaggi di intonazione del parlato e i cambi di ritmo, dando valore in particolare ai ritmi spezzati per il dolore. Padroneggia lo scandire secco di parole che fissano la fine di un capitolo tragico della storia e ne aprono un altro, come ad esempio «infame, carogna, boia, bastardo», nomi e aggettivi riferiti a Patrizio e a una data, quella della dissociazione dalle BR, del pentimento e delle sue conseguenze.
Tra il tempo del mito e della storia, il coro narra di una «guerra scellerata» che ha travolto due fratelli e due città.
Nella linea di fuoco.
Il solco, che simile a un grembo rassicurante aveva accolto all’inizio dello spettacolo lo scorrere delle biglie, delimita uno spazio sempre più drammatico. Dopo l’assassinio di Roberto, Ripani trasforma la pista di sabbia in un canale di fuoco: il fuoco della lotta armata, quello di una sofferenza che brucia ancora in certe memorie della città di San Benedetto (e d’Italia); le fiamme che avvolgono il senso di colpa perché la vita di un fratello trascina il peso della morte dell’altro, le fiamme che cancellano un’identità per farne nascere una nuova, ma che difficilmente possono ridurre in cenere il peso inestinguibile di vite spezzate.
La domenica delle salme di De Andrè accompagna il crepitio delle fiamme. Il coro, diviso in due, si ricompone dietro la linea di fuoco in un corpo unico. Divisa era la fiamma del rogo dove, in alcune versioni del mito (nella Tebais di Stazio e Pharsalia di Lucano), sarebbero arsi i corpi di Eteocle e Polinice: una fiamma divisa per alludere a un odio incancellabile e durevole oltre la morte.
Ripani, nei panni di un laico e contemporaneo deus ex machina, compie un gesto catartico: nelle fiamme e nel tratto di storia che portano dentro, fa bruciare insieme due lettere, le ultime parole fra i due fratelli.
Fratelli, qual doglia incombe sulla mia città? sarà in scena il 25 settembre 2021 al GC De Kriekelaar di Bruxelles e tornerà in Italia in ottobre.
La prima foto è tratta dall'Antigonemodell di Bertolt Brecht (foto di Ruth Berlau). La seconda foto è del litorale di San Benedetto del Tronto nel 1976 (@SanteCastignani). La terza foto è una cartolina degli anni '60 con la Palazzina Azzurra di San Benedetto. La quarta foto è della Rocca Tiepolo, @Gianluca Petrini: https://www.pinterest.it/pin/739786676266179975/. La quinta foto è tratta dalla rete e documenta il naufragio del Rodi (1970).
Seguono: notizia della cattura di Peci (repertorio, foto in rete); la foto della prigionia di Roberto Peci: https://ilmanifesto.it/roberto-peci-una-storia-di-provincia/; la casupola alle Capannelle, Roma, dove fu rinvenuto il corpo di Roberto Peci (@Corriere-Web-Roma)
Le foto di scena di Fratelli, qual doglia incombe sulla mia città? sono di Maria Baldovin.
In copertina: Patrizio Peci intervistato da Enzo Biagi (foto originariamente sul sito de 'L'Unità'): https://www.marchenews.it/2020/05/03/enzo-biagi-intervista-patrizio-peci/
La traduzione del v. 758 dei Sette contro Tebe di Eschilo è di Franco Ferrari, Eschilo. Persiani. Sette contro Tebe. Supplici, BUR, Milano 1987.