Il 24 e il 25 settembre 2022 la Compagnia ‘La Chambre Magique’ ha portato in scena l’Ippolito di Euripide presso il Chiostro ‘Cesare Croci’ del Conservatorio di Musica ‘Licinio Refice’ di Frosinone. Di Annalisa Di Piero i costumi, di Sergio Tirletti le acconciature e il trucco di scena, di Michele Suozzo la regia, mia la traduzione.
Al pubblico radiofonico Michele Suozzo è noto da una quarantina d’anni, almeno, per le molte trasmissioni di successo da lui ideate e condotte, dedicate, principalmente, alla musica e in particolare all’opera. Persino celebre ormai, non solo tra gli appassionati, ‘La Barcaccia’, che, in onda da quasi trentacinque anni, anche se, in origine, con titoli diversi da quello acquisito più tardi e tuttora vigente, ha rappresentato, e rappresenta ancora, con straordinaria vitalità, un tentativo di approccio al mondo dell’opera che potrebbe dirsi persino scanzonato, se non proprio irriverente, se non fosse per la conoscenza profonda della materia che Suozzo, insieme a Enrico Stinchelli, suo compagno di avventura, dispiegano, quanto si voglia tra le righe e col sorriso, di puntata in puntata.
Suozzo, che ha insegnato storia della musica in molti conservatori italiani, è adesso docente presso il Conservatorio ‘Licinio Refice’ di Frosinone, che ha ospitato, come ricordavo in apertura, la messinscena di Ippolito della quale qui si tratta. Ma Suozzo, oltre che autore radiofonico di successo e storico della musica, è da tempo anche regista militante. Numerosi i teatri che, a partire dal 2004, hanno ospitato suoi allestimenti registici: a Roma il Teatro Francese del Centro San Luigi di Francia, il Teatro dei Conciatori, il Teatro di Villa Torlonia, i Giardini della Filarmonica, il Teatro Palladium; a Milano, il Teatro Out off. E poi la Chiesa di San Giovanni dei Genovesi a Roma e Palazzo Pisan a Venezia. Non meno folto il regesto degli autori messi in scena da Suozzo: Voltaire, Racine, Goldoni, Molière, Sartre, Nijinsky, Ovidio, Poe, D'Annunzio, Pasolini, Gozzi, Wilde, Satie, Euripide.
Fu Michele, nel 2019, a contattarmi per chiedermi di tradurre Ippolito per la regia che progettava di allestire. Per me, che conosco Michele da una quarantina d’anni, fu una splendida occasione per riannodare un rapporto che negli anni si era allentato. Dopo avermi affidato il lavoro di traduzione alle sezioni recitate della tragedia, Michele mi chiese di lavorare a quattro mani alle parti corali: il che facemmo nel corso di una serie di pomeriggi caldissimi del luglio 2019, con molto divertimento e altrettanto piacere. Quando il progetto era ormai giunto a un buon punto di elaborazione, lo scoppio della pandemia giunse a interromperlo. Ripresa in mano all’inizio della scorsa estate, la traduzione è giunta rapidamente in porto: in tempo per le recite di fine settembre. Pochissimi i tagli: le due rappresentazioni hanno così portato al pubblico la tragedia nella sua interezza, salvi, appunto, dettagli minimi, omessi per non appesantire oltre misura lo spettacolo, anche in termini di durata temporale.
Tra i tratti distintivi del progetto immaginato da Michele spicca senza dubbio l’idea di affidare le sezioni corali della tragedia a un terzetto di soprani: Michela Becciu, Giorgia Bruno, Daniela Rotondi. La forte riduzione del numero delle coreute rispetto all’assetto originario, insieme alla scelta di disporre le cantanti davanti a leggii, obliterando del tutto la dimensione orchestica, pur sacrificando in misura non trascurabile la verisimiglianza filologica della restituzione, ha però garantito alle parole del coro un grado di riconoscibilità che la resa cantata e l’accompagnamento musicale non hanno in alcun modo compromesso. Le musiche di accompagnamento ai cori sono state appositamente composte da allievi dei corsi di composizione del Conservatorio: della Classe di Composizione di Luca Salvadori, per la precisione. L’accompagnamento musicale è stato fornito, di nuovo, da allievi del conservatorio: un piccolo ensemble, costituito da strumenti a fiato e da un violoncello, coordinato da Rodolfo La Banca.
La trasparente semplicità delle linee di canto e dell’accompagnamento, memore, forse, delle partiture composte per Siracusa da alcuni dei protagonisti del Novecento storico italiano, ha contribuito in modo decisivo alla scabra essenzialità dello spettacolo. Per quanto io non abbia avuto parte attiva nell’allestimento di questo Ippolito, le cui linee portanti ho dunque scoperto, per ciò attiene alla messinscena, assistendo alla rappresentazione (quella di sabato 24 settembre, per la precisione), la regia di Suozzo mi è parsa perfettamente in linea con quanto avevo cercato di rendere, della tragedia, traducendola in italiano.
Se il teatro di ricerca in questi ultimi decenni ha saputo offrire letture spesso illuminanti del patrimonio tragico greco, persiste tuttavia, nelle messinscene di tragedie, il cattivo costume di inquadrare le rese all’interno di cornici che insistono fin troppo spesso sul versante dell’enfasi, sacrificando al pathos generico del grido, e dunque all’effetto, quasi ogni altra componente dello spettacolo, prime tra tutte, inevitabilmente, le partiture verbali. La regia di Suozzo, nella sua persino austera, severa compostezza, mi è parsa invece capace di garantire al lavoro degli attori e delle attrici uno scenario quanto mai adatto a fare emergere ciò che davvero conta, nei nostri tragici, e più che mai in Euripide: la parola, il ragionamento, tanto nelle grandi tirate monologiche quanto nei confronti dialogici, che nell’Ippolito hanno un’importanza tutta particolare. E che quasi ogni sillaba riuscisse comprensibile, persino, come si è detto, nella resa delle sezioni corali, è certo conseguenza, quanto mai benvenuta, ritemprante, anzi, del certosino lavoro di preparazione, tanto intelligente quanto, appunto, pignolo, che il regista ha svolto con i membri della sua compagnia. Chi conosce Suozzo sa bene, d’altronde, quanto egli consideri decisiva, nei cantanti d’opera, la sensibilità a una dizione chiara e distinta del dettato verbale. E certo non mi ha stupito il fatto di trovare, al mio arrivo a Frosinone, una sorta di piccolo programma di sala contenente, insieme ai dettagli relativi al cast, il testo delle parti corali, che il pubblico ha potuto così seguire parola dopo parola: un’idea, ottima, che non si spiegherebbe senza tenere in conto la diuturna consuetudine che il regista di questo Ippolito intrattiene da sempre con i libretti d’opera.
In linea con la regia le prestazioni di attori e attrici: tutti bravissimi nell’assecondare con sagace, accorta misura lo scavo sulla parola, nella parola, che Suozzo ha voluto mettere al centro della sua resa registica. E bravi, brave, anche, però, nel garantire presenza scenica, credibilità, forza espressiva. Così l’ottima Fedra di Maria Luisa Zaltron, l’Afrodite di Angelica Cacciapaglia, l’Ippolito di Luca Barreca. Ma bene anche il Teseo di Mauri Giosi e l’Artemide di Gledis Cinque. Una menzione speciale merita, infine, la nutrice di Rosa Maria Tavolucci: attrice consumata, perfetta, tanto nei lunghi, tesi dialoghi con Fedra quanto nel lungo monologo che segue, nella tragedia, alla celebre rhesis rivolta da Fedra alle donne di Trezene, nel restituire il tono di persuasiva, insinuante, paziente, complice intesa che la nutrice assume nei confronti della padrona per cercare una cura al suo male: finendo, come ognun sa, per perderla.
E infine, dal momento che non so ancora se darò mai alle stampe la traduzione che ho allestito per questo Ippolito, mi sia lecito qui, per chiudere, offrirne un breve saggio, la prima parte del confronto tra Fedra e la nutrice (Eur. Hipp. 176-266).
NUTRICE
O mali dei mortali, o malattie dannate! Che fare per te? E cosa non fare? Ecco per te la luce del sole, ecco l’azzurro del cielo. Il letto nel quale giaci malata ti è stato trasportato all’aria aperta, fuori della reggia. Eppure, sei sempre più scura in volto! Non facevi che dire ‘portatemi fuori!’. E adesso, tra un momento, vorrai tornare dentro. Cambi idea ogni momento, non c’è nulla che ti regali gioia: quel che hai non ti basta, quel che non hai vorresti averlo. Nessun dubbio: meglio essere malati che dover curare chi sta male: essere malati in fondo è semplice, mentre curare è cosa penosa per il cuore e faticosa per le braccia! La vita degli uomini, nessuno escluso, è fonte di dolore. E per il dolore non esiste tregua. Ci sarà certo qualcosa di meno ingrato di questa vita, ma chi lo sa dov’è? Tenebra di nubi l’avvolge e la nasconde. E così, ci innamoriamo di ciò che risplende su questa terra, qualunque cosa sia, solo perché non sappiamo nulla di altre forme di esistenza, e siamo a un tempo ignari delle cose dell’aldilà, presi dalle chiacchiere vane che se ne dicono.
FEDRA
Sollevatemi! Reggetemi la testa!
Le membra sono così deboli che non mi reggo.
Prendetemi per le braccia, ancelle!
Le mie braccia belle...
Mi è grave questo velo che mi copre il capo:
toglietemelo, scioglietemi i capelli sulle spalle!
NUTRICE
Coraggio, figlia mia! Girarti e rigirarti ti fa male!
Sopporterai meglio il tuo male se troverai pace.
Sii forte! Ai mortali tocca in sorte soffrire.
FEDRA
Ahimè! Come vorrei bere
acqua fresca di fonte,
pura, limpida rugiada!
E all’ombra dei pioppi,
distesa su un prato erboso,
cercare sollievo alle pene!
Ma come, come?
NUTRICE
Che vai dicendo, figlia mia?
Non vorrai parlare così tra gente che ti ascolta!
Sei in preda alla follia! Questo dicono le tue parole.
FEDRA
Conducetemi a un monte:
voglio le selve, i pini,
dove cagne da caccia
incalzano cerve screziate.
NUTRICE
Figlia mia, perché deliri così?
Che ti importa della caccia?
Perché desideri acque di fonte?
Dappresso al palazzo c’è un clivo:
da lì sgorgano acque perenni,
lì potrai trovare ristoro alla sete.
FEDRA
Artemide, signora di Limna sul mare,
signora dei ginnasi che risuonano
del frastuono dei cavalli:
come vorrei essere nelle tue piane,
come vorrei domare le venete cavalle!
NUTRICE
Sei folle! Che parole ti lasci sfuggire?
Per capirle ci vorrebbe l’arte di molti indovini:
qual dio, figlia mia, ti stravolge la mente?
FEDRA
Me infelice, che ho fatto mai?
Che fine ha fatto il mio senno?
Sono impazzita: un dio mi ha accecato.
Povera me! Povera me!
Balia, torna a nascondermi il capo,
provo vergogna delle cose che ho detto.
NUTRICE
Ecco, ti copro. Ma a me, la morte, quando mi ricoprirà?
La molta vita che ho vissuto molto mi ha insegnato.
Bisognerebbe che i mortali si unissero con misura in amicizia,
senza giungere al midollo dell’anima,
e che gli affetti del cuore fossero facili a sciogliersi:
facili da respingere, facili da stringere.
Ma che un’anima sola debba soffrire per due,
come capita a me con lei, è peso ben grave.
Le foto sono di Michele Napolitano