La fermata del metrò è Loreto. Da qui, percorrendo circa duecento metri nella storica via Padova, ora nodo multiculturale di Milano, si arriva in una palestra di pugilato che fa subito venire in mente volti, corpi e atmosfere di Rocco e i suoi fratelli, le tragedie di un’immigrazione diversa da quella di oggi, la Milano delle periferie struggenti e dolorose di Giovanni Testori. Il nome di questa palestra è anacronistico: Heracles Symposium, un ‘ginnasio’ in senso greco, un omaggio alla cultura come educazione del corpo che non è mai disgiunta da quella della mente. Palestra, ampio spazio culturale, meritevole biblioteca aperta al quartiere.
La vicinanza di questo luogo con piazzale Loreto e l’intreccio di nazionalità e lingue diverse sono stata l’adatta cornice per La verità è un intreccio di voci. 10 domande di Gitta Sereny , spettacolo a due voci più un coro, portato in scena con il patrocinio del Goethe Institut di Milano. Rosario Tedesco e Pasquale di Filippo leggono stralci da un libro terribile e al contempo asciutto, In quelle tenebre, della giornalista inglese ebrea Gitta Sereny (1921-2012), che tra l’altro assistette al processo di Norimberga ai criminali nazisti. Il libro dà conto di oltre sessanta ore di colloquio con Franz Stangl (sotto in una foto del 1942 con le figlie), comandante dei campi di sterminio di Sobibór e Treblinka, e prima ancora coinvolto nell’operazione di eugenetica nazista che mirava a eliminare, con il tacito consenso persino della chiesa cattolica, disabili e chiunque fosse ritenuto poco intelligente o inutile alla società pura progettata dall’ideologia totalitaria.
Il libro-inchiesta della Sereny, chiaramente ispirato al celeberrimo reportage di Hannah Arendt sul processo Eichmann, noto col titolo La banalità del male, trae il titolo da una «frase significativa» del vescovo e teologo Johannes Baptist Neuhäusler, che dal 1941 sino alla liberazione fu internato a Dachau: «cercai di far luce in quelle tenebre inviando, intorno al 1939, un sacerdote nei due luoghi in cui si sospettava venisse praticata l'eutanasia, Grafeneck e Hartheim, ma invano. Nessuno in queste città sapeva nulla o osò dir nulla. Fu soltanto quando autobus carichi di pazienti vennero portati via nottetempo dagli ospedali e dai manicomi nel 1940 che si ebbe motivo di protestare», dichiara Neuhäusler a Gitta Sereny, la quale tesse una fitta trama di inchieste attorno alle domande che pone a Franz Stangl, intervistando altri testimoni, altri corresponsabili, la moglie di Stangl.
Nei confronti di quest’ultimo, la giornalista assume lo stesso atteggiamento di Arendt di fronte a Eichmann: talora di meraviglia, di stupore, non tanto perché quell’uomo, responsabile dell’eccidio di almeno 900 mila persone, continua banalmente a ripetere di aver solo obbedito agli ordini, ma per l’aura di rispetto e attenzione di cui continua a godere anche in prigione, anche da parte dei secondini, per quel suo tono calmo, preciso, burocratico con cui risponde alle domande, fermandosi a pensare solo qualche secondo, senza mai irritarsi, senza mai pentirsi, senza mai perdere la pazienza. Per l’indifferenza con cui racconta di aver sempre cercato solo l’ordine, come quando riuscì a scoprire il furto di un orologio subito da un prigioniero e a punire il colpevole (come se i deportati non fossero derubati di ogni cosa, e della dignità e infine della loro stessa identità). Sempre ben vestito, sbarbato, un portamento eretto: a Treblinka si distingueva dagli altri perché si vestiva di bianco (vedi la foto sotto).
Per Stangl, valgono le stesse, più celebri, parole che Hannah Arendt scrisse a proposito di Eichmann: «Era come se … egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato — la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male».
Nella lettura di Tedesco e di Filippo, le domande di Gitta Sereny sono affidate a buste multicolore che vengono distribuite tra il pubblico. La voce di chi legge esita. Non per l’emozione o non solo per questa, ma perché è difficile pensare di porre domande così impegnative a uno dei responsabili di un genocidio: non ha mai pensato che tra quelle vittime ci sarebbero potute essere sua madre oppure le sue figlie? La voce del pubblico esita, perché è difficile chiedere a un altro essere umano di dar conto della propria crudeltà, della propria disumanità. Perché la domanda ‘come può essere successo?’ (come può succedere ancora?) alla fine resta senza risposta, dato che la risposta sta nella natura umana, qualunque cosa si voglia intendere con quest’espressione, e nella sua parte oscura, buia, terribile.
Bravissimi Tedesco e di Filippo a lasciare all’intervista un tono cronachistico, quasi distaccato, a non tradire né orrore né disprezzo; di Filippo riesce anche a ricordare, già solo con il gesto di aggiustarsi gli occhiali sul naso, il protagonista della banalità del male, ossia l’Eichmann nella ‘gabbia’ di vetro del tribunale di Gerusalemme, le cui immagini aprirono una nuova epoca nel racconto della Shoah: aprirono cioè l’era del testimone, secondo il titolo del libro di Annette Wieviorka, un’era non immune, purtroppo, anche da mistificazioni e simulazioni. Mostrare gli orrori della Shoah, dopo un decennio di silenzio, diventò nei tardi anni Sessanta del Novecento uno spettacolo e anche un affare: potenza degli allora nuovi media e potenza anche di quel fascino estetico originato dall’orrore che vale sin dalla tragedia greca.
Eccellente, in La verità è un intreccio di voci, anche il coro ‘F. Gaffurio’ del Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, che intervalla come in un oratorio le letture e le domande di Tedesco, di Filippo e del pubblico, richiamando naturalmente alla memoria L’istruttoria di Peter Weiss (1965), il primo impressionante testo di teatro documentario che diede voce ai testimoni di Auschwitz.
Anche grazie all’accurata scelta di testi dal libro, che conta 519 pagine nell’edizione italiana Adelphi, nonché alla particolare bravura degli interpreti e alla drammaticità del tema, le quasi due ore di spettacolo trascorrono come se fosse un solo attimo; al termine, uscendo dall' Heracles Symposium, ci si ritrova un po’ storditi nella tiepida serata, ci si avvia pensierosi alla stazione del metrò passando davanti ai luccicanti ristoranti cinesi stracolmi di gente.
Se parliamo qui di La verità è un intreccio di voci non è solo per l’attenzione portata da questo blog alla tragedia per antonomasia del XX secolo, la Shoah, e per l’importanza etica dello spettacolo, né solo per segnalare l’ottimo lavoro degli interpreti e il meritevole lavoro sulla memoria che Tedesco compie a Milano insieme all’associazione culturale Tracce. Ne parliamo anche perché come introduzione allo spettacolo Rosario Tedesco ha evocato la tragedia greca: resoconti di questo tipo, ha detto, sono dello stesso genere dei discorsi (rheseis) dei messaggeri nella tragedia greca, che raccontano quel che in scena non può essere rappresentato. Senza il racconto dei messaggeri, la tragedia non ha luogo: il racconto fa appello all’immaginazione dello spettatore, crea tensione emotiva e rende l’azione cruenta ancora più violenta di quanto lo sarebbe se fosse rappresentata in scena, cosa che non accade mai nella tragedia greca. L’osservazione di Rosario Tedesco nasce dalla sua esperienza come interprete di tragedie greche, da ultimo sia nell’Edipo Re (https://www.visionideltragico.it/blog/contributi/edipo-sulle-scale-di-siracusa; https://www.visionideltragico.it/blog/contributi/vedere-o-non-vedere-scena-e-spazio-nell-edipo-re-di-robert-carsen-2; https://www.visionideltragico.it/blog/protagonisti/edipo-a-siracusa-conversazione-con-giuseppe-sartori) sia nell’Ifigenia in Tauride, con il ruolo di messaggero, (https://www.visionideltragico.it/blog/contributi/ifigenia-in-tauride-a-verona) della stagione INDA 2022.
E pone anche questioni su cui varrà la pena riflettere: innanzitutto la spettacolarità della memoria della Shoah, che inizia – lo abbiamo ricordato – in ambito giudiziario, processuale, ossia in un ambito affine all’aspetto agonistico della tragedia greca superstite nella quale quasi sempre si confrontano due posizioni tra loro inconciliabili.
Se rileggiamo La banalità del male di Arendt, sono evidenti le metafore tratte dal teatro e dalla tragedia e in particolare spicca l’uso della parola ‘eroe’ a proposito del ‘protagonista’ di tutto il processo messo in scena, ossia Eichmann. All’inizio del reportage leggiamo: «Un processo assomiglia a un dramma in quanto che dal principio alla fine si occupa del protagonista, non della vittima. Molto più di un processo ordinario, un processo spettacolare ha bisogno che si delimiti bene che cosa è stato commesso e come è stato commesso. Al centro di un processo ci può essere soltanto colui che ha compiuto una determinata azione (il quale sotto questo rispetto è per così dire l’“eroe”) e se egli deve soffrire, deve soffrire per ciò che ha fatto materialmente, non per le sofferenze che ha provocato agli altri». E infatti Peter Weiss trasformò in ‘oratorio’ le impressionanti testimonianze dei deportati al processo.
Ma vi sono altre considerazioni da fare: lo spazio materiale della tragedia greca è il teatro, ossia uno spazio pubblico, e dunque la tragedia greca è un’espressione artistica pubblica e politica. Come abbiamo imparato, anche attraverso la tragedia la comunità dei cittadini ateniesi si riconosceva in quanto comunità e si autodefiniva. La propaganda nazista aveva persino creato una linea diretta di continuità tra teatro greco antico e teatro della nuova era del cosiddetto 'Terzo Reich': tra il 1936 e il 1939, il regime aveva fatto edificare dei giganteschi teatri all'aria aperta, chiaramente su imitazione dei teatri greci antichi, chiamati Thingstätten, per spettacoli di massa con un coinvolgimento emotivo di migliaia di partecipanti.
Nel momento in cui, dopo la guerra, il racconto della Shoah diviene pubblico (e questo accade appunto a partire dalla risonanza mediatica mondiale del processo Eichmann, dovuta alla televisione), la ‘tragedia’ della soluzione finale viene mostrata ad un pubblico davvero immenso, per la prima volta globale, che si riconosceva, o avrebbe dovuto riconoscersi, nel provare orrore verso il colpevole. Rispetto all'immanità dei fatti ricordati, ma anche rispetto alla grandiosità della messa in scena del processo, Eichmann appariva semplicemente un uomo, un uomo piccolo e insignificante: la dismisura della sua colpa, come per l’eroe tragico, era proporzionale alla sua limitatezza umana, con il pericolo, di cui le pagine di Arendt sono ben consapevoli, che poi l’eroe potesse uscire assolto perché vittima di un Destino superiore che prescindeva dalla sua volontà.
La tragedia greca, cioè, punto di riferimento della propaganda nazista, adesso serviva da filigrana per raccontare la tragedia della Shoah, rivelando così un paradosso della sua ricezione. Emblematica, da questo punto di vista, la ricezione dell’Antigone di Sofocle che nell’immediato dopoguerra, grazie alla riscrittura di Bertolt Brecht, divenne la tragedia della resistenza tedesca (persino malgrado le asserzioni dello stesso Brecht), o almeno la tragedia della denuncia della volontà di folle dominio di Hitler e di tutti coloro che l’avevano appoggiato, in primis della classe degli industriali, e che avevano spinto nella catastrofe il popolo tedesco. Poco dopo Brecht, Rolf Hochhuth, un drammaturgo a cui Tedesco è legato, con il racconto L’Antigone di Berlino, equiparava l’eroina di Sofocle direttamente a una delle dimenticate protagoniste della resistenza berlinese, decapitata nel teatro-carcere del Plötzenzsee nell’agosto del 1944 insieme ad altri resistenti. Ma proprio l’Antigone era stata la tragedia greca maggiormente rappresentata durante il ‘Terzo Reich’, con un numero notevolissimo di repliche in diverse versioni, sia più fedeli al testo greco sia nella rielaborazione del poeta romantico Friedrich Hölderlin. Antigone poteva essere intesa alternativamente come vittima di un tiranno iniquo oppure come una disfattista, seppur ingenua, incapace di comprendere la Ragion di Stato o ancora come esponente 'pura' della superiore anima greco/ariana uccisa dalla crudeltà di un sovrano dalle fattezze ebraiche, sanguinario come gli ebrei, e giunto al potere senza averne diritto. Lo stesso accade ad Agamennone, che nella trilogia di Eschilo può essere visto, prima della seconda guerra mondiale, come il Re giusto, vittima di congiure di palazzo, con la partecipazione di una crudele casta sacerdotale, il Re ucciso con l’inganno, e invece, dopo la guerra, come il tiranno scellerato e odiato che viene giustamente trucidato.
Una tale ambiguità del tragico greco è insita naturalmente nei racconti mitologici che si mettono in scena, che non sono mai suscettibili di un’interpretazione univoca, e nei quali le grandi questioni della responsabilità umana, della colpa, della libertà di scelta da parte dell’uomo, della necessità rimangono sospese, non sono mai risolte e, anzi, lasciano spazio a interpretazioni alternative. Anche la struttura delle tragedie greche contribuisce a rendere queste opere aperte sul piano ermeneutico: sebbene si debba sempre analizzare tale struttura tragedia per tragedia, in generale tale struttura implica un confronto tra posizioni opposte, rispetto alle quali il coro si limita a prendere atto delle posizioni in gioco, senza apertamente esprimere la propria adesione a una in particolare. Bisogna poi anche dire che l’ambiguità interpretativa della tragedia greca viene enfatizzata in particolare nella cultura tedesca, ma questo è un discorso più complesso.
Torniamo però al nostro 'intreccio di voci'. Qui ci preme dire che la lettura a due voci di Rosario Tedesco e Pasquale di Filippo, con i brevi interventi del ‘coro’ del pubblico che poneva le dieci domande, con il commento del coro del Conservatorio che dava espressione musicale all’atmosfera emotiva della serata, assomiglia a un agone tragico greco e della tragedia greca recupera lo spirito politico e partecipativo, aiutando a combattere l’oblio, imponendo di non dimenticare: Piazzale Loreto, appunto, è a poche centinaia di metri.
Nell'immagine sopra Rosario Tedesco e sotto Pasquale di Filippo
La foto storica di Via Padova è tratta dal libro: Via Padova e dintorni. Identità e storia di una periferia milanese a cura di Uliano Lucas, con testi di Tatiana Agliani e Dino Barra, Amici del Parco Trotter onlus.
Nell'immagine a colori con la 'K', una lettera dal 'giardino dei nomi' del memoriale di Grafeneck dove si ricordano le anonime vittime del programma di eutanasia nazista lì trucidate nel corso del 1940 (oltre 10.600 persone), che sono indicate attraverso simboliche sepolture con le relative lettere dell'alfabeto.
Nella rara, piccola immagine centrale lo spettacolo di Kurt Heynicke, Der Weg ins Reich, del 1935 (uno dei cosiddetti Thingspiel, spettacoli di massa della tradizione tedesca recuperati dal nazismo e interopretati 'alla greca').