La terra seppellisce corpi e immagini di corpi: così la terra di Troia, così la terra di città che un tempo erano etrusche, Vulci e Veio.
Questi luoghi oggi scenari di rovine hanno custodito, dipinte sulla superficie di vasi e scolpite in terracotta, memorie di una fuga resa epica dall’etrusco Virgilio.
In un’anfora, il giovane corpo di un figlio, Enea, si fa amorevolmente carico del corpo vecchio e malfermo del padre. Insieme a loro sono Creusa e il piccolo Ascanio. Pur allontanandosi a grandi passi dalla città in fiamme – presente, anche se non raffigurata – , la sposa e il figlio di Enea tengono fisso lo sguardo non sul cammino di salvezza che confidano di trovare davanti a loro, ma sul corpo di Anchise, che curva le salde spalle di Enea.
Creusa e Ascanio girano i volti all’indietro alla ricerca del vecchio e, così facendo, portano nella scena un contrasto pieno di significato, fra i piedi che avanzano verso il futuro e lo sguardo rivolto al passato come a voler dire che non può esserci futuro se non si ha cura del passato migliore: e Anchise è immagine di questo passato.
Nelle statuine votive di Veio torna più volte il gesto pietoso di Enea di sorreggere sulle spalle il padre mentre questi, a sua volta, abbraccia il viso del figlio per non cadere ma anche per raccontare di un legame ineludibile e saldo.
Passano secoli. Nella Roma di papa Leone X, in un angolo del teatrale affresco vaticano dell’Incendio di Borgo, si riaffaccia la scena corale dei fuggitivi dall’incendio di Troia. Il proscenio è tutto per la forza generosa e umana di un corpo che regge chi, piegato dagli anni e dal dolore di una città che muore, ha solo la forza di affidarsi incondizionatamente. Nel dipingere l’Incendio, Raffaello trasforma in visione di corpi, gesti, sguardi, colori le visioni sonore custodite dalle parole, dai ritmi dell’esametro, dai silenzi che Virgilio aveva dedicato alla tragica fuga da cui avrebbe preso corpo Roma.
Luglio 2021. Dopo mesi sconvolti da un’epidemia che è divampata nelle nostre vite con la potenza sovvertitrice di un incendio, in una sera d’estate ho visto scorrere nei miei occhi La caduta di Troia. Nel magico scenario milanese dei Bagni misteriosi, chi dal bordo dello specchio d’acqua della piscina liberty, chi dalla platea galleggiante di fronte al palco, siamo stati trasportati tutti nella città di Priamo, tra corpi di vinti in fuga verso una città ignota ma destinata a essere eterna, tra eroi e spose amatissime, tra vecchi padri che assistono impotenti alla strage dei figli per gli oscuri disegni degli dèi, disegni forse troppo divini per essere compresi e accettati da uomini.
Sotto il cielo al tramonto di questo spazio teatrale all’aperto, ho avuto l’impressione che il leggero vento dell’estate si schiudesse alle apparizioni degli dèi, delle ombre dei sogni e dei morti. Ho tremato – e non sono certo stata la sola – alle parole che inscenavano la visione immaginifica dei mostruosi serpenti marini, partoriti dal mare per stritolare senza pietà i teneri corpi innocenti dei figli di Laocoonte.
I prodigi, il clangore delle armi di bronzo assetato di sangue, gli inganni di uomini contro altri uomini: la guerra non conosce fratelli e fa cadere città. «L’antica città, per tanti anni regina, crolla». Quell’epico diventare rovina, quell’accumulo di terra e pietre attraversato dalle «infinite figure della morte» si è reiterato mille volte e in mille luoghi diversi e lontani da Troia, e non smette di ripetersi.
Così ne La caduta di Troia, il ‘classico’ Virgilio si riconferma contemporaneo – come ha detto Massimo Popolizio nel prologo minimo allo spettacolo –. Anche in questo 2021 molte città sono cadute per guerre che non si arrestano, molte vite sono cadute, in senso reale e metaforico, per una pandemia che abbiamo accostato ai morbi ‘classici’ di Troia (Iliade), Tebe (Edipo re), Atene (Storie), come se da queste storie lontane potessero giungere risposte e, dal loro superamento, conforto e speranze; molte città sono state abbattute dalle fiamme voraci di incendi provocati dall’insensata tracotanza di noi uomini verso la natura.
Bene ha fatto Popolizio a non indugiare però in lunghe premesse e ad abbandonarsi subito e, proprio come Anchise, incondizionatamente alla potenza visiva delle parole e dei ritmi di Virgilio, alla sublime qualità ecfrastica della sua poesia (nella traduzione di Mario Ramous).
Le voci create dall’attore hanno ri-creato personaggi, i loro dialoghi, atmosfere, situazioni, stati d’animo. Nell’interpretazione del II libro dell’Eneide, sono stati essenziali anche la musica e il canto di artisti di grande sensibilità, Barbara Eramo, Stefano Saletti, Pejman Tadayon, che hanno tratteggiato paesaggi sonori antichi e arcani usando strumenti a fiato, a corda, membranofoni (kemence, daf, ney, fra gli altri) e cantando in lingue come l’ebraico e il sabir.
La misurata concertazione delle partiture con le voci, le ‘maschere’, i gesti mai gratuiti di Popolizio ha dato vita a una tessitura corale di grande emozione, dove l’«impronunciabile strazio» che Enea rinnova nella mente e nel cuore per Didone (è il famosissimo inizio del II libro), si è rinnovato anche per noi. È stato allora facile credere al racconto.
Con naturalezza si apre il varco all’inganno del cavallo, al legno venato di astute insidie che solo Laocoonte intuisce e sfida, lanciando un giavellotto sul fianco. I Troiani sono sordi al gemito che si sprigiona dal ventre della «macchina fatale» gravida di uomini in armi, di quei Greci che il sacerdote troiano, tragicamente inascoltato, teme «anche se portano doni», come abbiamo imparato a scuola fin da bambini.
Inganno genera inganno. E allora non possono che entrare in scena mistificatori: ecco, dunque, Sinone. Popolizio gli dà sguardi torbidi, traversi, lo ferma in un ghigno subdolo, lo fa parlare con voce fintamente dimessa e tremante, dando valore al «simulando emozioni» con cui Virgilio introduce il personaggio.
Solo uno riconosce l’inganno greco: Laocoonte, il mattatore di una delle scene più memorabili dell’Eneide. È un lampo. Lo strazio della celeberrima visione si intreccia nella mia mente – e sono certa non solo nella mia – al celeberrimo gruppo scultoreo, al dolore pietrificato del veggente e dei suoi figli. I battiti funesti dei tamburi introducono la storia e la scandiscono nei suoi mostruosi attimi; le sibilanti delle parole («striscia», «immensi», «sibilo», …), inevitabili in versi che narrano di serpenti, si intrecciano ai sonagli di un tamburello (suonato da Barbara Eramo) che danno la reale illusione sonora di sibili neri, sanguinari.
«Ruota frattanto il cielo e dall’oceano la notte dilaga, / avvolgendo nella grande ombra la terra e il firmamento». La notte scende anche su Milano. Quasi per magia asseconda l’apparizione onirica di Ettore: disperato, in lacrime, il corpo «nero di polvere e di sangue» incita Enea a fuggire dalla città rossa di fuoco e a seguire il fato che gli affida la fondazione di una nuova Troia. L’immagine di sogno, poi la descrizione del furore dei Troiani che si inoltrano come lupi nel cuore della città, con la certezza della morte nell’animo, Cassandra che alza invano al cielo «gli occhi febbrili», Priamo: Popolizio ci fa entrare in questi furori, ci porta vicino alle immagini evanescenti dei sogni, a rivoli di sangue che trascinano via la vita, come quella del figlio di Priamo, Polite.
La straziante, seconda morte di un figlio davanti agli occhi impotenti di un padre è raccontata in modo sublime da Virgilio. Si potrebbe dire ‘atto’ oppure ‘ciak’, tanto questa poesia ha anche requisiti e pregi di una scrittura teatrale o cinematografica che Popolizio rielabora alla perfezione, facendo di questo quadro di dolore inenarrabile uno dei momenti più indimenticabili de La caduta di Troia.
Nella casa di Priamo, rigata di pianti e trafitta da grida che feriscono le stelle, le donne abbracciano e baciano le porte alla disperata ricerca di protezione. Lo stacco repentino, il cambio di intonazione e di ritmo spalanca le porte alla furia selvaggia del greco Pirro. C’è una pausa di sospensione che dura un attimo ma che è piena di senso perché genera un altro passaggio e un’altra trasformazione, in Virgilio e in Popolizio.
Enea si rivolge a Didone con un espediente retorico finalizzato a coinvolgere di più il pubblico: «Ma forse tu vuoi sapere di Priamo, il suo destino». Appare allora un corpo vecchio, come quello di Anchise, ma nella reggia di Troia sotto assedio non si può sperare di trovare figli che sostengano corpi di padri sulle spalle. Si combatte, si resiste (invano): le spalle «tremule d’anni» di Priamo si fanno carico delle armi indossate in gioventù.
Nell’interpretazione di Popolizio questa scena di vestizione si colora di tenerezza e, allo stesso tempo, di smarrimento perché l’attore fa proprio il toccante sconcerto di Ecuba di fronte alla visione ossimorica del corpo del suo sposo, vestito per un duello impossibile. La furia di Pirro riprende il sopravvento: la sete di sangue non placata colpisce Polite. Furia genera furia. Impossibile restare immobili quando viene «straziato il volto di un padre con la morte» di un figlio – qui la voce in scena sa di sofferenza cupa, ma non rassegnata.
Contro queste parole di Priamo, contro le successive cariche d’ira, contro il vano slancio compiuto dal vecchio padre per uccidere l’assassino di suo figlio, si scaglia una voce rabbiosa. Come se arrivasse dal fondo di una tetra caverna dalle dure pareti di roccia, la voce di Popolizio-Pirro scandisce e al contempo dà lunga eco a una battuta senza appello: «e ora muori».
Nel vedere la morte di Priamo, Enea ripensa al volto amato del padre. Scorrono altre visioni. L’apparizione di sua madre Venere è il punto di svolta per il suo destino. Fra colpi di scena che Popolizio traduce suscitando man mano stupore e commozione, nasce da qui la fuga dalla città. Il tempo degli inganni e dei sospetti letali ormai è concluso ma anche quello della speranza per Troia di rialzarsi. Nuove punte di dolore indelebile si conficcano nel petto dei Troiani in fuga ma in loro si aprono anche squarci di fiducia.
Così Anchise, dopo umanissime resistenze, si fida dei presagi inviati dagli dèi e del figlio e si abbandona docilmente alle sue parole: «padre mio, poniti sulle mie spalle. Io ti sosterrò. Per me questa non sarà fatica». Anche la moltitudine dei vinti fa lo stesso e segue Enea. Manca Creusa. La morte della sposa mentre Troia cade irrimediabilmente, la folle ricerca da parte dell’ignaro Enea, la ripetizione angosciosa del nome, ‘Creusa’: queste scene nella scena sono un assoluto coup de théâtre, che tocca il punto più alto nell’apparizione dell’«immagine di lei».
Qui Popolizio fa sua la forza consolatoria e profetica delle parole che la sposa rivolge allo sposo, la dissolve man mano fino a rendere credibilmente visibile l’illusione della dissolvenza dell’immagine amata che Enea tenta invano di abbracciare. «Come un vento lieve dalle mani mi sfuggì l’immagine. Un sogno, un sogno che svaniva».
Con questo sogno doloroso nel cuore e la consapevolezza che Troia, un tempo potente e splendida, è ormai sangue e polvere, l’Enea di Virgilio solleva il padre e ripete un gesto pietoso, reso memorabile già secoli prima del poeta e rimasto vivo in quelli dopo di lui.
Postilla.
Che l’Eneide sia un poema fatto per essere detto ad alta voce (Popolizio in un’intervista) e che così sia stato fin dall’inizio, che l’Eneide (insieme ad altre opere di Virgilio) abbia anche segnato la storia e la cultura del variegato teatro d’età imperiale è ormai un dato condiviso da molti studiosi (un esempio, Ismene Lada-Richards 2019).
Fra le varie proposte contemporanee dell’Eneide a teatro, La caduta di Troia di Popolizio e Virgilio brucia di Anagoor occupano il podio. La scelta di Popolizio ha però una forza e una valenza etica particolarmente significativa perché il suo spettacolo è coinciso con le molte ‘cadute’ provocate dalla pandemia (si veda anche https://www.raiplay.it/video/2021/03/Teatro---La-caduta-di-Troia-893f6354-df34-4c4b-a59d-561c4ca890de.html) e implicitamente risente di questo evento spartiacque, spartiacque proprio come la fine di Troia. C’è poi un’altra ragione. La caduta è coincisa con un altro spettacolo, Furore di John Steinbeck. Anche qui si rivive in scena una fuga, si riascoltano dolori e speranze di uomini, si immaginano città spazzate via. La tragica fuga di Furore è stata compiuta realmente ma, non per questo, è meno epica e lirica di quella di Enea. Protagonisti sono i contadini americani degli anni Trenta del secolo scorso, vinti dal furore della natura, dal destino, dalla cieca prevaricazione di uomini (cosiddetti) forti e vincenti. L’invito è vedere entrambi gli spettacoli per entrare dentro dimensioni ancora assolutamente vive e palpitanti, per comprenderle, per capire come agire. Per agire.
La caduta di Troia – dal libro II dell’Eneide
Interpretazione e adattamento Massimo Popolizio
Musiche dal vivo eseguite da Stefano Saletti, Barbara Eramo, Pejman Tadayon
Strumenti musicali: kemence, daf, ney, oud, bouzouki, bodhran. Canti in ebraico, ladino, aramaico, sabir
Produzione Compagnia Orsini
Teatro Franco Parenti, Bagni Misteriosi – 6 luglio 2021
Le traduzioni di versi dell’Eneide, qui citati, sono di Mario Ramous (Virgilio. Eneide, Marsilio, Venezia 2016³) e di Vittorio Sermonti (L’Eneide di Virgilio, BUR, Milano 2017⁶).
Le immagini de La caduta di Troia sono tratte da https://www.dejavublog.it/teatro-e-musical/teatro/la-caduta-di-troia-rai-5-massimo-popolizio/. La foto di Popolizio insieme ai musicisti è dell’amica Barbara Bianchi, che ringrazio.
Le altre immagini sono tratte da: anfora etrusca di Praxias (470-460 a.C.), da Vulci (München, Staatliche Antikensammlungen 3185): https://www.aeneasroute.org/il-mito/; statuetta fittile dal Santuario di Portonaccio (Veio; 450-430 a. C. ca. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia): https://www.facebook.com/VillaGiuliaRm/posts/stretti-in-un-abbraccio-enea-e-anchise-in-fuga-da-troia-sono-lemblema-di-questo-/3548176251865082/; l’immagine parziale dall’Incendio di Borgo: https://www.flickr.com/photos/94185526@N04/25324012688; il gruppo statuario di Laocoonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/Category:Laocoon#/media/File:Laocoon_and_His_Sons.jpg.